Il nord della Cambogia ci scivola via cosi’: sotto due ruote. Non e’
piu’ solo pianura, ma collina e il paesaggio ci scorre a fianco piu’ o
meno rapidamente a seconda che si tratti di ruote di scooter o di
bicicletta.
Alcuni giorni fa, Kate ci ha abbandonati per aggregarsi ad un gruppo di ragazze kiwi. Da quando siamo riamasti soli noi tre, le cose hanno preso un ritmo piu’ dinamico a cui in alcuni momenti stento a star dietro, come ogni volta che ci spostiamo in bici. No, no: va benissimo cosi’, non me ne sto lamentando! Non sia mai! Come mi ricordano i miei compagni di viaggio, non ne abbiamo diritto noi che abbiamo “il miglior cuore al mondo” (cit.aritz), noi “donne africane strutturate per portare l’acqua sulla testa per chilometri dal fiume al villaggio. E di corsa.” (cit.martin) In tutto cio’, ad ogni salita se provo a tenere il loro ritmo mi sento morire, loro chiacchierano come dal parrucchiere e io mi arrampico aggrappandomi alla bici, pedalando in piedi con il sudore che mi brucia gli occhi e spreco preziosissime energie per urlare “Vi prego! Ditemi che sono forte!” “Te la stai cavando” “No!! Ditemi che sono forte! Che ce la posso fare, ne ho bisogno!” …un intero villaggio ucciso dalla sete a causa mia. Mi toglie il sonno pensare a cosa sarebbe successo se fossi nata in Africa.
Se il velocipede allena la capacita’ di non lamentarsi, secondo me lo scooter insegna invece l’arte della meditazione. Chiusi nel casco i pensieri inizialmente rimbombano un po’ piu’ forte, poi vanno via via attutendosi con il passare del tempo, fino ad azzerarsi. Alla fine ci si ferma, ci si toglie il casco e sembra di riemergere alla realta’ da una sorta di stato di minima coscienza in cui si era stati risucchiati. Vorrei chiedere a chi va in moto se capita a tutti la stessa cosa. Guidando qui bisogna fare molta attenzione. Cioe’, bisogna sempre e dovunque fare molta attenzione quando si guida, usare sempre il casco, far guidare l’amico sobrio, attraversare guardando a sinistra e a destra e via cosi’… ma in alcuni posti bisogna fare piu’ che molta attenzione. Attenzionissima. Perche’ anziche’ il Codice Stradale, ha vigore il Libro della Giungla: il piu’ grosso mangia il piu’ piccolo. Gli stradoni che collegano le citta’ sono rettilinei d’asfalto separati dai campi su entrambi i lati da due o tre metri di terra battuta. Quando un camion o un pullman decide di superare un altro camion o un altro pullman, poco importa se qualcuno sta arrivando dalla direzione opposta: se e’ piu’ piccolo, problema suo. Con lo scooter ci si ritrova cosi’ in continuazione a dover saltare giu’ dalla strada sulla striscia di terra per evitare l’altrimenti inevitabile frontale. Ogni volta ho poi il terrore che le ruote scivolino nel risalire il dislivello d’asfalto rientrando sulla carreggiata. Quei pochi centimetri mi fanno trattenere il fiato ogni volta, anche se so che non ha senso, che le ruote del motorino non sono come quelle della mia bici di casa…
Quando non guido, come ho gia’ detto, il pensiero mi si annulla. Guardo il paesaggio e i passanti con la capacita’ di giudizio azzerata. Semplicemente guardo e registro delle immagini che mi piacciono. Sono troppo pigra per tirar fuori dallo zaino la macchina fotografica e scattare foto che comunque sarebbero orrende, per cui riempio album fotografici mentali di foto mai scattate. Ad esempio… un uomo alla guida di uno scooter rosso, dietro di lui un bambino e una ragazzina in pigiama che reggono ognuno una canna di bamboo; sulla cima di ogni canna, tenuta ben in verticale, c’e’ un sacchetto nero capovolto; il contenuto non si vede, ma i deflussori che ne scendono e che vanno a infilarsi sotto le maniche dei pigiami non lasciano dubbi: due flebo; terapia infusionale in scooter. Click. Un bue bianco, enorme, un uomo gli sta caricando sul dorso un’asta alle cui estremita’ sono appese due ceste; il campo verdissimo continua a perdita d’occhio dietro di loro; all’orizzonte degli alberi tracciano una linea netta che separa il verde del campo dall’azzurro del cielo; sole, qualche nuvola bianca. Click. Martin ed io sullo scooter, scene di vita coniugale: “Perche’ vai cosi’ forte? Mi sembra di essere di fretta e non riesco a godermi il paesaggio…” “Scusa, e’ che credevo fossi stanca e ti facesse piacere arrivare il prima possibile a casa per riposarti” “Oh, andiamo! Non usarmi come scusa, non lo pensi davvero!” “Non dirmi a cosa non penso!” “No, TU non dirmi cosa non pensi!”. Click. Un uomo in motorino che trasporta, legato dietro, un blocco gigante di ghiaccio; e’ una corsa contro il tempo, il ghiaccio e’ grondante e lancia una scia di gocce dietro di se’. Click. Un camion pieno di maiali. Click. Una moto a terra; un’altra anguria rotta con attaccato un corpo umano. Click (mio malgrado). Il camion di una birra locale, la scritta bianca bordata di blu su sfondo rosso: Anchor, national bier national pride. Click. Un distributore di benzina a bordo strada: il banchetto di legno su cui sono posate le bottiglie di vetro da un litro piene di carburante giallo; di fianco al banchetto, una cassa frigorifero rossa, sicuramente piena di giaccio e lattine. Click.
