Wednesday, March 19, 2014

L'anatomia di Charlie Brown




Melbourne (Australia), 10 febbraio 2014

Ci sono un sacco di posti al mondo da cui, senza motivo alcuno, non mi sento attratta. Gli Stati Uniti sono uno di questi, per cui non avrei mai immaginato di finire un giorno in California. E invece ci sono finita.
Devo dire che un conto é visitare un luogo, un altro è visitare un amico che poi ti presenti il luogo in cui è nato e cresciuto... non c’è modo piú ricco di viaggiare. Grazie ai racconti di Martin, il Sourdough non è solo un tipo di pane tipico di San Francisco, ma “il pane che mio nonno mi faceva annusare per farmi passare il singhiozzo”, Sacramento non è solo la capitale della California, ma “la cittá dove vive mia nonna novantacinquenne innamorata di Antonio Banderas” e i giardini del City Hall diventano “il posto dove mia madre mi portava a dare i panini ai barboni”... è tutto piú colorato, ha tutto piú sapore cosí.
Ho passato due mesi a guardarmi attorno come mio solito, ad assaporare un pochino anche questo Paese, ad ingannare il tempo in palestra (e dove se non qui!) e a confrontarmi con il desiderio sempre crescente di tornare ad essere produttiva. In termini di cosa rimane un po' vago.

Che dire di questi tanto discussi USA? Innanzitutto che il cinema ce ne propone un ritratto piuttosto fedele, nel bene e nel male. Tra storie -che non approfondiró- di droga, case col giardino sul retro e il vialetto davanti, pistole non registrate, adolescenti che scappano di casa, macchinoni, fast food e rap, mi sono ritrovata piú volte a chiedermi se sia la televisione ad influenzare cosí profondamente la societá o se semplicemente si limiti a ritrarla. Spesso mi sono chiesta anche “dove diavolo sono finita?”, ma questo mi capita anche a casa, nulla di nuovo.


Uno degli aspetti piú interessanti di questo viaggio, per me è stato il rendermi conto di quante cose considero "normali” perchè mi sono abituata a vederle in tv, anche se da noi non esistono. Ad esempio, la classica scena vista mille volte in cui due sono seduti al tavolo di una caffetteria (i classici tavoli visti mille volte con lo schienale alto del divanetto contro a quello del divanetto dietro) e passa la cameriera con un grambiulino e una caraffa di caffè in mano a rifornire i bicchieri... ecco, quella cameriera, quella cameriera che vedevo dietro allo schermo e consideravo “normale”, da noi non c’è, non esiste, non funziona cosí. E quei divanetti neppure, ci saranno anche da qualche parte, ma non sono la norma, eppure anziché pensare “a chi è venuto in mente di arredare un ristorante come il vagone di un treno?”, ormai vedo immediatamente un normalissimo ristorante.
O le cassette delle lettere con la bandierina rossa, anche quello è un simbolo che ho interiorizzato tanto da considerarlo “normale”, come se ne avessi sempre avuta una uguale proprio davanti a casa.
O una fila di porte che si affacciano su un balcone lungo, con una scala che scende sul parcheggio di fronte... un motel. Ci vedo subito un motel. Mai visto un motel cosí in Italia! Ma solo quando mi ci sono ritrovata ho pensato “a chi è venuto in mente di costruirlo in modo che non si abbia il minimo controllo di chi entra e chi esce?”
Mi sono davvero sorpresa rendendomi conto di quanto il codice e i simboli del cinema statunitense siano non solo immediatamente decifrabili per me (azzarderei quasi un “per noi”), ma addirittura talmente radicati che solo vedendo la realtá negli Stati Uniti mi sono ricordata che quei simboli, quelle immagini, non si trovano nella realtá italiana.
E’ un po’ come quando si leggono I Peanuts e ci si dimentica che i personaggi non sono anatomicamente realistici, li si vede “normali”. Per me andare in California è stato come ritrovarmi di colpo in un mondo in cui tutti hanno le fattezze di Charlie Brown. Come ho potuto non accorgermi prima che c’era qualcosa di diverso dalla mia realtá?



Un’altra differenza che salta all’occhio sono le misure. Le misure di tutto: della gente, delle case, delle macchine, delle bibite, delle strade, dei divani, delle porzioni. Ora, volendo essere politicamente corretta, nonché oggettiva,  dovrei dire che é tutto piú grande. Ma lasciando libero sfogo a quel che penso realmente, mi viene da dire che è tutto troppo grande. E questa è un’altra questione interessante di cui mi sono resa conto solo lí: per noi grande o grosso non denotano solo una qualitá di un oggetto, ma un atteggiamento della persona che lo possiede. Ovvero: te la tiri.
Hai un Pick-up 4x4 con assetto rialzato? O vivi nel deserto o te la tiri. Ti sei costruito una casa con cinque camere da letto e tre bagni? O gestisci una colonia estiva illegale o te la tiri. Compri il pacco da 18 uova? O hai un ristorante o te la tiri. Per noi (e qui mi sento di dire noi e credo di poterlo allargare a buona parte degli europei) dev’esserci un equilibrio tra la grandezza e l’utilitá, altrimenti si sfora nel superfluo, nello spreco, nello sfoggio.
Credo che ogni giudizio dipenda dal background culturale di chi guarda. Non riesco a spogliarmene, a non pensare che sia tutto troppo grande e a non consideralo spreco, ma ora sono anche piuttosto convinta che dietro non ci sia proprio sempre l’intenzione di sfoggiare. Soprattutto per quanto riguarda le uova.




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