Don Det (Laos), 3 giugno 2012
Da quando sono in Laos, in ogni grande città in cui vado, incontro
una ragazza con gli occhi verdi. Ogni volta ci riconosciamo, ci
salutiamo e facciamo qualche battuta chiedendoci chi delle due stia
seguendo l’altra. Nulla di più. L’ultima volta l’ho incontrata a
Paksè, poco prima di spostarmi sulle Siphan Don, ovvero le Quattromila
Isole. Che siano proprio quattromila è tutto da vedere, comunque si
chiamano così; sono un arcipelago di isole e isolette sul Mekong il cui
numero e le cui dimensioni variano a seconda del livello del fiume e
quindi della stagione.
Ho trovato una sistemazione a Don Det, un’isola piccina piccina,
forse la più sfruttata turisticamente, ma anche la più economica. Non
e’ che ci sia molto da fare qui o da vedere, ma non disprezzo l’ozio
preso a piccole dosi: ci si ricarica staccando la spina. Ho passato
qualche giorno in piena solitudine, in una sorta di ritiro spirituale,
godendomi appieno la tranquillità’ dell’isola, i suoi sentierini tra i
campi in cui si incontrano solo bufali, la terra sotto i piedi nudi, i
temporali pomeridiani. Ho lasciato scivolare le ore sonnecchiando
pigramente sull'amaca. Ho ripreso a correre alzandomi all'alba per
evitare il caldo della giornata e ho esplorato in bici le isole vicine.
Durante una delle mie pedalate, attraversando la parte più popolata
dell’isola, chi ho incontrato? Proprio lei: la ragazza con gli occhi
verdi. “Di nuovo tu?” “Di nuovo tu!” “Ho un letto in più nel mio
bungalow” mi ha detto “se vuoi venire sei la benvenuta!” Suona male,
suona molto male, ma in questo contesto e’ la verita’: sono una ragazza
facile. “Mmm… ok!” Ho fatto lo zaino e mi sono spostata. La ragazza con
gli occhi verdi si chiama Kate, ha la mia eta’ ed e’ russa. Si e’
aggregata da poco ad altri due ragazzi con l’idea di andare in Cambogia
assieme. “Se vuoi unirti a noi e’ un piacere!” mi ha detto la prima sera
uno di loro. “Mmm… ok!” Lo so, lo so: una ragazzaccia.
E cosi’ ora faccio parte di questa piccola famiglia itinerante improvvisata, composta da Kate (il capo), Martin (il simpatico), Aritz (il bello) e me.
E cosi’ ora faccio parte di questa piccola famiglia itinerante improvvisata, composta da Kate (il capo), Martin (il simpatico), Aritz (il bello) e me.
Kate e’ molto premurosa e dolce con me e non ne capisco esattamente
il motivo; la mia misoginia mi impedisce di ricambiare esplicitamente le
sue dimostrazioni d’affetto, ma in realta’ mi piace: ha una mente acuta
e una lingua tagliente; e’ quella che pianifica, quella piu’ esigente.
Martin e’ Californiano ed e’ un erogatore di buon umore; lo adoro, e’ il
mio preferito, e’ il preferito di tutti; e’ il cabarettista che
racconta della nonna novantacinquenne infatuata di Antonio Banderas, e’
il maestro che ci spiega con pazienza tutto quel che non sappiamo in
inglese, e’ l’amico di sempre con cui ci si puo’ appartare e parlare per
ore scambiandosi le confidenze piu’ profonde; semplicemente, lo adoro.
Aritz e’ di Minorca ed e’ indubbiamente il ragazzo piu’ bello che abbia
mai conosciuto, secondo i miei canoni; porta in giro la sua perfezione
anatomica con reale disinteresse e scioltezza, quasi ne fosse
inconsapevole; quando vuole sa essere volgare come solo gli spagnoli
possono; assieme lui e Martin lasciano con le lacrime agli occhi. E poi
ci sono io. Io che non sono un animale da branco, chi mi conosce lo sa.
Ma in quattro mi sta bene, e’ il numero massimo. E proviamo anche
l’esperienza del viaggio di gruppo!
In questa settimana si e’ andata delineando la routine che scandisce il tempo delle nostre giornate: corsa mattutina con Martin e Aritz lungo il sentiero che attraversa i campi. Al ritorno, via i vestiti e tuffo diretto nel Mekong, senza fermarsi. Doccia e colazione sulla terrazza sul fiume, dove troviamo Kate ad aspettarci. Da li’ in poi e’ tutto un oziare sui cuscini della terrazza, un po’ chiacchierando, un po’ ascoltando musica o leggendo, un po’ facendoci dei massaggi (in Asia la cultura del massaggio e’ contagiosa: ora appena vedo una schiena nuda mi viene da affondarci le dita…). Per alleviare il caldo del pomeriggio, ogni tanto Martin, Aritz ed io ci alziamo e ci buttiamo nel Mekong. Credo sia uno dei fiumi piu’ inquinati del mondo, mi pare di aver sentito o letto qualcosa del genere da qualche parte. Nuotiamo contro corrente fino a un punto in cui una canna di bamboo segnala alle barche la presenza di un roccione al centro del fiume. Li’ l’acqua ci arriva al petto, la corrente rende difficile stare fermi in piedi sulla roccia. Quel che adoro fare e’ stare a guardare le nuvole tenendomi con le mani alla canna e lasciando galleggiare il corpo: con le nubi che si muovono e l’acqua che scorre, si ha quasi un senso di disorientamento e vertigine, sembra di precipitare verso un punto gravitazionale non definito. Aritz e Martin in acqua giocano, si picchiano, si fanno i dispetti come i bambini. Sentirli, guardarli e lasciarsi coinvolgere e’ un piacere inestimabile, sono momenti di gioia pura, di quella che stringe lo stomaco e riempie la testa con l’intensa consapevolezza di non voler essere in nessun altro presente. Per questo l’inquinamento del Mekong e’ l’ultimo dei miei pensieri.
