Monday, November 19, 2012

General Compartment



Verso Delhi (India), 3 novembre 2012

Avendo deciso all’ultimo momento di fare bungee jumping, ho dovuto posticipare di un giorno la partenza dal Nepal; che tradotto in termini pratici significa rinunciare ad un viaggio di trentasei ore con un pullman diretto (uno potra’ pensare “qualunque sia il cambiamento la situazione non potra’ esser peggiorata!”) e intraprenderne invece uno di dieci ore di pullman, piu’ tre di jeep, piu’ quindici di treno, piu’ tempi di ricerca e attesa dei suddetti mezzi, piu’ l’ansia di dover passare la frontiera con un visto scaduto (visto, che non c’e’ limite al peggio?).
Scesa dal primo pullman, come sempre, mille persone addosso “Rickshaw?” “Acqua?” “Portatore per le borse?” “Hotel?” “Marjuana?” “Taxi?” “No, no, no, no, grazie ma no” “Rickshaw madame? Rickshaw per la frontiera?” “No, grazie, vado a piedi” “A piedi?? Con lo zaino? Sono due chilometri!” “Ma no che non sono due chilometri… non e’ quel palazzo giallo? Saranno duecento metri!” “Due chilometri, madame!” “Ma se la vedo, e’ li’!” “Due chilometri: solo settanta rupie! E’ lontano, e’ pericoloso!” “Si’, certo. Vado a piedi lo stesso, grazie” dopo venti metri, un altro “Rickshaw madame? Rickshaw per la frontiera? Un chilometro!” ah pero’, come volano! “No, grazie, vado a piedi” duecento metri dopo, palazzo giallo, ecco la frontiera. E sono in India.
Quella di Sanauli e’ la frontiera piu’ caotica che abbia mai visto. E’ un bazar. L’uffico immigrazione indiano e’ incastonato in un susseguirsi di negozietti da cui si distingue solo per il fatto che non ha i pacchetti colorati di patatine e i sacchettini monodose di shampoo appesi all’ingresso. C’e’ un cartello a segnalarlo, ma nel casino di insegne e gente che passa e cose che succedono e’ cosi’ poco visibile che ho dovuto passarci davanti due volte prima di notarlo, e non e’ che qualcuno mi abbia detto o chiesto qualcosa quando l’ho superato la prima volta… avrei potuto confondermi nel via vai e tirare dritto senza alcun problema. Ad ogni modo, una volta sbrigata la burocrazia, nel casino generale ho trovato una jeep con cui arrivare alla citta’ da cui prendere il treno per Delhi e dopo tre ore di viaggio, eccomi alla stazione di Gorakhpur.
Sono quasi le undici di sera. La stazione e’ grande e piena di gente. Gente che cammina, gente che corre ai binari, gente ferma di fronte ai tabelloni delle partenze, ma soprattutto, gente a terra. Ci sono tantissime persone che dormono sdraiate per terra su pezzi di stoffa o direttamente sul pavimento, alcuni (quasi tutte le donne) coperti con lenzuoli colorati da cui spuntano solo piedi immobili. Sembrano salme in attesa del riconoscimento dopo una catastrofe naturale. Sono tantissimi. Sono tantissimi anche i topi, corrono lungo le pareti, attraversano le sale passando tra i corpi distesi, difficilmente passano quindici secondi senza che ne veda uno.

 

