Melbourne (Australia), 10 febbraio 2014
Ci sono un sacco di posti al mondo da cui, senza motivo
alcuno, non mi sento attratta. Gli Stati Uniti sono uno di questi, per cui non avrei mai immaginato di finire un giorno in California. E invece ci
sono finita.
Devo dire che un conto é visitare un luogo, un altro è
visitare un amico che poi ti presenti il luogo in cui è nato e cresciuto... non
c’è modo piú ricco di viaggiare. Grazie ai racconti di Martin, il Sourdough non
è solo un tipo di pane tipico di San Francisco, ma “il pane che mio nonno mi
faceva annusare per farmi passare il singhiozzo”, Sacramento non è solo la
capitale della California, ma “la cittá dove vive mia nonna novantacinquenne
innamorata di Antonio Banderas” e i giardini del City Hall diventano “il posto
dove mia madre mi portava a dare i panini ai barboni”... è tutto piú colorato,
ha tutto piú sapore cosí.
Ho passato due mesi a guardarmi attorno come mio solito, ad assaporare un pochino anche questo Paese, ad ingannare il tempo in palestra (e dove se non qui!) e a confrontarmi con il desiderio sempre crescente di tornare ad essere produttiva. In termini di cosa rimane un po' vago.
Che dire di questi tanto discussi USA? Innanzitutto che
il cinema ce ne propone un ritratto piuttosto fedele, nel bene e nel male. Tra
storie -che non approfondiró- di droga, case col giardino sul retro e il
vialetto davanti, pistole non registrate, adolescenti che scappano di casa,
macchinoni, fast food e rap, mi sono ritrovata piú volte a chiedermi se sia la
televisione ad influenzare cosí profondamente la societá o se semplicemente si
limiti a ritrarla. Spesso mi sono chiesta anche “dove diavolo sono finita?”, ma
questo mi capita anche a casa, nulla di nuovo.
Uno degli aspetti piú interessanti di questo viaggio, per me è stato il rendermi conto di quante cose
considero "normali” perchè mi sono abituata a vederle in tv, anche se da noi non
esistono. Ad esempio, la classica scena vista mille volte in cui due sono
seduti al tavolo di una caffetteria (i classici tavoli visti mille volte con lo
schienale alto del divanetto contro a quello del divanetto dietro) e passa la
cameriera con un grambiulino e una caraffa di caffè in mano a rifornire i
bicchieri... ecco, quella cameriera, quella cameriera che vedevo dietro allo
schermo e consideravo “normale”, da noi non c’è, non esiste, non funziona cosí.
E quei divanetti neppure, ci saranno anche da qualche parte, ma non sono la
norma, eppure anziché pensare “a chi è venuto in mente di arredare un
ristorante come il vagone di un treno?”, ormai vedo immediatamente un
normalissimo ristorante.
O le cassette delle lettere con la bandierina rossa,
anche quello è un simbolo che ho interiorizzato tanto da considerarlo “normale”,
come se ne avessi sempre avuta una uguale proprio davanti a casa.
O una fila di porte che si affacciano su un balcone
lungo, con una scala che scende sul parcheggio di fronte... un motel. Ci vedo
subito un motel. Mai visto un motel cosí in Italia! Ma solo
quando mi ci sono ritrovata ho pensato “a chi è venuto in mente di costruirlo
in modo che non si abbia il minimo controllo di chi entra e chi esce?”
Mi sono davvero sorpresa rendendomi conto di quanto il
codice e i simboli del cinema statunitense siano non solo immediatamente
decifrabili per me (azzarderei quasi un “per noi”), ma addirittura talmente
radicati che solo vedendo la realtá negli Stati Uniti mi sono ricordata che quei
simboli, quelle immagini, non si trovano nella realtá italiana.
E’ un po’ come quando si leggono I Peanuts e ci si
dimentica che i personaggi non sono anatomicamente realistici, li si vede “normali”.
Per me andare in California è stato come ritrovarmi di colpo in un mondo in cui
tutti hanno le fattezze di Charlie Brown. Come ho potuto non accorgermi prima
che c’era qualcosa di diverso dalla mia realtá?
Un’altra differenza che salta all’occhio sono le misure.
Le misure di tutto: della gente, delle case, delle macchine, delle bibite,
delle strade, dei divani, delle porzioni. Ora, volendo essere politicamente
corretta, nonché oggettiva, dovrei dire
che é tutto piú grande. Ma lasciando libero sfogo a quel che penso realmente,
mi viene da dire che è tutto troppo grande. E questa è un’altra questione
interessante di cui mi sono resa conto solo lí: per noi grande o grosso non
denotano solo una qualitá di un oggetto, ma un atteggiamento della persona che
lo possiede. Ovvero: te la tiri.
Hai un Pick-up 4x4 con assetto rialzato? O vivi nel
deserto o te la tiri. Ti sei costruito una casa con cinque camere da letto e tre
bagni? O gestisci una colonia estiva illegale o te la tiri. Compri il pacco da
18 uova? O hai un ristorante o te la tiri. Per noi (e qui mi sento di dire noi
e credo di poterlo allargare a buona parte degli europei) dev’esserci un
equilibrio tra la grandezza e l’utilitá, altrimenti si sfora nel superfluo,
nello spreco, nello sfoggio.
Credo che ogni giudizio dipenda dal background culturale
di chi guarda. Non riesco a spogliarmene, a non pensare che sia tutto troppo grande e a non consideralo
spreco, ma ora sono anche piuttosto convinta che dietro non ci sia proprio
sempre l’intenzione di sfoggiare. Soprattutto per quanto riguarda le uova.
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