Sagarmatha National Park (Nepal), 6-19 ottobre 2012
Dopo dodici giorni di marcia e altrettanti di riposo, dopo aver
festeggiato il primo genetliaco e il terzo capodanno di quest’anno
(quello ebraico), dopo aver salutato gli israeliani e conosciuto un
inglese, dopo aver aspettato che gli aerei riprendessero a volare, sono
arrivata a Lukla, uno dei punti di partenza del trekking per il Campo
Base dell’Everest. Quel che segue e’ un “diario di bordo” aggiornato
quotidianamente. A differenza di quanto avvenuto in Mongolia, dove tempo
e luoghi hanno perso significato, qui ogni giorno ha preso il nome di
un paese, ogni distanza, ogni dislivello, ogni tempo di percorrenza e’
stato programmato e tenuto sotto controllo. O almeno, ci si e’ provato.
Poi la realta’ ha stravolto i piani, come sempre, comunque e’ stato uno
dei momenti piu’ belli: mettersi di fronte alla cartina, segnare le
tappe, organizzare, pregustare e poi, finalmente, partire.
Primo giorno: da Kathmandu a Phakding (con volo a Lukla).
Sono qui. Ma non l’ho ancora ben realizzato. Questa attesa
interminabile deve avermi fatto perdere la speranza al punto che neppure
adesso mi sembra di essere partita. Abbiamo aspettato per cinque giorni
che decollasse un aereo per Lukla. Tutti i voli cancellati causa
maltempo. Proviamo domani, riproviamo domani, magari domani ancora…
davvero non ci credevo piu’. E invece il giorno e’ arrivato, il cielo su
Lukla si e’ aperto per qualche ora, gli aerei sono ripartiti e noi
siamo arrivati all’inizio del trekking. Due ore di nepali flat per
iniziare con calma e il primo giorno puo’ gia’ essere depennato.
Il mio compagno di viaggio questa volta e’ Jason, un ragazzo inglese dalla parlantina sciolta conosciuto a Kathmandu; ha passato una giornata intera a fare il “verso dei pirati”: il classico “ARRR!!” con il pugno chiuso fatto oscillare nel vuoto, con tanto di relative battute sui pirati che ne giustificassero l’uso: “Why do pirates visit the Cappella Sistina? ‘cause they like the ARRRchitecture!” “Wich is pirates’ favorite football team? ARRRsenal!” “Why are pirates called pirates? ‘cause they ARRRR!” questo sarebbe potuto bastare a dissuadermi dall’intraprendere un percorso di quasi due settimane con lui, durante le quali saremo in contatto ventiquattr’ore al giorno… e invece eccoci qui!
In questo primo tratto, lungo il sentiero si incontrano diverse ruote della preghiera. Le ho fatte girare quasi tutte, perche’ sono di buon auspicio e perche’ sono colorate e questo e’ motivo sufficiente per doverci mettere le mani. Su una c’era la scritta “Please turn to purify your soul” e mi suonava un po’ come “Per favore, togliersi le scarpe prima di entrare”; quella l’ho fatta girare un po’ piu’ forte, non tanto per me, che nel zozzume della mia anima, ahime’, ci sguazzo paciosa come un maiale, ma per rispetto. Mi sono tolta il cappello, mi sono pulita le scarpe sullo zerbino e ora sono pronta per varcare la soglia nel rispetto di cio’ che mi circonda.
Il mio compagno di viaggio questa volta e’ Jason, un ragazzo inglese dalla parlantina sciolta conosciuto a Kathmandu; ha passato una giornata intera a fare il “verso dei pirati”: il classico “ARRR!!” con il pugno chiuso fatto oscillare nel vuoto, con tanto di relative battute sui pirati che ne giustificassero l’uso: “Why do pirates visit the Cappella Sistina? ‘cause they like the ARRRchitecture!” “Wich is pirates’ favorite football team? ARRRsenal!” “Why are pirates called pirates? ‘cause they ARRRR!” questo sarebbe potuto bastare a dissuadermi dall’intraprendere un percorso di quasi due settimane con lui, durante le quali saremo in contatto ventiquattr’ore al giorno… e invece eccoci qui!
