Verso Delhi (India), 3 novembre 2012
Avendo deciso all’ultimo momento di fare bungee jumping, ho dovuto
posticipare di un giorno la partenza dal Nepal; che tradotto in termini
pratici significa rinunciare ad un viaggio di trentasei ore con un
pullman diretto (uno potra’ pensare “qualunque sia il cambiamento la
situazione non potra’ esser peggiorata!”) e intraprenderne invece uno di
dieci ore di pullman, piu’ tre di jeep, piu’ quindici di treno, piu’
tempi di ricerca e attesa dei suddetti mezzi, piu’ l’ansia di dover
passare la frontiera con un visto scaduto (visto, che non c’e’ limite al
peggio?).
Scesa dal primo pullman, come sempre, mille persone addosso
“Rickshaw?” “Acqua?” “Portatore per le borse?” “Hotel?” “Marjuana?”
“Taxi?” “No, no, no, no, grazie ma no” “Rickshaw madame? Rickshaw per la
frontiera?” “No, grazie, vado a piedi” “A piedi?? Con lo zaino? Sono
due chilometri!” “Ma no che non sono due chilometri… non e’ quel palazzo
giallo? Saranno duecento metri!” “Due chilometri, madame!” “Ma se la
vedo, e’ li’!” “Due chilometri: solo settanta rupie! E’ lontano, e’
pericoloso!” “Si’, certo. Vado a piedi lo stesso, grazie” dopo venti
metri, un altro “Rickshaw madame? Rickshaw per la frontiera? Un
chilometro!” ah pero’, come volano! “No, grazie, vado a piedi” duecento
metri dopo, palazzo giallo, ecco la frontiera. E sono in India.
Quella di Sanauli e’ la frontiera piu’ caotica che abbia mai visto.
E’ un bazar. L’uffico immigrazione indiano e’ incastonato in un
susseguirsi di negozietti da cui si distingue solo per il fatto che non
ha i pacchetti colorati di patatine e i sacchettini monodose di shampoo
appesi all’ingresso. C’e’ un cartello a segnalarlo, ma nel casino di
insegne e gente che passa e cose che succedono e’ cosi’ poco visibile
che ho dovuto passarci davanti due volte prima di notarlo, e non e’ che
qualcuno mi abbia detto o chiesto qualcosa quando l’ho superato la prima
volta… avrei potuto confondermi nel via vai e tirare dritto senza alcun
problema. Ad ogni modo, una volta sbrigata la burocrazia, nel casino
generale ho trovato una jeep con cui arrivare alla citta’ da cui
prendere il treno per Delhi e dopo tre ore di viaggio, eccomi alla
stazione di Gorakhpur.
Sono quasi le undici di sera. La stazione e’ grande e piena di gente.
Gente che cammina, gente che corre ai binari, gente ferma di fronte ai
tabelloni delle partenze, ma soprattutto, gente a terra. Ci sono
tantissime persone che dormono sdraiate per terra su pezzi di stoffa o
direttamente sul pavimento, alcuni (quasi tutte le donne) coperti con
lenzuoli colorati da cui spuntano solo piedi immobili. Sembrano salme in
attesa del riconoscimento dopo una catastrofe naturale. Sono
tantissimi. Sono tantissimi anche i topi, corrono lungo le pareti,
attraversano le sale passando tra i corpi distesi, difficilmente passano
quindici secondi senza che ne veda uno.
La biglietteria e’ uno stanzone molto ampio, per andare a mettermi in
coda allo sportello lo attraverso scavalcando la gente che dorme e che
occupa gran parte del pavimento, non voglio calpestare nessuno, ma non
voglio passare vicino alle pareti: tutto il sudicio e’ accumulato li’,
gli angoli puzzano di piscio, in alcuni punti ci sono delle colate rosse
contro il muro e un ammasso di poltiglia informe per terra, io non so
cosa sia, magari e’ una qualche tintura usata in un qualche rito
religioso, non lo so, so solo che sembra che qualcuno abbia partorito
contro il muro, il che e’ chiaramente impossibile, ma non riesco a
scacciare l’immagine. Dopo qualche tribolazione riesco a chiedere un
biglietto per Delhi “Non ci sono posti” come non ci sono posti? L’idea
di prendere un treno notturno qui e’ tutt’altro che allettante, ma
l’alternativa e’ ritrovarmi a vagare di notte in una citta’ che non
conosco per cercare una sistemazione e dover poi ripetere la stessa cosa
domani in un’altra citta’ che non conosco; per cui voglio assolutamente
prendere questo treno ora “Neanche un posto??” “Non in classe
turistica” “E le altre?” “Vediamo…” un barlume di speranza “…neanche in
sleeper class” “Nulla nulla?” “Posso darti un biglietto per il general
compartment” “Qualunque cosa, voglio solo arrivare a Delhi domani in
giornata” “Ok, un biglietto per Delhi, general compartment, treno delle
undici e cinquanta. In treno fa attenzione alla borsa…”
Quando arrivo al mio posto, mi siedo e mi guardo attorno. I miei
compagni di scompartimento sono tutti uomini e tutti mi fissano. Qui gli
uomini ti fissano come se fossi una preda. Odio che si sentano in
diritto di farlo, senza alcun pudore. Di fronte a me ci sono un vecchio
con con la faccia loschissima e un ragazzo con i lineamenti dolci,
sull’altro lato c’e’ un signore che dorme appoggiato alla finestra con
la testa completametne avvolta in una sciarpa; una scorreggia
potentissima rompe il silenzio prorompendo dall’alto, come se arrivasse
dal cielo; alzo lo sguardo e mi rendo conto che i miei compagni di
viaggio non sono finiti: ci sono due posti letto, due brandine appese a
mezzaria dove a me verrebbe da mettere le borse, da una un signore si
sporge per fissarmi e sull’altra un altro uomo dorme emettendo
sonorosissime flatulenze che ci accompagneranno tutta la notte. Bene.
