La tentazione di far finta di nulla e saltare a piè pari gli ultimi mesi è forte, ma non lo faró, perchè significherebbe tralasciare quella che per me è stata una delle parti piú significative di tutto il viaggio: il ritorno.
Ad un certo punto in Indonesia ho iniziato a
sentire crescere il desiderio di tornare, con la stessa se non maggiore
intensitá con cui poco piú di un anno prima avevo sentito quello di partire.
Per cui il 27 aprile, sono salita sun un aereo e sono tornata a casa.
Ora la faccio semplice, in realtá non lo è stato
affatto e non solo perchè il mio aereo era guasto e non è mai decollato (ma questa
è un’altra storia).
Dal momento in cui ho deciso di rientrare, forse per la prima volta dalla partenza, ho provato paura: prima paura di morire, poi paura di tornare ed in fine paura di non poter tornare piú.
Dal momento in cui ho deciso di rientrare, forse per la prima volta dalla partenza, ho provato paura: prima paura di morire, poi paura di tornare ed in fine paura di non poter tornare piú.
Durante i mesi precedenti, mi era capitato spesso
di pensare -e pensarlo sinceramente- “Se muoio adesso, davvero, va bene”,
speravo solo che la gente potesse capire questo: che ero felice in quel luogo e
in quel momento e qualunque fosse stato il prezzo da pagare, a me sarebbe
andato bene, perchè non avrei voluto essere in nessun altro posto e in nessun
altro tempo. Quel che deve succedere succeda.
Quando ho iniziato a proiettarmi nell’immagine di
casa, un altro pensiero ha preso prepotentemente il posto di quella pace
interiore: “Non deve succedermi niente!” non deve succedermi niente non deve
succedermi niente non deve succedermi niente... un pensiero ossessivo e
spaventoso: non deve succedermi niente, non qui, non adesso, che devo andare a
fare merenda al Convitto con Nicole, devo sentir suonare mio fratello, devo
conoscere il piccolo Samuele... Ho iniziato ad aver paura di attraversare la
strada, a usare il taxi anzichè le mototaxi per il terrore del
traffico...
Arrivata sana e salva all’aeroporto di Singapore,
ho finalmente abbandonato il peso dei miei timori, solo per trovarne di nuovi:
la paura di tornare. Che in realtá è un’accozzaglia di contrasti: paura di
essere il centro dell’attenzione e di essere tagliata fuori; paura di scoprirmi
insoddisfatta del mio mondo di sempre e di deludere aspettative altrui; di non
riuscire a condividere quest’esperienza, di aver creato distanze irreparabili;
desiderio di normalitá e paura di dimenticare; paura di sentirmi sola e
desiderio di esserlo.
Insomma, salire sull’aereo è stato un puro atto di
coraggio (non quello guasto, un altro, altrimenti sarebbe stato un puro atto di
follia) e senza saperne nulla sono decollata verso il terzo timore: quello di
non riuscire piú a tornare.
Ho passato i primi giorni in Italia ospite in
Valchiusella aspettandomi forse di sentirmi subito accolta dalla famigliaritá
dei luoghi... invece non mi sono sentita a casa. Ovvio, mi sono detta, qui ci
ho vissuto solo fino ai 12 anni, non è piú casa mia!
Dopo la Valchiusella sono stata ospite per qualche
giorno a Ivrea... e di nuovo non mi sono sentita a casa. Ovvio, mi sono di
nuovo giustificata, qui ci ho vissuto solo fino ai 18 anni, non è piú casa
mia!
Dopo Ivrea sono finalmente arrivata a Torino, dove
ho passato gli ultimi anni della mia vita, dove ho lasciato la mia rete sociale
piú recente e i ricordi piú caldi... ma non mi sono sentita a casa. La terza
paura non é esattamente non riuscire piú a tornare , bensí non avere piú un
posto a cui tornare.
E’ una sensazione estremamente brutta, che mi ha
tenuta una mattinata a riflettere su una panchina di piazza Carlo Alberto,
sola, con lo zaino a finaco e la desolazione in faccia.
E’ stata Natti a farmi capire per prima, e tutti
gli altri poi, che casa per me non é un posto, ma sono i legami con le
persone. E’ una di quelle cose che si leggono nei Baci Perugina e che credevo di
sapere; poi l’ho vissuta sulla mia pelle e ho capito che, no, prima non l’ho
mai saputo davvero.
Non mi sarei mai aspettata di imparare tanto dal
semplice fatto di rientrare: a misurare la mia felicitá usando come metro la
paura della morte, a dare alle relazioni il valore che meritano, a non dire mai
piú ad ognuno dei miei amici “Promettimi che quando torno andiamo a mangiarci
una pizza!”, perchè poi una pizza al giorno non la reggo.
Ma soprattutto, ho imparato a vedere “i miei
luoghi” con l’occhio ancora impostato sulla modalitá viaggio e ne ho colto la
bellezza senza bisogno del filtro dell’esotico. La Valchiusella è incantevole;
a Torino ho davvero apprezzato il sole che si incanala in via Garibaldi al
tramonto, nonostante il riflesso accecante della luce sulla pietra; il modo in cui i
palazzi incorniciano perfettamente la Gran Madre quando da via Po si arriva
verso piazza Vittorio; l’illusione di mare dei Murazzi nei pomeriggi estivi...
quando settembre è arrivato sono partita forse un po’ troppo in anticipo
rispetto alla voglia di partire.
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