Verso Kathmandu (Nepal), 18 settembre 2012
Hanno costruito una strada che unisce questi paesini correndo lungo
in fianco della montagna. Poi il fianco della montagna qua e la’ ha
ceduto portandosi a valle pezzi di terreno. E pezzi di strada. Funziona
cosi’: si prende un autobus con cui si avanza per qualche chilometro di
curve, con il precipizio su un lato. Quando la strada si interrompe, si
scende, si attraversa a piedi il pezzo franato e si raggiunge il secondo
autobus per proseguire. Questo si ripete per tre, quattro volte, a
seconda di quale sia la partenza e quale la destinazione. Ci sono tratti
in cui il percorso in autobus dura dieci minuti e quello a piedi
mezzora, perche’ nessun mezzo di trasporto e’ rimasto intrappolato tra
le due frane. Gli autobus sono sovraffollatti e bisogna cercare di
arrivarci per primi per assicurarsi un posto a sedere, che e’ comunque
scomodo –non c’e’ spazio per le gambe e il sedile generalemente e’
bagnato perche’ i finestrini, se ci sono, non si chiudono bene– ma e’
sempre meglio che star sul tetto quando piove. E’ periodo di monsoni,
quindi c’e’ poco da fare: piove. E’ un po’ una seccatura, ma cosi’
stanno le cose.
Arriviamo ad attraversare uno dei punti franati. Solo che questo, a
differenza degli altri, non “e’ franato”, non “rischia di franare”, ma
STA franando. Ora. E noi dobbiamo attraversare. Si tratta
prevalentemente di una parete rocciosa e pietraia, quindi non c’e’ una
lingua di fango che scivola via da sotto i piedi, ma dall’alto si
staccano a intervalli irregolari pezzi di roccia che rotolano giu’
rimbalzando disordinatamente e rompendosi in pietre piu’ piccole strada
facendo. La frana e’ divisa in due parti: la prima pare ora piu’ sicura,
non sembra venir giu’ nulla; al centro c’e’ un roccione bello compatto e
stabile; la seconda parte e’ quella da cui stan piovendo pietre.
I ragazzi sono rimasti indietro; c’e’ una piccola folla che diminuisce man mano che le persone, percependo il proprio “momento buono”, si decidono ad attraversare. Aspetto un pochino poi, piu’ per fatalismo che per altro, decido di crearmi il mio “momento buono” e andare, prima che la situazione peggiori. “Rajesh, io vado…” “Ok, quando te la senti. Io aspetto gli altri” Me la sento. Attraverso la prima parte e raggiungo il roccione centrale. Ci sono altre persone. Il roccione e’ alto e concavo su questo lato e a meno che non si muova pure lui –cosa davvero poco probabile– offre un riparo sicuro; copre pero’ la visuale su cio’ che sta succcedendo a monte, quindi da qua sotto si vedono le pietre rotolare a valle solo nel momento in cui ci passano davanti. Chi ha gia’ attraversato si e’fermato sul ciglio della frana, da dove e’ possibile vedere a monte e da indicazioni a chi, come me, e’ fermo a riparo del roccione. Urlano sia in nepalese che in inglese. “No… aspetta… aspetta…” e le pietre ci cadono davanti agli occhi “…aspetta…” poi piu’ nulla “VAI!!! Corri! Corri!!” uno o due alla volta ci lanciamo di corsa verso il punto sicuro, guidati dalle loro voci concitate. Quando tocca a me, siamo rimaste solo una ragazza che avra’ la mia eta’ ed io. Aspettiamo il segnale. “No… no… no…” pietre “…no..” una pausa “…aspetta…” altre pietre “…no…” altra pausa “ORA!!” la ragazza scatta e io dietro di lei “corri! corri!” corriamo il piu’ in fretta possibile con gli occhi fissi a terra sul sentiero, senza guardare giu’ verso il precipizio, senza guardare su’dove una folla di gente sta guardando per noi. E il peggio e’ arrivare a meta’ e sentire da una parte loro che battono le mani “Veloce! Veloce!!!” e dall’altra l’irregolare “toc toc-toc” delle pietre che rimbalzano. Ma sono pochi metri. Arriviamo. Arriveranno tutti, non succedera’ niente. Ma una volta raggiunta la strada mi sento il corpo in fiamme e ho come la sensazione di voler piangere o ridere o urlare, di buttare fuori qualcosa, e solo li’ mi rendo conto della tensione che avevo addosso. Guardo il gruppo di uomini che sta ancora urlando a chi deve attraversare… e’ un gruppo allegro. Ridono. Battono le mani per incitare, “Vai!”, “Aspetta!”, fanno battute, indicano un punto in alto, seguono la caduta delle pietre esultando… e se la ridono. C’e’ mica tanto da ridere!!