In questo primo tratto, lungo il sentiero si incontrano diverse ruote della preghiera. Le ho fatte girare quasi tutte, perche’ sono di buon auspicio e perche’ sono colorate e questo e’ motivo sufficiente per doverci mettere le mani. Su una c’era la scritta “Please turn to purify your soul” e mi suonava un po’ come “Per favore, togliersi le scarpe prima di entrare”; quella l’ho fatta girare un po’ piu’ forte, non tanto per me, che nel zozzume della mia anima, ahime’, ci sguazzo paciosa come un maiale, ma per rispetto. Mi sono tolta il cappello, mi sono pulita le scarpe sullo zerbino e ora sono pronta per varcare la soglia nel rispetto di cio’ che mi circonda.
Secondo giorno: da Phakding a Namche Bazaar.
Si inizia a salire. Nulla di troppo faticoso ancora, ma si inizia a
salire. Il paesaggio comincia ad aprire scorci su quel che ci attende
piu’ in alto e in alcuni tratti spuntano monti innevati che si stagliano
nel cielo. Abbiamo dei marshmallow con noi, vogliamo aprirli una volta
arrivatin in cima. Quando ho detto a Jason che mi sentivo in colpa a
spendere cosi’ tanto per dei dolciumi, lui mi ha risposto “Non stiamo
comprando marshmallow: stiamo comprando la motivazione!” li’ per li’ mi
era parsa una buona argomentazione. Ora la promessa di quelle cime
innevate mi pare motivazione migliore.
Terzo giorno: Namche Bazaar.
“Scusi, sa dirmi come si chiama quella montagna?” Mi sono alzata alle
sei e sono uscita con la macchina fotografica, il cielo e’ limpido e la
luce morbida di inizio giornata illumina una cima spolverata di neve
che sovrasta la vallata ancora in ombra “Quale montagna?” “Quella!” Fa
scorrere lo sguardo davanti a se’ come se dovesse cercarla. E’ un enorme
blocco di roccia con un riflettore puntato contro, cosa deve cercare??
“Questa qui davanti! Quella grossa!” “Ah! Ma quello e’ un picco! Sopra i
7000 sono montagne, quella e’ solo 6000: e’ solo un picco!” E’ proprio
tutto relativo a questo mondo…
Oggi giornata di acclimatazione a Namche Bazaar, che significa
fermarsi e dare al proprio corpo il tempo di abituarsi all’altitudine.
Namche Bazaar e’ una Kathmandu in miniatura: pur trattandosi di poche
case colorate nascoste in un angolino di Himalaya che non spicca per
accessibilita’ rispetto agli altri, qui e’ possibile trovare quasi tutto
cio’ che la capitale ha da offrire agli escursionisti. Ma Namche Bazaar
per me non e’ solo un paese piu’ grosso degli altri: e’ una stretta al
cuore; e non per via dell’Irish Pub, delle farmacie, del Reggae Bar o
degli internet point, ma perche’ ci sono case, non casette: case di
pietra e di cemento; perche’ ci sono frigoriferi, congelatori, svariati
computer, forni da pasticceria, piatti di ceramica, tavoli di compensato
e scalinate di pietra. Ok, per il forno da pasticceria hanno usato
l’elicottero, ma per tutto il resto, per ogni insignificante oggetto, ci
sono loro: gli sherpa. Uomini che si caricano sulla schiena pesi che io
faticherei a trascinare, travi di legno, bombole del gas, sacche di
cemento… e si arrampicano fin quassu’. Sono carichi gli uomini, sono
cariche le donne e i ragazzi, sono carichi gli yak e i muli, agghindati
con campanellini, pennacchi e paraocchi colorati. E’ di fronte a questo
sforzo estremo, a questa corrente antigravitazionale di cartilagini che
si consumano in silenzio che mi si stringe il cuore.
