Melbourne (Australia), 17 febbraio 2014
Ho messo
ufficialmente piede su suolo americano il 3 settembre, non senza complicazioni.
Diciamo che la polizia statunitense non è esattamente rinomata per il suo
atteggiamento caloroso ed accogliente, ma non solo: pare abbiano addestrato gli
ufficiali dell’immigrazione estera a spalmare il primo strato di terrore nelle
menti dei viaggiatori, a dare una prima infarinatura generale di disagio.
Infatti
al controllo passaporti durante il mio scalo in Olanda, vedendo che ero diretta
a San Francisco, l’ufficiale ha di colpo assunto un’espressione grave e con il
tono piú duro che potesse permettersi senza risultare verbalmente violento, mi
ha bombardata di domande: “Dove sei diretta? Cosa stai andando a fare negli
USA? Hai intenzione di lavorarci? Qual è la tua professione?” Col senno di poi,
avrei potuto dargli una pacca sulla spalla in segno di cameratismo tra europei
e dirgli “Dai, come se te fregasse qualcosa a te!” ma in quel frangente ho
risposto diligentamente ad ogni domanda forzandomi di sembrare il piú naturale
possibile nel dire la veritá; il risultato é che mentre dicevo “Vado a San
Francisco a trovare un amico, si tratta di un viaggio di piacere, sono
un’infermiera”, sembrava stessi pensando “Non dire che vai a Washington ad
avvelenare Obama, si tratta di un viaggio d’affari legato al traffico d’organi
di seguaci del Falun Gong e gestisci un giro di bordelli nelle peggiori
periferie di Chivasso”.
Perchè
di fronte ad una divisa mi devo sempre sentire dalla parte del torto? Io! Io
che quando viaggio non metto il reggisseno col ferretto per evitare di far
suonare il metal detector!
Ma in
qualche modo, se non il mio atteggiamento, la mia faccia da brava ragazza lo ha
convinto a lasciarmi passare e dopo la traversata atlantica, sono arrivata a
Seattle per l’ultimo scalo, l’ultimo controllo passaporti e l’ingresso
ufficiale su territorio americano.
L’ufficiale dell’immigrazione di Seattle ha attaccato con le solite legittime domande e illegittimo tono intimidatorio: “Dove sei diretta? Cosa stai venendo a fare negli USA? Hai intenzione di lavorarci? Qual è la tua professione?” fin lí tutto bene, le sapevo tutte, poi la sorpresa: “Posso vedere il tuo biglietto di ritorno?” Ops. “Quale biglietto di ritorno??” “Segui il mio collega”con un cenno ha chiamato un altro ufficiale che mi ha portata altrove.
Data
l’attenta preparazione che caratterizza ogni mio spostamento, dev’essermi in
qualche modo sfuggito che fosse necessario avere un biglietto di ritorno per
dimostrare che non si ha intenzione di far la muffa lí. Cosí mi sono ritrovata
in uno stanzino a rispondere a domande improbabili.
“Perchè
stai andando a San Francisco? Come si chiama il tuo amico? Hai il suo numero di
telefono? Di chi è quest’altro numero? Perchè hai il numero di suo fratello? Avete
intenzione di sposarvi? Qual è la tua professione?...”
Fortunatamente,
contattato per telefono, Martin è riuscito a tirarmi fuori dai guai con il
potere della dialettica: “Avete intenzione di sposarvi?” “Oddio, spero proprio
di no!” L’ufficiale si è messo a ridere, mi ha timbrato il passaporto e mi ha
lasciata entrare senza biglietto di ritorno.
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