Vientiane (Laos), 14 maggio 2012
Io non me la spiego questa predisposizione a ritrovarmi in situazioni
che non hanno senso, fatto sta che sono sul marciapiede di una strada
nel centro di Vientiane e ho in mano un sacchetto. Dentro al sacchetto
c’e’ un sacchettino. Dentro al sacchettino, due denti. Umani. Due
premolari, a voler essere precisi. Entrambi in condizioni scadenti, a
voler essere onesti. Sono le dieci, il traffico che scompiglia le strade
della capitale nelle prime ore del mattino si e’ ormai placato. Chi
doveva correre a lavoro e’ gia’ operativo da diverso tempo e le auto e i
motorini si muovono ora senza fretta. Anche i rari passanti hanno
un’andatura rilassata; qualcuno si ferma a comprare della frutta fresca
al carretto parcheggiato all’angolo, poi continua a camminare pescando
dal sacchetto trasparente con uno stecchino le fette di ananas, mango,
papaia o anguria. Un ragazzo svolta l’angolo, mi guarda e avanza
scoordinatamente verso di me. Vedendo quel che tengo in mano, alza le
braccia al cielo e mi lancia un sorriso. Mi lancia il 94% del suo
sorriso. Il restante 6% e’ in mano mia, nel sacchettino.
Cosa e’ successo? Cosa ho sbagliato per ritrovarmi qui, ora, con in mano questi… questi cosi?? Questa mattina mi sono alzata, mi sono preparata in silenzio, muovendomi con cautela nella penombra della camerata per non svegliare le altre ragazze, e sono scesa a fare colazione. Seduto al tavolino di fianco al mio c’era un ragazzo. “Posso togliermi una curiosita’?” Mi ha chiesto. Sentiamo. “Da dove vieni?” Da dove vieni e’ l’incipit di tutto quando si viaggia. Da dove vieni, dove sei stato e dove vai. Buffo che “come ti chiami” venga dopo queste domande, alle volte addirittura dopo ore di conversazione. Abbiamo iniziato a parlare o meglio, ha iniziato a parlare, da solo. Perche’ se mi parli rivolgendo frontalmente a te lo sguardo, i gesti, le espressioni, mentre io ti sono di fianco, a tre metri di distanza, allora stai parlando da solo. Francese, sulla trentina, indubbiamente un tipo strano. Per dirla come la direbbe Beppe: un tipo un po’ scosso. Mi ha raccontato cose interessantissime: ha fatto un quadro dettagliato della situazione politica ed economica del Laos (dove vive da dieci anni), spiegando gli sviluppi degli ultimi cinque anni, con il senso critico e gli esempi pratici di chi le cose le ha vissute dall’interno. Devo ammettere di aver perso qualche pezzo di discorso, perche’ parlava troppo velocemente, comunque era interessante. Dall’interno del locale il televisore, puntuale, ha iniziato ad erogare l’inno nazionale: le otto in punto. “Forse dovrei andare…” “Anch’io: ho un appuntamento all’ambasciata francese, prima devo fare delle fototessere, poi devo andare in ospedale e…” Ospedale?! Sebbene sia contraria ad andarci in gita turistica con la macchina fotografica al collo, sono sempre molto incuriosita dagli ospedali, vorrei entrare e vedere e chiedere, per confrontare con la realta’ che conosco. Per cui mi e’ sembrata una buona occasione, una buona scusa per varcare le porte: “Posso accompagnarti?” “Non dovevi andare via?” “Devo comprare un computer, posso farlo piu’ tardi.” “Bene allora. Dopo l’ospedale posso accompagnarti a comprare il computer per aiutarti ad abbassare il prezzo.” Perfetto! Cosi’ ci siamo incamminati assieme. Gli ho chiesto cosa dovesse fare in ambasciata e mi ha detto di dover rifare il passaporto che ha perso per la terza volta in tre mesi. Gli ho chiesto cosa dovesse fare in ospedale e ha tirato fuori dalla tasca il sacchettino: “Devo rimettere questi!” “Come, prego?” “Rimettere questi! Qui, vedi?” alzandosi il labbro con un dito, a mostrare la finestrella di denti mancanti. Mi ha spiegato di aver ricevuto un cazzotto qualche sera fa, ma non sa da chi e non sa perche’. Non ho fatto altre domande, temendo le risposte. Volevo solo vedere l’ospedale.