Acclimatazione significa anche che sarebbe buona norma salire di
qualche centinaio di metri e poi tornare indietro a dormire. Lo trovo
psicologicamente masochistico, la tentazione di evitarsi la sfacchinata
e’ forte, ma non ho ceduto: meglio pagare in fatica oggi che in
malessere domani. Cosi’ ho imboccato anch’io il sentiero che sale sul
versante su cui e’ incastonata Namche Bazaar. Inizialmente la montagna,
ops, perdon, il picco che domina il versante opposto e’ l’unico
protagonista; poi, man mano che il paese si fa piu’ piccino, iniziano a
sbucare altre cime, alcune rocciose, altre innevate, alcune piu’ vicine e
incoronate da nubi, altre piu’ lontane e spigolose come lame di sega.
Namche Bazaar si fa sempre piu’ lontana, fino a scomparire del tutto
quando si scollina. E li’ e’ come se si aprisse un sipario: a 360 gradi
si e’ circondati da montagne, peccato per la presenza di un
hotel-ristorante che un po’ rovina ma comunque non limita eccessivamente
la visuale. Verso sudest si apre una vallata arginata da un susseguirsi
di sagome di monti che nel controluce del mattino sfumano fino a
scoparire, dando l’impressione che non finiscano mai. Solo oggi, solo
li’ credo di aver realizzato dove sono. Ed e’ stato emozionante, pensare
di star guardando un pezzetto della catena montuosa piu’ alta del
mondo, pensare di esserci sopra, avere di fronte alcune delle cime dai
nomi gia’ sentiti e vederle ora con i miei occhi. Ma non e’ solo questo,
non e’ solo questione di numeri e nomi. E’ che la montagna, con tutto
cio’ che significa –l’ascesa, la solitudine, la meta, la bellezza, la
maestosita’ e qualunque altra cosa significhi per ognuno- la montagna,
con il suo semplice stare li’, smuove qualcosa di profondo. E questo mi
emoziona.
Quarto giorno: da Namche Bazaar a Deboche.
Odio scendere. Perche’ significa che prima o poi bisognera’ risalire,
che sia poco dopo o al ritorno o entrambe le cose, come in questo caso.
E’ alta stagione, c’e’ una bella corrente di persone che grossomodo segue lo stesso percorso; si parte come un flusso di perfetti sconosciuti e strada facendo si formano grumi di amicizie che probabilmente non dureranno piu’ a lungo di questo trekking, ma che contribuiscono a rendere ancor piu’ interessante il cammino. Il nostro e’ un bel gruppo; oltre al mio amico inglese ci sono: una taiwanese appena laureata in infermieristica che vorrebbe lavorare in terapia intensiva, un australiano che parla come Steve Irwin, un irlandese archeologo e fotografo e un italiano con cui per vie piuttosto traverse ho una conoscenza in comune; poi c’e’ una coppia franco-marocchina che pero’ e giustamente mi pare faccia piu’ vita di coppia che di gruppo. Saliamo disordinatamente, ma cerchiamo di fermarci a dormire nello stesso posto per godere della compagnia degli altri durante il pomeriggio e la serata. Non siamo altro che noi stessi, ma ognuno ha attorno un alone di cio’ che e’ casa, cosicche’ ognuno per gli altri e’ un viaggio nel viaggio.