La biglietteria e’ uno stanzone molto ampio, per andare a mettermi in coda allo sportello lo attraverso scavalcando la gente che dorme e che occupa gran parte del pavimento, non voglio calpestare nessuno, ma non voglio passare vicino alle pareti: tutto il sudicio e’ accumulato li’, gli angoli puzzano di piscio, in alcuni punti ci sono delle colate rosse contro il muro e un ammasso di poltiglia informe per terra, io non so cosa sia, magari e’ una qualche tintura usata in un qualche rito religioso, non lo so, so solo che sembra che qualcuno abbia partorito contro il muro, il che e’ chiaramente impossibile, ma non riesco a scacciare l’immagine. Dopo qualche tribolazione riesco a chiedere un biglietto per Delhi “Non ci sono posti” come non ci sono posti? L’idea di prendere un treno notturno qui e’ tutt’altro che allettante, ma l’alternativa e’ ritrovarmi a vagare di notte in una citta’ che non conosco per cercare una sistemazione e dover poi ripetere la stessa cosa domani in un’altra citta’ che non conosco; per cui voglio assolutamente prendere questo treno ora “Neanche un posto??” “Non in classe turistica” “E le altre?” “Vediamo…” un barlume di speranza “…neanche in sleeper class” “Nulla nulla?” “Posso darti un biglietto per il general compartment” “Qualunque cosa, voglio solo arrivare a Delhi domani in giornata” “Ok, un biglietto per Delhi, general compartment, treno delle undici e cinquanta. In treno fa attenzione alla borsa…”
Ho difficolta’ a trovare il mio vagone. Porgo il biglietto a un paio di persone che lo ispezionano “Vediamo… general compartment: a fondo treno” e tutti, ma proprio tutti, aggiungono “mi raccomando,  occhio alle tue borse” uno aggiunge anche “Venti rupie” “Venti rupie per cosa?” “Spese di aiuto” “Spese di aiuto??? Per indicarmi il vagone? Non scherziamo, non ti do un soldo!” spese di aiuto, questa mi mancava! Percorrendo tutto il treno per arrivare al mio vagone, capisco che esistono tre classi: la turistic class, una sorta di prima classe con aria condizionata, con posti letto decenti, tutto esaurito; la sleeper class, una sorta di seconda classe senza aria condizionata, con posti letto, tutto esaurito; e poi il general compartment, altrimenti detto “animal class”, senza aria condizionata, senza posti letto, senza limiti di disponibilita’ perche’ quando non ci si puo’ piu’ sedere ci si puo’ ammassare in piedi e per terra come sardine. Viste le condizioni della stazione, non mi stupisce piu’ di tanto che il treno, soprattutto in “animal class”, sia un maledetto porcaio. C’e’ immondizia ovunque, gli angoli sono tutti incrostati di nero, vedo due topi anche qui, dai bagni esce un fetore insopportabile… lungo il corridoio incrocio un signore con un bambino in mano che cerca invano e disperatamente di aprire la porta del bagno; il bambino avra’ otto mesi e con noncuranza gocciola cacca dai pantaloni gia’ completamente intrisi; provo ad aprirgli la porta, ma non ce la faccio, pare incastrata, allora mi offro di tenere il bambino; e cosi’ mi ritrovo con un bambinetto in mano, che mi guarda e gocciola cacca. Non mi piacciono i bambini indiani. I bambini devo essere pacioccosi e stupidi, quelli indiani sono troppo intelligenti, si vede da come si muovono, da come guardano, sembrano adulti in miniatura. Cos’hai da guadare, piccolo genio, eh? Non mi giudicare, sai? Perche’ fino a prova contraria non sono io quella che se l’e’ fatta nei pantaloni, toglimi quegli occhietti maligni di dosso. Il signore rinuncia pure lui, la porta e’ rotta, gli ripasso il bambino e si allontanano verso il bagno successivo. Buona fortuna piccolo genio, spero ci sia sempre qualcuno che si preoccupi di non lasciartici sguazzare dentro.
Quando arrivo al mio posto, mi siedo e mi guardo attorno. I miei compagni di scompartimento sono tutti uomini e tutti mi fissano. Qui gli uomini ti fissano come se fossi una preda. Odio che si sentano in diritto di farlo, senza alcun pudore. Di fronte a me ci sono un vecchio con con la faccia loschissima e un ragazzo con i lineamenti dolci, sull’altro lato c’e’ un signore che dorme appoggiato alla finestra con la testa completametne avvolta in una sciarpa; una scorreggia potentissima rompe il silenzio prorompendo dall’alto, come se arrivasse dal cielo; alzo lo sguardo e mi rendo conto che i miei compagni di viaggio non sono finiti: ci sono due posti letto, due brandine appese a mezzaria dove a me verrebbe da mettere le borse, da una un signore si sporge per fissarmi e sull’altra un altro uomo dorme emettendo sonorosissime flatulenze che ci accompagneranno tutta la notte. Bene. Tre cose mi dico: se hai sonno, te lo tieni; se ti scappa la pipi’, te la tieni; se hai freddo ti tieni pure quello, che per aggiungere uno strato di vestiario dovrei prima togliere il pile che indosso rimanendo un attimo in canottiera e non ho nessuna intenzione di scoprirmi per nessun motivo. Sara’ un viaggio lungo, apro il libro e mi metto a leggere con l’intenzione ben precisa di tirare avanti fino al mattino… resisto a dir tanto mezzora. Nelle ultime quarantotto ore ne ho dormite due: non c’e’ verso che rimanga sveglia se non faccio qualcosa, per cui decido di attaccar bottone con i due uomini seduti di fronte a me; inizio a parlare con quello con i lineamenti dolci, un militare nepalese in servizio in India, poi cerco di coinvolgere anche il vecchio per non dare troppa esclusivita’ al ragazzo che gia’ mi sembra si stia allargando troppo.