Tirare fuori il sacchettino per mostrarmelo e’ stato l’inizio della fine: e’ diventato un continuo posarlo da qualche parte, perderlo, cercarlo, ritrovarlo, metterlo via, tirarlo fuori per controllare che ci fosse e posarlo di nuovo inavvertitamente da qualche parte… un parto. Arrivare all’ambasciata e’ stato un parto. Alla fine ha chiesto a me di custodirlo ed ecco perche’ ho in mano un sacchetto con dentro un sacchettino, con dentro dei denti umani. Lui mi viene in contro e sorride perche’, essendosi dimenticato di averli affidati a me, era tornato di corsa all’ambasciata a cercare i suoi denti, lasciandomi in strada con un frettoloso “Ho dimenticato qualcosa” a cui non ho fatto in tempo a rispondere. “Cercavi questi? Li avevi dati a me!” “Meno male!” Eh, meno male, andiamo all’ospedale dai…
Le dieci. Camminiamo sotto un sole gia’ prepotentemente alto, la temperatura salira’ ancora e nelle prossime ore la citta’ rallentera’ ulteriormente il suo ritmo. Il bello di Vientiane e’ che tutto cio’ che serve e’ raggiungibile a piedi. Passiamo davanti a templi, ministeri, mercati, universita’, musei… e il mio compagno di strada mi spiega miliardi di cose, e’ come avere una guida, un Cicerone che passa dal raccontarti lo stile di vita della famiglia di un ministro (l’ex moglie era iparentata con chissa’ chi), al farti notare la bellezza di una casa coloniale disabitata e un po’ nascosta da manifesti pubblicitari e palazzi piu’ moderni. Sono sinceramente interessata a quel che dice, ma riesco a coglierne solo il senso generale. Di solito non ho difficolta’ con il francese, resta pero’ il fatto che non e’ la mia prima lingua e lui parla troppo, troppo velocemente per me. Parla a bassa voce e senza guardarmi, credo faccia anche delle battute, perche’ ogni tanto se la ride da solo. Una o due volte gli ho chiesto di ripetere, ma mi ha risposto irritato, per cui ho smesso di farlo: la mia Arianna non vuole condividere con me il filo del suo discorso e io cammino a casaccio in questo labirinto urbano facendo finta di niente anche quando non capisco nulla, tanto non mi fa mai domande.
Arriviamo all’ospedale e veniamo sballottati da un piano all’altro, da un ufficio all’altro, alla ricerca di un suo amico anestesista. Il sacchettino intanto e’ tornato in mano sua, per essere sventolato davanti al naso di infermiere e segretarie: “Questi, devo rimettere questi! Ma voglio che sia lui a farmi l’anestesia!”. All’ultimo tentativo, il sacchettino non compare. Si e’ smaterializzato per l’ennesima volta. Sono sicura che l’abbia messo in tasca, ma lui dice di non sentirlo. Sara’ caduto mentre venivamo qui? No, ce l’hai in tasca. L’avro’ dimenticato all’altra segreteria? Secondo me ce l’hai in tasca. Ma posso mica perquisirlo. Ripercorriamo in senso contrario gli ultimi corridoi sondando il pavimento con lo sguardo “Li ho persi! Sono arrivato fin qui e li ho persi! Mi metteranno dei denti di coniglio ora!” “Andiamo, dei denti di coniglio!! Guarda, non ti rimetteranno neanche i tuoi, ma ti faranno delle protesi, per cui non e’ grave se non li ritrovi… ” Arriviamo all’altra segreteria; mentre chiede se qulcuno abbia visto i suoi denti ripercorre i gesti fatti in quello stesso punto, la mano entra in una tasca dei jeans… e ne esce con il sacchettino. Non dico niente. Ci giriamo e torniamo all’ultimo sportello. “Non e’ possibile! Sempre cosi’, la mia vita non e’ altro che questo! Sempre!” “Chissenefrega, non ci pensare, l’importante e’ che tu li abbia ritrovati…” L’anestesista, scopriamo alla fine, e’ impegnato in sala operatoria per cui non puo’ riceverci. Ripasseremo nel pomeriggio. Nel frattempo possiamo pensare al mio computer.