Tre cose mi dico: se hai sonno, te lo tieni; se ti scappa la pipi’, te
la tieni; se hai freddo ti tieni pure quello, che per aggiungere uno
strato di vestiario dovrei prima togliere il pile che indosso rimanendo
un attimo in canottiera e non ho nessuna intenzione di scoprirmi per
nessun motivo. Sara’ un viaggio lungo, apro il libro e mi metto a
leggere con l’intenzione ben precisa di tirare avanti fino al mattino…
resisto a dir tanto mezzora. Nelle ultime quarantotto ore ne ho dormite
due: non c’e’ verso che rimanga sveglia se non faccio qualcosa, per cui
decido di attaccar bottone con i due uomini seduti di fronte a me;
inizio a parlare con quello con i lineamenti dolci, un militare nepalese
in servizio in India, poi cerco di coinvolgere anche il vecchio per non
dare troppa esclusivita’ al ragazzo che gia’ mi sembra si stia
allargando troppo.
Le domande di rito sono sempre le stesse: come ti chiami (what is your
good name)? di dove sei? sei sposata? che lavoro fai? come si chiama il
tuo Dio? Il mio buon nome e’ Nicole, in genere sono italiana ma posso
essere qualunque cosa mi convenga al momento, a volte sono sposata,
altre volte il matrimonio e’ imminente, sono sempre un’infermiera e il
mio Dio di solito si chiama Cristo, visto che c’e’ proprio bisogno di
dare una risposta e che sia semplice. A dirla tutta, i due sono
amichevoli con me, ma da quando ho passato la frontiera sento di dovermi
proteggere da tutto cio’che mi circonda, sono estremamente sulle
difensive, vorrei poter non toccare niente, vorrei che non mi guardasse
nessuno, vorrei essere in una boccia di vetro impenetrabile allo sporco,
al rumore, alla puzza, alla gente… questo per dire che non mi sento
particolarmente predisposta a fidarmi di loro o di chiunque altro;
rifiuto con fermezza il te che mi offrono perche’ non mi sento di
introdurre nulla nel mio corpo e perche’ voglio ritardare il piu’
possibile la necessita’ di usare il bagno; rifiuto di andare in bagno
per non lasciare a loro la custodia dei bagagli; rifiuto di sdraiarmi
sul sedile perche’ voglio rimanere appoggiata alla borsa; addirittura
nego contro ogni evidenza di avere sonno e freddo. Poi pero’ non ce la
faccio, quando si spengono le luci mi infilo nel sacco a pelo (perche’
non mi e’ venuto in mente prima?), rannicchio le gambe sul sedile e mi
addormento con il corpo buttato sulle borse. Mi sveglio quando sento che
qualcosa mi sta toccando un piede. Per la precisione, si tratta della
mano del ragazzo, che si e’ spostato accanto a me per lasciare spazio al
vecchio (si’ lo so, lo so… ma mi piace pensare che la sua prima
intenzione fosse quella). Gliela scalcio via e lui la lascia scivolare.
Gli ho gia’ detto in maniera inequivocabile che non mi deve toccare
quando, mentre parlavamo, si era dimostrato gia’ troppo smanaccione.
Dopo un attimo la sua mano si ritrova di nuovo accidentalmente sulla mia
caviglia. Questa volta gliela prendo e gliela sbatto via. Passa un po’
di tempo e di nuovo sento la sua mano su un polpaccio. No, deve proprio
finirla qui. Mi tiro su’ e gli vado contro “Ok, adesso la smetti!!