Assorbo e mi lascio assorbire.
Alcuni giorni fa, Kate ci ha abbandonati per aggregarsi ad un gruppo di ragazze kiwi. Da quando siamo riamasti soli noi tre, le cose hanno preso un ritmo piu’ dinamico a cui in alcuni momenti stento a star dietro, come ogni volta che ci spostiamo in bici. No, no: va benissimo cosi’, non me ne sto lamentando! Non sia mai! Come mi ricordano i miei compagni di viaggio, non ne abbiamo diritto noi che abbiamo “il miglior cuore al mondo” (cit.aritz), noi “donne africane strutturate per portare l’acqua sulla testa per chilometri dal fiume al villaggio. E di corsa.” (cit.martin) In tutto cio’, ad ogni salita se provo a tenere il loro ritmo mi sento morire, loro chiacchierano come dal parrucchiere e io mi arrampico aggrappandomi alla bici, pedalando in piedi con il sudore che mi brucia gli occhi e spreco preziosissime energie per urlare “Vi prego! Ditemi che sono forte!” “Te la stai cavando” “No!! Ditemi che sono forte! Che ce la posso fare, ne ho bisogno!” …un intero villaggio ucciso dalla sete a causa mia. Mi toglie il sonno pensare a cosa sarebbe successo se fossi nata in Africa.
Se il velocipede allena la capacita’ di non lamentarsi, secondo me lo scooter insegna invece l’arte della meditazione. Chiusi nel casco i pensieri inizialmente rimbombano un po’ piu’ forte, poi vanno via via attutendosi con il passare del tempo, fino ad azzerarsi. Alla fine ci si ferma, ci si toglie il casco e sembra di riemergere alla realta’ da una sorta di stato di minima coscienza in cui si era stati risucchiati. Vorrei chiedere a chi va in moto se capita a tutti la stessa cosa. Guidando qui bisogna fare molta attenzione. Cioe’, bisogna sempre e dovunque fare molta attenzione quando si guida, usare sempre il casco, far guidare l’amico sobrio, attraversare guardando a sinistra e a destra e via cosi’… ma in alcuni posti bisogna fare piu’ che molta attenzione. Attenzionissima. Perche’ anziche’ il Codice Stradale, ha vigore il Libro della Giungla: il piu’ grosso mangia il piu’ piccolo. Gli stradoni che collegano le citta’ sono rettilinei d’asfalto separati dai campi su entrambi i lati da due o tre metri di terra battuta. Quando un camion o un pullman decide di superare un altro camion o un altro pullman, poco importa se qualcuno sta arrivando dalla direzione opposta: se e’ piu’ piccolo, problema suo. Con lo scooter ci si ritrova cosi’ in continuazione a dover saltare giu’ dalla strada sulla striscia di terra per evitare l’altrimenti inevitabile frontale. Ogni volta ho poi il terrore che le ruote scivolino nel risalire il dislivello d’asfalto rientrando sulla carreggiata. Quei pochi centimetri mi fanno trattenere il fiato ogni volta, anche se so che non ha senso, che le ruote del motorino non sono come quelle della mia bici di casa…
Quando non guido, come ho gia’ detto, il pensiero mi si annulla. Guardo il paesaggio e i passanti con la capacita’ di giudizio azzerata. Semplicemente guardo e registro delle immagini che mi piacciono. Sono troppo pigra per tirar fuori dallo zaino la macchina fotografica e scattare foto che comunque sarebbero orrende, per cui riempio album fotografici mentali di foto mai scattate. Ad esempio… un uomo alla guida di uno scooter rosso, dietro di lui un bambino e una ragazzina in pigiama che reggono ognuno una canna di bamboo; sulla cima di ogni canna, tenuta ben in verticale, c’e’ un sacchetto nero capovolto; il contenuto non si vede, ma i deflussori che ne scendono e che vanno a infilarsi sotto le maniche dei pigiami non lasciano dubbi: due flebo; terapia infusionale in scooter. Click. Un bue bianco, enorme, un uomo gli sta caricando sul dorso un’asta alle cui estremita’ sono appese due ceste; il campo verdissimo continua a perdita d’occhio dietro di loro; all’orizzonte degli alberi tracciano una linea netta che separa il verde del campo dall’azzurro del cielo; sole, qualche nuvola bianca. Click. Martin ed io sullo scooter, scene di vita coniugale: “Perche’ vai cosi’ forte? Mi sembra di essere di fretta e non riesco a godermi il paesaggio…” “Scusa, e’ che credevo fossi stanca e ti facesse piacere arrivare il prima possibile a casa per riposarti” “Oh, andiamo! Non usarmi come scusa, non lo pensi davvero!” “Non dirmi a cosa non penso!” “No, TU non dirmi cosa non pensi!”. Click. Un uomo in motorino che trasporta, legato dietro, un blocco gigante di ghiaccio; e’ una corsa contro il tempo, il ghiaccio e’ grondante e lancia una scia di gocce dietro di se’. Click. Un camion pieno di maiali. Click. Una moto a terra; un’altra anguria rotta con attaccato un corpo umano. Click (mio malgrado). Il camion di una birra locale, la scritta bianca bordata di blu su sfondo rosso: Anchor, national bier national pride. Click. Un distributore di benzina a bordo strada: il banchetto di legno su cui sono posate le bottiglie di vetro da un litro piene di carburante giallo; di fianco al banchetto, una cassa frigorifero rossa, sicuramente piena di giaccio e lattine. Click.
Assorbo e mi lascio assorbire.
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