Lo sbalzo termico e’ assassino quando si entra nel mercato nuovo: un palazzone climatizzato che di fatto altro non e’ che un cento commerciale, sorto ad un angolo del mercato vecchio. Il computer l’ho gia’ addocchiato ieri e ho abbassato il prezzo di una cinquantina di dollari. Con l’aiuto del mio interprete, che parla perfettamente lao, riprendiamo le trattative e riusciamo a scendere ulteriormente. Concordato il prezzo, resta solo da cambiare la lingua del sistema operativo. La cosa potrebbe richiedere del tempo. “Se hai altro da fare posso aspettare da sola…” “No, assolutamente, devo solo tornare in ospedale, ma e’ presto…” Passano dieci minuti e inizio a cogliere segni di impazienza nel suo corpo. “Vuoi andare in ospedale? Posso aspettare da sola, davvero…” “No, non voglio andarci da solo, ho paura dell’anestesia, preferisco che ci sia qualcuno…” Passano altri dieci minuti e inizia a chiedere insistentemente quanto tempo manchi alla fine “Senti, non importa, andiamo in ospedale e lascio qui il computer, posso tornare a prenderlo domani.” “No, ho detto che aspetto con te, aspettiamo!” Altri minuti. E’ sempre piu’ nervoso, irritato, si rivolge malamente alla negoziante per chiederle ancora quanto manchi “Ancora un pochino…” a questo punto si alza dalla sedia di scatto e urla “Non e’ ancora finito! Non e’ ancora finito, merda! Sai cosa ti dico? Io vado in ospedale, tu stai qui ad aspettare…” si allontana veloce a pugni stretti continuando a urlare “E’ la mia vita, cazzo! Io me ne vado! A mai piu’!” pochi secondi, poi sparisce. La negoziante e’ pietrificata, ha capito nonostante non abbia colto una parola, perche’ la sfuriata era in francese. Mi guarda, boccheggia, mi chiede “E’ tuo amico?” “Oh, non si preoccupi” “Mi dispiace, e’ che ci vuole tempo…” “Non si preoccupi, davvero” “Non posso farci niente, ma manca poco…” “Non ci pensi, non e’ successo nulla”. Faccio di tutto per convincerla che davvero non mi importa di dover aspettare: chiacchieriamo, mi faccio un giro, leggo. Invano. Alla fine, tra mille scuse per l’attesa, mi regala anche il mouse.
Cosa e’ successo? Cosa ho sbagliato per ritrovarmi qui, ora, con in mano questi… questi cosi?? Questa mattina mi sono alzata, mi sono preparata in silenzio, muovendomi con cautela nella penombra della camerata per non svegliare le altre ragazze, e sono scesa a fare colazione. Seduto al tavolino di fianco al mio c’era un ragazzo. “Posso togliermi una curiosita’?” Mi ha chiesto. Sentiamo. “Da dove vieni?” Da dove vieni e’ l’incipit di tutto quando si viaggia. Da dove vieni, dove sei stato e dove vai. Buffo che “come ti chiami” venga dopo queste domande, alle volte addirittura dopo ore di conversazione. Abbiamo iniziato a parlare o meglio, ha iniziato a parlare, da solo. Perche’ se mi parli rivolgendo frontalmente a te lo sguardo, i gesti, le espressioni, mentre io ti sono di fianco, a tre metri di distanza, allora stai parlando da solo. Francese, sulla trentina, indubbiamente un tipo strano. Per dirla come la direbbe Beppe: un tipo un po’ scosso. Mi ha raccontato cose interessantissime: ha fatto un quadro dettagliato della situazione politica ed economica del Laos (dove vive da dieci anni), spiegando gli sviluppi degli ultimi cinque anni, con il senso critico e gli esempi pratici di chi le cose le ha vissute dall’interno. Devo ammettere di aver perso qualche pezzo di discorso, perche’ parlava troppo velocemente, comunque era interessante. Dall’interno del