E’ alta stagione, c’e’ una bella corrente di persone che grossomodo segue lo stesso percorso; si parte come un flusso di perfetti sconosciuti e strada facendo si formano grumi di amicizie che probabilmente non dureranno piu’ a lungo di questo trekking, ma che contribuiscono a rendere ancor piu’ interessante il cammino. Il nostro e’ un bel gruppo; oltre al mio amico inglese ci sono: una taiwanese appena laureata in infermieristica che vorrebbe lavorare in terapia intensiva, un australiano che parla come Steve Irwin, un irlandese archeologo e fotografo e un italiano con cui per vie piuttosto traverse ho una conoscenza in comune; poi c’e’ una coppia franco-marocchina che pero’ e giustamente mi pare faccia piu’ vita di coppia che di gruppo. Saliamo disordinatamente, ma cerchiamo di fermarci a dormire nello stesso posto per godere della compagnia degli altri durante il pomeriggio e la serata. Non siamo altro che noi stessi, ma ognuno ha attorno un alone di cio’ che e’ casa, cosicche’ ognuno per gli altri e’ un viaggio nel viaggio.
Quinto giorno: da Deboche a Dingboche.
Sono grata al mio corpo di non patire l’altitudine per ora. Oggi il
sentiero non era assolutamente difficile, ma Jason, dietro di me,
ansimava anche camminando in piano. Abbiamo sbagliato strada e anche di
questo sono grata. Perche’ in questo modo seguiamo lo stesso percorso
dei nostri compagni di serate, ma soprattutto perche’ l’ultimo tratto di
sentiero prima di arrivare a Dingboche, dove non saremmo dovuti
passare, e’ davvero spettacolare.
Durante tutto il giorno l’Ama Dablam dai suoi quasi 7000 metri ci ha
indicato il cammino (non e’ che l’abbia fatto proprio bene se siamo
riusciti a perderci, ma va be’…); l’abbiamo aggirato fino a raggiungere
la vallata in cui sorge il paese. E’ stata una splendida giornata di
sole e aria pungente. Una serata scaldata dal lusso di una doccia, dalla
zuppa al pomodoro, dalle partite a carte e dalla stufa a legna. E poi
la notte. La notte di montagna e’ fredda e silenziosa, qui non c’e’
neppure il Lys. Il mondo per me si esaurirebbe sotto il peso e il tepore
delle coperte, se non fosse per Jason. Dal suo letto mi arriva il suono
del suo respiro accelerato. E mi toglie il sonno. Non riesco ad
ignorarlo, lo paragono al mio come se stessi ascoltando due voci in una
stessa canzone, che pero’ non vanno a tempo. Un mio atto respiaratorio
ne contiene due e un pezzo dei suoi. Mi alzo e lo sveglio. Risponde, sta
bene. Si riaddormenta e dopo poco riparte con lo stesso ritmo. Sono
davvero in pena per lui.
Sesto giorno: Dingboche.
Altra giornata di acclimatazione, altra passeggiata fino a un punto
panoramico. Questa volta tutto attorno era cosi’ bello, ma cosi’ bello,
che salendo ad un certo punto mi sono fermata e ho pianto. Per quattro
montagne cacate?? Si’, per quattro montagne cacate e lo dico senza
vergogna: mi sono emozionata e ho pianto per la bellezza del paesaggio.
Gia’, senza vergogna, comunque fortuna che ero da sola…
Per fare diligentemente i compiti di acclimatazione, sarebbe stato
sufficiente arrivare alla bandiera bianca che segnala i 4700 metri e
invece no, come i miei amichetti prima di me, ho voluto proseguire e
raggiungere la cima, pensando “se mi viene da piangere qui, vuoi mettere
che vista da lassu’?” Quasi mille metri di dislivello patiti uno per
uno mettendo letteralmente un piede davanti all’altro nel punto piu’
ripido, solo la speranza di un panorama mozzafiato come ricompensa; una
salita interminabile interrotta ogni pochi piedi per riprendere fiato
(davvero, mentirei se li chiamassi passi)…
Ho cercato di accelerare vedendo che le nuvole iniziavano a salire
veloci da fondo valle, ma non ce l’ho fatta, sono state piu’ veloci di
me e quando sono arrivata in cima il paesaggio attorno era un A4 bianco.