Adesso basta. Non mi devi toccare, hai capito?” lui rimane immobile con
lo sguardo basso fisso sul cellulare da cui sta ascoltando la musica;
tiro il filo di un auricolare e glielo strappo dall’orecchio “Mi hai
sentito?? La devi finire!” “Ok, ok” “No, me l’hai gia’ detto prima ok,
ora basta davvero, hai capito?? E guardami! Guardami in faccia perche’
questa e’ l’ultima volta che te lo dico!” “Ok…” ma non mi guarda in
faccia, rimane chiuso su se stesso; gli butto addosso l’auricolare, mi
riappoggio sulle mie borse e mi chiedo cosa possa pensare che faccia
dopo “l’ultima volta che te lo dico”. Il vecchio, che nel frattempo si
e’ disteso sul sedile di fronte, mi guarda e mi sorride. Cos’hai da
ridere tu, poi? Realizzo che l’ultima persona che ho sgridato cosi’
probabilmente e’ stata mio fratello, una vita fa, e mi riaddormento
pensando nostalgicamente a lui. Mi riaddormento, ma non e’ che proprio
dorma davvero: ogni volta che qualcuno passa, che l’uomo sopra di me
butta giu’ le ciabatte e scende per andare in bagno, che l’altro
scorreggia, che il vecchio cambia posizione, ogni volta mi sveglio e
guardo cosa succede, butto un occhio alle borse e alle mie scarpe,
controllo il ragazzo per vedere cosa combina (fortunatamente o dorme o
si scaccola), poi scivolo di nuovo nel sonno.
Ogni volta che riapro gli occhi la luce si fa piu’ intensa. Poi li
apro di nuovo e tutti sono seduti e svegli, il vecchio mi da’ il
buongiorno, ricambio tirandomi su’, saluto anche il ragazzo, che prova
di nuovo ad offrirmi un te. Questa volta accetto, per riconciliare.
Scambiamo qualche parola, il treno rallenta, si ferma, loro salutano e
scendono. Rimango sola nello scompartimento. E finalmente corro a fare
pipi’. Sono le prime ore del giorno e il mondo fuori dal finestrino e’
un acquerello di campi gialli e arbusti secchi; il sole e’ un cerchietto
di luce che buca l’aria densa, c’e’ come una nebbiolina che vela ogni
cosa, che riflette e propaga la luce calda; e’ bella, e’ avvolgente. E’
smog. Ma questo lo scopriro’ solo dopo. Incrociamo dei paesini di case
diroccate, poi una fila di persone accovacciate a pochi metri dai binari
che fanno la cacca sulla ghiaia guardando passare il treno. Il treno
ogni tanto rallenta, si ferma, riparte. Salgono persone a fiumi e in un
attimo siamo in millemila, tutti schiacciati gli uni contro gli altri;
uno si addormenta contro la mia spalla, il sahari di una donna mi
sventola in faccia, mi penzolano sulla testa i piedi di quello seduto di
sopra, uno urla “Ciai! Ciai! Ciai! Ciai!!” e si fa strada lungo il
corridoio vendendo te, uno mi si sdraia addosso per sporgersi dal
finestrino a comprare del cibo da un ragazzino, un altro passa con
vassoi di zuppette e riso, qualcuno lo spinge e lui versa quasi tutto
per terra e si mette a urlare, qualcuno passa mendicando, c’e’ chi si
scaccola, chi sputa fuori dal finestrino, chi mi offre del cibo, c’e’
odore di curry e di umanita’.
Il treno riparte, rallenta, si ferma. Tutti sia alzano, spingono, si
passano bagagli, qualcuno urla “Chalon! Chalon!!”, tutti parlano, mani
entrano dal finestrino porgendo bottiglie d’acqua, patatine, vaschette
di cibo, sacchetti di arachidi, qualcuno –in genere un anziano- si
innervosisce per qualcosa e inizia a urlare dando spettacolo, la mia
generazione se la ride di gusto, la mezza eta’ resta del tutto
indifferente, i bambini dormono. Il treno riparte. Sono di nuovo quasi
sola. Rallenta, si ferma. Sale altra gente ed e’ ancora caos. Va avanti
cosi’ fino al pomeriggio, la mia stazione e’ l’ultima e sembra non
arrivare mai. Sono in questo Paese da meno di ventiquattro ore e gia’
sento che mi ha risucchiato tutte le energie, sono esausta fisicamente e
mentalmente. Sopravvissuta al battesimo del fuoco della notte in treno,
mi concedo la debolezza di immaginare come sarebbe bello se ci fosse
qualcuno ad aspettarmi in stazione. Ma lo so che non succedera’.
Pazienza. Mi consolo pensando che a Delhi dovrei rincontrare Martin, uno
dei ragazzi con cui ho viaggiato in Cambogia e Vietnam; sono felice
all’idea di ritrovare un volto conosciuto.
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