locale il televisore, puntuale, ha iniziato ad erogare l’inno nazionale: le otto in punto. “Forse dovrei andare…” “Anch’io: ho un appuntamento all’ambasciata francese, prima devo fare delle fototessere, poi devo andare in ospedale e…” Ospedale?! Sebbene sia contraria ad andarci in gita turistica con la macchina fotografica al collo, sono sempre molto incuriosita dagli ospedali, vorrei entrare e vedere e chiedere, per confrontare con la realta’ che conosco. Per cui mi e’ sembrata una buona occasione, una buona scusa per varcare le porte: “Posso accompagnarti?” “Non dovevi andare via?” “Devo comprare un computer, posso farlo piu’ tardi.” “Bene allora. Dopo l’ospedale posso accompagnarti a comprare il computer per aiutarti ad abbassare il prezzo.” Perfetto! Cosi’ ci siamo incamminati assieme. Gli ho chiesto cosa dovesse fare in ambasciata e mi ha detto di dover rifare il passaporto che ha perso per la terza volta in tre mesi. Gli ho chiesto cosa dovesse fare in ospedale e ha tirato fuori dalla tasca il sacchettino: “Devo rimettere questi!” “Come, prego?” “Rimettere questi! Qui, vedi?” alzandosi il labbro con un dito, a mostrare la finestrella di denti mancanti. Mi ha spiegato di aver ricevuto un cazzotto qualche sera fa, ma non sa da chi e non sa perche’. Non ho fatto altre domande, temendo le risposte. Volevo solo vedere l’ospedale.
Tirare fuori il sacchettino per mostrarmelo e’ stato l’inizio della fine: e’ diventato un continuo posarlo da qualche parte, perderlo, cercarlo, ritrovarlo, metterlo via, tirarlo fuori per controllare che ci fosse e posarlo di nuovo inavvertitamente da qualche parte… un parto. Arrivare all’ambasciata e’ stato un parto. Alla fine ha chiesto a me di custodirlo ed ecco perche’ ho in mano un sacchetto con dentro un sacchettino, con dentro dei denti umani. Lui mi viene in contro e sorride perche’, essendosi dimenticato di averli affidati a me, era tornato di corsa all’ambasciata a cercare i suoi denti, lasciandomi in strada con un frettoloso “Ho dimenticato qualcosa” a cui non ho fatto in tempo a rispondere. “Cercavi questi? Li avevi dati a me!” “Meno male!” Eh, meno male, andiamo all’ospedale dai…
Le dieci. Camminiamo sotto un sole gia’ prepotentemente alto, la temperatura salira’ ancora e nelle prossime ore la citta’ rallentera’ ulteriormente il suo ritmo. Il bello di Vientiane e’ che tutto cio’ che serve e’ raggiungibile a piedi. Passiamo davanti a templi, ministeri, mercati, universita’, musei… e il mio compagno di strada mi spiega miliardi di cose, e’ come avere una guida, un Cicerone che passa dal raccontarti lo stile di vita della famiglia di un ministro (l’ex moglie era iparentata con chissa’ chi), al farti notare la bellezza di una casa coloniale disabitata e un po’ nascosta da manifesti pubblicitari e palazzi piu’ moderni. Sono sinceramente interessata a quel che dice, ma riesco a coglierne solo il senso generale. Di solito non ho difficolta’ con il francese, resta pero’ il fatto che non e’ la mia prima lingua e lui parla troppo, troppo velocemente per me. Parla a bassa voce e senza guardarmi, credo faccia anche delle battute, perche’ ogni tanto se la ride da solo. Una o due volte gli ho chiesto di ripetere, ma mi ha risposto irritato, per cui ho smesso di farlo: la mia Arianna non vuole condividere con me il filo del suo discorso e io cammino a casaccio in questo labirinto urbano facendo finta di niente anche quando non capisco nulla, tanto non mi fa mai domande.