E che cavolo! Ma pazienza: mi sono seduta sulla roccia fedda, ho
cercato di catturare il volo di alcuni uccellacci neri, ho accettato
senza far domande di essere fotografata da un gruppo di americani (mi
chiedo se cercheranno di spacciarmi per una sherpa una volta tornati a
casa), sono scesa con il vento pungente sulla faccia e le nubi che mi
venivano in contro velocissime e arrivata in paese ho recuperato
Giacomo, il ragazzo italiano, e siamo andati assieme alla bakery perche’
Helen mi ha detto che non si dovrebbe essere soli quando si ha qualcosa
da celebrare. Oggi, undici ottobre, con una fetta di torta al
cioccolato molliccia e l’allegra compagnia dell’accento toscano di
Giacomo, celebro il felice, anzi, il glorioso superamento dei miei primi
5000 metri.
Settimo giorno: da Dingboche a Thukla.
Abbiamo costeggiato il fiume e attraversato per lungo la vallata che
ieri, vista dall’alto, mi ha fatto piangere. Oggettivamente, ad ora, e’
stata in assoluto la giornata piu’ facile: e’ una passeggiata di due
orette che avrebbe dovuto terminare con un unico tratto di salita, ma
che si e’ conclusa prematuramente perche’ Jason non era in condizione di
affrontarlo.
Jason ora non e’ neanche in condizione di fermarsi a questa
altitudine e farebbe meglio a scendere, secondo me. Jason ha preso
questo trekking come un sfida personale e scendere sarebbe una sconfitta
inaccettabile, secondo Jason. E io mi chiedo: l’ego maschile preme
cosi’ tanto sul cervello da comprometterne il funzionamento? Bisogna
aspettare di esser portati giu’ in elicottero prima di accettare il
fatto che forse non si riesce a respirare bene e che, sempre forse,
questo potrebbe in qualche modo costituire un problema? Non e’ un gioco.
E io mi rifiuto di essere sua complice: non ci sono ma, domani
scendiamo.
Per concludere la passeggiata di due orette, noi ne abbiamo impiegate cinque. Cinque ore in cui ho pregato che lui non andasse in edema polmonare nel bel mezzo di quel meraviglioso nulla. Soggettivamente, ad ora, e’ stata in assoluto la giornata piu’ difficile.
Per concludere la passeggiata di due orette, noi ne abbiamo impiegate cinque. Cinque ore in cui ho pregato che lui non andasse in edema polmonare nel bel mezzo di quel meraviglioso nulla. Soggettivamente, ad ora, e’ stata in assoluto la giornata piu’ difficile.
Ottavo giorno: da Thukla a Pheriche.
Scesi. Di poche centinaia di metri, ma e’ gia’ tutta un’altra musica.
Attraversando in direzione opposta la stessa vallata di ieri, ho
pensato addirittura due cose. La prima e’ che questo cambio di
programma, il dover posticipare il volo di ritorno a data da definirsi,
il dover riprogrammare tutto in base a condizioni di salute impossibili
da prevedere e, perche’ no, il fatto di star scendendo pur non essendo
“di ritorno”, mi ha liberata dalla sensazione di dover arrivare da
qualche parte in un tempo prestabilito. Mi sento letteralmente a spasso
sull’Himalaya. E mi piace! Voi andate al Campo Base? Bravi. Anche noi.
Ma prima o poi, con calma, come ci viene. Tanto chi ci corre dietro? Chi
lo sposta il Campo Base?
La seconda cosa che ho pensato e’ che qui l’inverno dev’essere
davvero incredibile. Mi sono immaginata questa valle coperta di neve, il
silenzio attutito, l’odore di freddo. Mi sono immaginata la vita di chi
rimane qui, dei portatori che riforniscono i lodge per gli
escursionisti piu’ intrepidi. Mi sono immaginata a ciaspolare con la
macchina fotografica al collo immersa in un tutone integrale di piumino
rosso. C’e’ una clinica a Pheriche dove un medico inglese si occupa
principalmente di riassemblare chi scende fin qui per il mal di montagna
e di informare chi passa di qui salendo per evitare di vederselo
tornare indietro barcollando. E’ un signore simpatico e gentile, quando
ha finito di visitare Jason gli ho chiesto informazioni su attivita’ di
volontariato in qualche centro sanitario di questi paesini. Chissa’ che
non faccia la pazzia.