Le domande di rito sono sempre le stesse: come ti chiami (what is your good name)? di dove sei? sei sposata? che lavoro fai? come si chiama il tuo Dio? Il mio buon nome e’ Nicole, in genere sono italiana ma posso essere qualunque cosa mi convenga al momento, a volte sono sposata, altre volte il matrimonio e’ imminente, sono sempre un’infermiera e il mio Dio di solito si chiama Cristo, visto che c’e’ proprio bisogno di dare una risposta e che sia semplice. A dirla tutta, i due sono amichevoli con me, ma da quando ho passato la frontiera sento di dovermi proteggere da tutto cio’che mi circonda, sono estremamente sulle difensive, vorrei poter non toccare niente, vorrei che non mi guardasse nessuno, vorrei essere in una boccia di vetro impenetrabile allo sporco, al rumore, alla puzza, alla gente… questo per dire che non mi sento particolarmente predisposta a fidarmi di loro o di chiunque altro; rifiuto con fermezza il te che mi offrono perche’ non mi sento di introdurre nulla nel mio corpo e perche’ voglio ritardare il piu’ possibile la necessita’ di usare il bagno; rifiuto di andare in bagno per non lasciare a loro la custodia dei bagagli; rifiuto di sdraiarmi sul sedile perche’ voglio rimanere appoggiata alla borsa; addirittura nego contro ogni evidenza di avere sonno e freddo. Poi pero’ non ce la faccio, quando si spengono le luci mi infilo nel sacco a pelo (perche’ non mi e’ venuto in mente prima?), rannicchio le gambe sul sedile e mi addormento con il corpo buttato sulle borse. Mi sveglio quando sento che qualcosa mi sta toccando un piede. Per la precisione, si tratta della mano del ragazzo, che si e’ spostato accanto a me per lasciare spazio al vecchio (si’ lo so, lo so… ma mi piace pensare che la sua prima intenzione fosse quella). Gliela scalcio via e lui la lascia scivolare. Gli ho gia’ detto in maniera inequivocabile che non mi deve toccare quando, mentre parlavamo, si era dimostrato gia’ troppo smanaccione. Dopo un attimo la sua mano si ritrova di nuovo accidentalmente sulla mia caviglia. Questa volta gliela prendo e gliela sbatto via. Passa un po’ di tempo e di nuovo sento la sua mano su un polpaccio. No, deve proprio finirla qui. Mi tiro su’ e gli vado contro “Ok, adesso la smetti!! Adesso basta. Non mi devi toccare, hai capito?” lui rimane immobile con lo sguardo basso fisso sul cellulare da cui sta ascoltando la musica; tiro il filo di un auricolare e glielo strappo dall’orecchio “Mi hai sentito?? La devi finire!” “Ok, ok” “No, me l’hai gia’ detto prima ok, ora basta davvero, hai capito?? E guardami! Guardami in faccia perche’ questa e’ l’ultima volta che te lo dico!” “Ok…” ma non mi guarda in faccia, rimane chiuso su se stesso; gli butto addosso l’auricolare,  mi riappoggio sulle mie borse e mi chiedo cosa possa pensare che faccia dopo “l’ultima volta che te lo dico”. Il vecchio, che nel frattempo si e’ disteso sul sedile di fronte, mi guarda e mi sorride. Cos’hai da ridere tu, poi? Realizzo che l’ultima persona che ho sgridato cosi’ probabilmente e’ stata mio fratello, una vita fa, e mi riaddormento pensando nostalgicamente a lui. Mi riaddormento, ma non e’ che proprio dorma davvero: ogni volta che qualcuno passa, che l’uomo sopra di me butta giu’ le ciabatte e scende per andare in bagno, che l’altro scorreggia, che il vecchio cambia posizione, ogni volta mi sveglio e guardo cosa succede, butto un occhio alle borse e alle mie scarpe, controllo il ragazzo per vedere cosa combina (fortunatamente o dorme o si scaccola), poi scivolo di nuovo nel sonno.
Ogni volta che riapro gli occhi la luce si fa piu’ intensa. Poi li apro di nuovo e tutti sono seduti e svegli, il vecchio mi da’ il buongiorno, ricambio tirandomi su’, saluto anche il ragazzo, che prova di nuovo ad offrirmi un te. Questa volta accetto, per riconciliare. Scambiamo qualche parola, il treno rallenta, si ferma, loro salutano e scendono. Rimango sola nello scompartimento. E finalmente corro a fare pipi’. Sono le prime ore del giorno e il mondo fuori dal finestrino e’ un acquerello di campi gialli e arbusti secchi; il sole e’ un cerchietto di luce che buca l’aria densa, c’e’ come una nebbiolina che vela ogni cosa, che riflette e propaga la luce calda; e’ bella, e’ avvolgente. E’ smog. Ma questo lo scopriro’ solo dopo. Incrociamo dei paesini di case diroccate, poi una fila di persone accovacciate a pochi metri dai binari che fanno la cacca sulla ghiaia guardando passare il treno. Il treno ogni tanto rallenta, si ferma, riparte.  Salgono persone a fiumi e in un attimo siamo in millemila, tutti schiacciati gli uni contro gli altri; uno si addormenta contro la mia spalla, il sahari di una donna mi sventola in faccia, mi penzolano sulla testa i piedi di quello seduto di sopra, uno urla “Ciai! Ciai! Ciai! Ciai!!” e si fa strada lungo il corridoio vendendo te, uno mi si sdraia addosso per sporgersi dal finestrino a comprare del cibo da un ragazzino, un altro  passa con vassoi di zuppette e riso, qualcuno lo spinge e lui versa quasi tutto per terra e si mette a urlare, qualcuno passa mendicando, c’e’ chi si scaccola, chi sputa fuori dal finestrino, chi mi offre del cibo, c’e’ odore di curry e di umanita’. 
Il treno riparte, rallenta, si ferma. Tutti sia alzano, spingono, si passano bagagli, qualcuno urla “Chalon! Chalon!!”, tutti parlano, mani entrano dal finestrino porgendo bottiglie d’acqua, patatine, vaschette di cibo, sacchetti di arachidi, qualcuno –in genere un anziano- si innervosisce per qualcosa e inizia a urlare dando spettacolo, la mia generazione se la ride di gusto, la mezza eta’ resta del tutto indifferente, i bambini dormono.  Il treno riparte. Sono di nuovo quasi sola. Rallenta, si ferma. Sale altra gente ed e’ ancora caos. Va avanti cosi’ fino al pomeriggio, la mia stazione e’ l’ultima e sembra non arrivare mai. Sono in questo Paese da meno di ventiquattro ore e gia’ sento che mi ha risucchiato tutte le energie, sono esausta fisicamente e mentalmente. Sopravvissuta al battesimo del fuoco della notte in treno, mi concedo la debolezza di immaginare come sarebbe bello se ci fosse qualcuno ad aspettarmi in stazione. Ma lo so che non succedera’. Pazienza. Mi consolo pensando che a Delhi dovrei rincontrare Martin, uno dei ragazzi con cui ho viaggiato in Cambogia e Vietnam; sono felice all’idea di ritrovare un volto conosciuto.