Arriviamo all’ospedale e veniamo sballottati da un piano all’altro, da un ufficio all’altro, alla ricerca di un suo amico anestesista. Il sacchettino intanto e’ tornato in mano sua, per essere sventolato davanti al naso di infermiere e segretarie: “Questi, devo rimettere questi! Ma voglio che sia lui a farmi l’anestesia!”. All’ultimo tentativo, il sacchettino non compare. Si e’ smaterializzato per l’ennesima volta. Sono sicura che l’abbia messo in tasca, ma lui dice di non sentirlo. Sara’ caduto mentre venivamo qui? No, ce l’hai in tasca. L’avro’ dimenticato all’altra segreteria? Secondo me ce l’hai in tasca. Ma posso mica perquisirlo. Ripercorriamo in senso contrario gli ultimi corridoi sondando il pavimento con lo sguardo “Li ho persi! Sono arrivato fin qui e li ho persi! Mi metteranno dei denti di coniglio ora!” “Andiamo, dei denti di coniglio!! Guarda, non ti rimetteranno neanche i tuoi, ma ti faranno delle protesi, per cui non e’ grave se non li ritrovi… ” Arriviamo all’altra segreteria; mentre chiede se qulcuno abbia visto i suoi denti ripercorre i gesti fatti in quello stesso punto, la mano entra in una tasca dei jeans… e ne esce con il sacchettino. Non dico niente. Ci giriamo e torniamo all’ultimo sportello. “Non e’ possibile! Sempre cosi’, la mia vita non e’ altro che questo! Sempre!” “Chissenefrega, non ci pensare, l’importante e’ che tu li abbia ritrovati…” L’anestesista, scopriamo alla fine, e’ impegnato in sala operatoria per cui non puo’ riceverci. Ripasseremo nel pomeriggio. Nel frattempo possiamo pensare al mio computer.
Lo sbalzo termico e’ assassino quando si entra nel mercato nuovo: un palazzone climatizzato che di fatto altro non e’ che un cento commerciale, sorto ad un angolo del mercato vecchio. Il computer l’ho gia’ addocchiato ieri e ho abbassato il prezzo di una cinquantina di dollari. Con l’aiuto del mio interprete, che parla perfettamente lao, riprendiamo le trattative e riusciamo a scendere ulteriormente. Concordato il prezzo, resta solo da cambiare la lingua del sistema operativo. La cosa potrebbe richiedere del tempo. “Se hai altro da fare posso aspettare da sola…” “No, assolutamente, devo solo tornare in ospedale, ma e’ presto…” Passano dieci minuti e inizio a cogliere segni di impazienza nel suo corpo. “Vuoi andare in ospedale? Posso aspettare da sola, davvero…” “No, non voglio andarci da solo, ho paura dell’anestesia, preferisco che ci sia qualcuno…” Passano altri dieci minuti e inizia a chiedere insistentemente quanto tempo manchi alla fine “Senti, non importa, andiamo in ospedale e lascio qui il computer, posso tornare a prenderlo domani.” “No, ho detto che aspetto con te, aspettiamo!” Altri minuti. E’ sempre piu’ nervoso, irritato, si rivolge malamente alla negoziante per chiederle ancora quanto manchi “Ancora un pochino…” a questo punto si alza dalla sedia di scatto e urla “Non e’ ancora finito! Non e’ ancora finito, merda! Sai cosa ti dico? Io vado in ospedale, tu stai qui ad aspettare…” si allontana veloce a pugni stretti continuando a urlare “E’ la mia vita, cazzo! Io me ne vado! A mai piu’!” pochi secondi, poi sparisce. La negoziante e’ pietrificata, ha capito nonostante non abbia colto una parola, perche’ la sfuriata era in francese. Mi guarda, boccheggia, mi chiede “E’ tuo amico?” “Oh, non si preoccupi” “Mi dispiace, e’ che ci vuole tempo…” “Non si preoccupi, davvero” “Non posso farci niente, ma manca poco…” “Non ci pensi, non e’ successo nulla”. Faccio di tutto per convincerla che davvero non mi importa di dover aspettare: chiacchieriamo, mi faccio un giro, leggo. Invano. Alla fine, tra mille scuse per l’attesa, mi regala anche il mouse.
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