Nono giorno: da Pheriche a Lobuche.
Abbiamo passato la giornata di ieri e parte di oggi in un lodge
consigliatoci dal medico gentile: a detta sua un ottimo posto per il
recupero perche’ la stufa nella sala da pranzo rimane quasi sempre
accesa. O forse perche’ in realta’ il proprietario e’ suo cugino,
chissa’, ma poco importa: e’ stata effettivamente una permanenza
piacevole. Durante il giorno il sole batte contro i vetri delle finestre
sui tre lati e sul soffitto di una saletta comune riempiendola di luce e
creando un gradevolissimo effetto serra; i corridoi sono ricoperti di
una moquette spessa e morbida, cosi’ non si e’ mai disturbati dal
passaggio degli altri ospiti, tutti rigorosamente scarponati; il
servizio e’ in generale molto curato, sembra proprio un posto in cui la
gente va a coccolarsi un po’. La sera i pazienti del Dottor Gentile si
ritrovano attorno alla stufa e possono scambiarsi racconti di malattia:
“a me mancava solo in fiato, e’ bastato un antibiotico”, “io ho anche
vomitato”, “lui l’han trovato a terra sul sentiero quasi incosciente”,
“uno ieri e’ morto”.
Oggi, in seguito a rivalutazione e a parere favorevole di medico e paziente, abbiamo ripreso l’ascesa. Lentamente. Mooolto lentamente. E se a questo ritmo apprezzo il fatto di non provar fatica, disprezzo quello di non riuscire a scaldarmi piu’ di tanto.
Oggi, in seguito a rivalutazione e a parere favorevole di medico e paziente, abbiamo ripreso l’ascesa. Lentamente. Mooolto lentamente. E se a questo ritmo apprezzo il fatto di non provar fatica, disprezzo quello di non riuscire a scaldarmi piu’ di tanto.
Siamo entrati nella zona fredda e da qui la situazione peggiorera’
ulteriormente. Sotto il nevischio e spinti da un vento favorevole per
quanto riguarda la direzione, ma assolutamente sfavorevole per quanto
riguarda la temperatura, siamo arrivati in una vallata glaciale. E’
tutto grigio, tutto roccia, tutto immobile e silenzioso e freddo. Ma
incredibilmente suggestivo, per me. Poco prima dell’inizio della valle,
alcune pietre commemorative espongono i nomi di chi e’ passato di qui
per raggiungerne la cima, ma non e’ mai tornato indietro. Lontano, oltre
la valle, si nasconde l’Everest. La pietra commemorativa piu’ alta che
il mondo possa offrire.
Decimo giorno: Lobuche.
Riposo. Domani dovremmo arrivare al Campo Base. Mi sento un po’ come
prima di un esame e non so perche’. Ho paura di patire il freddo.
Undicesimo giorno: da Lobuche a Gorak Shep, con passaggio al Campo Base.
Credo di essermi lasciata stupidamente condizionare da persone
abituate a climi tropicali. E’ vero, fa freddo, soprattutto se si inizia
a camminare alle sei del mattino, quando tutto e’ ancora in ombra e le
pietre rilasciano il gelo accumulato nella notte serena. Fa freddo, ma
non e’ nulla che non abbia gia’ provato.
L’aspetto di cio’ che mi circonda e’ invece per me una novita’
assoluta. Gorak Shep non e’ altro che quattro o cinque rifugi (anche se
qui li chiamano hotel o lodge) circondati da terreno sabbioso e pietre.
Sembra una base spaziale su un pianeta disabitato.