I ragazzi sono rimasti indietro; c’e’ una piccola folla che diminuisce man mano che le persone, percependo il proprio “momento buono”, si decidono ad attraversare. Aspetto un pochino poi, piu’ per fatalismo che per altro, decido di crearmi il mio “momento buono” e andare, prima che la situazione peggiori. “Rajesh, io vado…” “Ok, quando te la senti. Io aspetto gli altri” Me la sento. Attraverso la prima parte e raggiungo il roccione centrale. Ci sono altre persone. Il roccione e’ alto e concavo su questo lato e a meno che non si muova pure lui –cosa davvero poco probabile– offre un riparo sicuro; copre pero’ la visuale su cio’ che sta succcedendo a monte, quindi da qua sotto si vedono le pietre rotolare a valle solo nel momento in cui ci passano davanti. Chi ha gia’ attraversato si e’fermato sul ciglio della frana, da dove e’ possibile vedere a monte e da indicazioni a chi, come me, e’ fermo a riparo del roccione. Urlano sia in nepalese che in inglese. “No… aspetta… aspetta…” e le pietre ci cadono davanti agli occhi “…aspetta…” poi piu’ nulla “VAI!!! Corri! Corri!!” uno o due alla volta ci lanciamo di corsa verso il punto sicuro, guidati dalle loro voci concitate. Quando tocca a me, siamo rimaste solo una ragazza che avra’ la mia eta’ ed io. Aspettiamo il segnale. “No… no… no…” pietre “…no..” una pausa “…aspetta…” altre pietre “…no…” altra pausa “ORA!!” la ragazza scatta e io dietro di lei “corri! corri!” corriamo il piu’ in fretta possibile con gli occhi fissi a terra sul sentiero, senza guardare giu’ verso il precipizio, senza guardare su’dove una folla di gente sta guardando per noi. E il peggio e’ arrivare a meta’ e sentire da una parte loro che battono le mani “Veloce! Veloce!!!” e dall’altra l’irregolare “toc toc-toc” delle pietre che rimbalzano. Ma sono pochi metri. Arriviamo. Arriveranno tutti, non succedera’ niente. Ma una volta raggiunta la strada mi sento il corpo in fiamme e ho come la sensazione di voler piangere o ridere o urlare, di buttare fuori qualcosa, e solo li’ mi rendo conto della tensione che avevo addosso. Guardo il gruppo di uomini che sta ancora urlando a chi deve attraversare… e’ un gruppo allegro. Ridono. Battono le mani per incitare, “Vai!”, “Aspetta!”, fanno battute, indicano un punto in alto, seguono la caduta delle pietre esultando… e se la ridono. C’e’ mica tanto da ridere!!
Anche la corsa dell’ultimo pullman, quello che ci porta a Kathmandu,
viene bloccata da una frana appena caduta (questa fangosa); ci fermiamo
per un’oretta ad aspettare che ripuliscano la strada. Arrivata in
capitale racconto l’episodio a un ragazzo nepalese e lui commenta tutto
serio dicendo “Strano. In genere non succede.” “Stai scherzando?? Non
succede che frani?” “No, non succede che puliscano in un’ora! Ci sono
frane che son li’ da anni!”
Nepal, Nepal… it’s wild!
Nepal, Nepal… it’s wild!
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