Sunday, November 18, 2012

Centosessanta metri






Kathmandu (Nepal), 1 novembre 2012

Siamo a cena, di fronte a un piatto di chicken curry e chapati. Clair, una ragazza australiana, racconta un aneddoto a riguardo, Lisa, una ragazza tedesca, segue con un secondo aneddoto e senza rendercene conto stiamo affrontando l’argomento.
“Prima ero eccitata all’idea di farlo, poi una volta li’ mi e’ preso il panico, ho avuto una specie di crisi isterica…”
“Io mi sono proprio bloccata! Ho voluto filmare tutto e nel video si vede che e’ il tipo a spingermi!”
“Anch’io ho il video e nel mio si vede che fa finta di prendermi a calci da dietro!!”
“Io non l’ho mai fatto…”
“Mai??”
“Mai!”
“Devi farlo assolutamente!”
“Facciamolo assieme!!”
“Non so, e’ che costa tanto…”
“Be’, qui ne vale la pena! E rispetto agli altri non costa niente!”
“Ma quando? Non ho piu’ tempo: devo partire perche’ mi scade il visto, ho gia’ il biglietto…”
“Facciamolo domani!”
“State parlando sul serio??”
“In effetti forse non me la sento di rifarlo…”
“Dai!! Sara’ divertentissimo!! Tu devi provare assolutamente se non l’hai mai fatto!”
“…ossignore, state parlando sul serio! …mmm… e va bene, lo faccio!”
“Davvero??”
“Perche’ no? Si’, dai, lo faccio!”
“E il biglietto del pullman?”
“…il biglietto lo cambio!”
“Allora lo rifaccio anch’io!”
“Perfetto!!!”
Cinque minuti per prendere la decisione e meno di trentasei ore dopo, sono li’. Un uomo alle mie spalle mi accompagna aiutandomi ad avanzare; poi mi sussurra “Ricorda: cammina come un pinguino… e vola come un’aquila!” mi spingo (ci provo) e sono nel vuoto.