Un sentiero serpeggia verso nord, e’ pietra su pietra, sabbia bianca e
ghiaccio qua e la’. Il ghiaccio mi pare qui protagonista assoluto, ha
spostato e spaccato la roccia a creare vallate e morene, e’ rimasto
incastrato in laghetti solidi, colora di azzurro la base delle montagne
sul lato nord, che poi continuano bianche e maestose verso il cielo.
E in mezzo a questa pietraia ad un certo punto il sentiero si perde e
nel grigio risaltano i colori delle bandiere di preghiera e la scritta:
Everest Base Camp 2012. Siamo arrivati! E’ fatta!! Odio prendere foto
con i cartelli, ma questa era doverosa perche’, Luca, te l’ho promessa.
A fondo valle, sotto il ghiacciaio, ci sono le tende di una
spedizione che a breve tentera’ la scalata dell’Everest. Non possiamo
avvicinarci per evitare di contaminarli con i nostri germi, ma il
pensiero corre inevitabilmente in quella direzione e, anzi, li anticipa
nell’ascesa. Chissa’ essere li’.
Dodicesimo giorno: da Gorak Shep a Pheriche, con passaggio al Kala Pattar.
Il Kala Pattar e’ il passo piu’ alto di questo percorso, nonche’ il
punto da cui e’ possibile apprezzare meglio l’Everest. E’ una salita
abbastanza faticosa per via dell’altitudine a cui ci si trova, l’abbiamo
conquistata pian pianino, quasi a rate viste le numerose soste per
riprendere fiato; Jason dice di stimarmi per la mia pazienza, si e’
attribuito la colpa della nostra lentezza e crede che senza di lui
l’avrei fatta di corsa. Piu’ che lusingarmi mi preoccupa la sua
delirante visione dei fatti data probabilmente dall’ipossia: credo fosse
evidente che con lui, senza di lui o con Messner al mio fianco sarei
stata lenta uguale. Io lo stimo per la sua forza di volota’, perche’ se
per me e’ stata dura, per lui e’ stata peggio, eppure e’ arrivato in
cima.
Da quei 5550 metri, ho pensato che nel mio piccolo non sono mai stata
cosi’ vicina al cielo pur rimanendo con i piedi a terra. E grazie a
Matteo, Andrea e soprattutto a Cinzia, in questi quasi sette mesi non mi
sono mai sentita cosi’ vicina a casa, pur essendo lontanissima.
Tredicesimo giorno: da Pheriche a Namche Bazaar.
Abbiamo iniziato a scendere quasi freneticamente, si potrebbe dire
che abbiamo urgenza di tornare alla comodita’ della vita urbana. Per
quanto mi riguarda e’ piu’ desiderio di tornare ad un’ossigenazione
normale, a temperature superiori e, ultimo ma non meno importante, di
ripristinare un livello di igiene personale socialmente accettabile.
La discesa e’ continuamente interrotta o rallentata da un traffico di
yak carichi di chili e chili di borse, guidati dalle urla, dalle pietre e
dalle frustate dei proprietari. Alle volte i sentieri sono
congestionati dal passaggio di bestie e superarli e’ tutt’altro che
semplice. Yak jam!
Quattordicesimo giorno: da Namche Bazaar a Lukla.
Ultimo tratto di discesa ed e’ finita. Se questo trekking fosse un
film, la scena conclusiva sarebbe questa: una protagonista
sgraziatamente spalmata sulla poltroncina di una bakery a leggere una
rivista nepalese per teenagers, troppo stanca per abbandonare questa
esaltante attivita’ e iniziarne una qualunque altra, fosse anche il
semplice far nulla. Se questo diario fosse un romanzo di formazione, la
considerazione finale, quella in cui si tirano le somme sui limiti
superati e gli sviluppi raggiunti, sarebbe questa: nella mia vita ho
sottoposto il mio corpo a dure, durissime prove; inter rail, allenameti
di atletica, capoeira, acrobatica, turni di dodici ore in divise
sintetiche… ma un fetore simile, giuro, non l’ho mai emanato.