Intanto si avvicina la data di scadenza del mio visto: tra due giorni varra’ quanto un cartoccio di latte rancido e dovro’ lasciare il Laos. Questo mi rattrista, sinceramente. Non tanto per il fatto di dover ricominciare da zero con la lingua, con la moneta o con l’idea generale di un Paese; ma perche’ in Laos ho trovato un’accoglienza e un’ospitalita’ che mi hanno commossa. Un popolo bello, ma cosi’ bello che andrebbe messo dietro ad una cattedra del mondo e noi tutti dall’altra parte ad imparare. Poi dipende dall’esperienza di ognuno: una volta, in un pullmino, mi sono seduta accanto ad una signora che a meta’ tragitto ha iniziato tirar fuori ogni sorta di frutta e a dividerla equamente ta me e i figli; li’ ho pensato che l’ospitalita’ non e’ altro che questo: culo. Perche’ se mi fossi seduta due sedili piu’ avanti, non mi sarei trovata in quella situazione e non avrei pensato “ma che signora generosa, che gente meravigliosa!”. Quindi si’, e’ questione di culo. Pero’ c’e’ da dire questo: o sono molto, molto fortunata io o il Laos e’ pieno di sedili giusti e di persone giuste a cui sedersi accanto. Credo la seconda.
In questa settimana si e’ andata delineando la routine che scandisce il tempo delle nostre giornate: corsa mattutina con Martin e Aritz lungo il sentiero che attraversa i campi. Al ritorno, via i vestiti e tuffo diretto nel Mekong, senza fermarsi. Doccia e colazione sulla terrazza sul fiume, dove troviamo Kate ad aspettarci. Da li’ in poi e’ tutto un oziare sui cuscini della terrazza, un po’ chiacchierando, un po’ ascoltando musica o leggendo, un po’ facendoci dei massaggi (in Asia la cultura del massaggio e’ contagiosa: ora appena vedo una schiena nuda mi viene da affondarci le dita…). Per alleviare il caldo del pomeriggio, ogni tanto Martin, Aritz ed io ci alziamo e ci buttiamo nel Mekong. Credo sia uno dei fiumi piu’ inquinati del mondo, mi pare di aver sentito o letto qualcosa del genere da qualche parte. Nuotiamo contro corrente fino a un punto in cui una canna di bamboo segnala alle barche la presenza di un roccione al centro del fiume. Li’ l’acqua ci arriva al petto, la corrente rende difficile stare fermi in piedi sulla roccia. Quel che adoro fare e’ stare a guardare le nuvole tenendomi con le mani alla canna e lasciando galleggiare il corpo: con le nubi che si muovono e l’acqua che scorre, si ha quasi un senso di disorientamento e vertigine, sembra di precipitare verso un punto gravitazionale non definito. Aritz e Martin in acqua giocano, si picchiano, si fanno i dispetti come i bambini. Sentirli, guardarli e lasciarsi coinvolgere e’ un piacere inestimabile, sono momenti di gioia pura, di quella che stringe lo stomaco e riempie la testa con l’intensa consapevolezza di non voler essere in nessun altro presente. Per questo l’inquinamento del Mekong e’ l’ultimo dei miei pensieri.
Intanto si avvicina la data di scadenza del mio visto: tra due giorni varra’ quanto un cartoccio di latte rancido e dovro’ lasciare il Laos. Questo mi rattrista, sinceramente. Non tanto per il fatto di dover ricominciare da zero con la lingua, con la moneta o con l’idea generale di un Paese; ma perche’ in Laos ho trovato un’accoglienza e un’ospitalita’ che mi hanno commossa. Un popolo bello, ma cosi’ bello che andrebbe messo dietro ad una cattedra del mondo e noi tutti dall’altra parte ad imparare. Poi dipende dall’esperienza di ognuno: una volta, in un pullmino, mi sono seduta accanto ad una signora che a meta’ tragitto ha iniziato tirar fuori ogni sorta di frutta e a dividerla equamente ta me e i figli; li’ ho pensato che l’ospitalita’ non e’ altro che questo: culo. Perche’ se mi fossi seduta due sedili piu’ avanti, non mi sarei trovata in quella situazione e non avrei pensato “ma che signora generosa, che gente meravigliosa!”. Quindi si’, e’ questione di culo. Pero’ c’e’ da dire questo: o sono molto, molto fortunata io o il Laos e’ pieno di sedili giusti e di persone giuste a cui sedersi accanto. Credo la seconda.
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