Saturday, August 4, 2012

Hanoi in tre ore

Hanoi (Vietnam), 26 luglio 2012


Del centro del Vietnam ricordero’ principalmente il bip di “allarme febbre alta” del mio termometro elettrico. Bip-bip-bip-bip-bip-bip… “Ho capito, ho capito, basta!” “Quanto ho?” “Trentanove e quattro” “E quant’e’?” “E’ tanto” “Tanto quanto?” Calcolatrice, x 1,8 + 32 “Centodue e novantadue” “E’ tanto!”. Ricordero’ il bip del termometro e la conversione Celsius-Farenheit. Un pomeriggio Martin e’ voluto tornare in albergo a dormire. Mai successo prima, per cui mi sono insospettita come una mamma di fronte a un figlio piu’ calmo del solito, gli ho posato una mano sulla fronte e mi e’ uscito di bocca un “God!! You’re burning like hell!!” tanto per scomodare contemporaneamente le alte e le basse sfere. A ragione: son stati giorni lunghi, sono successi dei disguidi tipo un inutile e costosissimo ricovero ospedaliero da cui l’ho praticamente rapito portandolo via con la flebo ancora attaccata al braccio. Alla fine si e’ risolto tutto per il meglio. 



Chiusa la questione febbre, arriviamo in capitale per alcune faccende da sbrigare in un pomeriggio e poi via di corsa fuori dalla citta’. La mia faccenda: richiedere il visto per la prossima meta. Il piano: mentre Martin cerca di procurare i biglietti del pullman per domani, io vado in ambasciata. Ho l’indirizzo, mi sono scritta su un foglio come arrivarci. Sono le due, chiude alle cinque, tre ore sono piu’ che sufficienti. Esco in strada e parto.
14.00 Hanoi e’ un’altra cittadona caotica. Il quatiere in cui stiamo sembra un po’ un paesino con il traffico della grande citta’. Le strade sono strette e costeggiate da alberi bassi che procurano si’ una salvifica ombra, ma fanno apparire tutto ancor piu’ congestionato di quanto gia’ non sia. Donne vendono fiori o verdura trasportandola in canestri dietro la bici, frutta in ceste appese a un’asta poggiata sulle spalle, dolci fritti sul momento su bracieri posati sui marciapiedi.
Ovunque, tavolini e sgabelli di plastica, di quelli bassi, come all’asilo, su cui sedersi e bere un caffe’ o un te. Uomini seduti sui motorini fermi ad ogni angolo, ogni pochi minuti ti offrono un passaggio “Motorbike? Taxi motorbike?” “No, thank you” “Where you going?” “Not far” “Motorbike?” “No” … “Lady, motorbike? Taxi motorbike?” “No, thanks” “Where you going? You want taxi?” “No”… Gira a destra, gira a sinistra, trovo senza difficolta’ tutte le vie che mi sono segnata e mi avvicino a destinazione felice e soddisfatta.
14.30 Arrivo in un quartiere tranquillo con vioni larghi e marciapiedi piastrellati e sgombri. Meno motorini, piu’ macchine, rari passanti incamiciati. Imbocco la via che dovrebbe costituire la mia meta finale. Non ho un numero civico. Pazienza, penso, la via e’ questa, per quanto lunga prima o poi finira’. La percorro tutta su un lato. Poi sull’altro. Ci sono decine di ambasciate, ma, ovviamente, non trovo quella che serve a me.
15.00 Ogni ambasciata e’ un villone protetto da un muro altissimo. Di fronte ad ogni cancello c’e’ un giovane militare di guardia. Ripercorro la via su entrambi i lati interrogando ognuno… dico il nome, lo ripeto, lo scrivo… nulla. Nessuno sa darmi indicazioni.
15.30 Alla fine un’indicazione salta fuori: qui a destra, poi la seconda a sinistra. Vado. Macche’. Altri uffici, poi la via si trasforma e prosegue con negozi di abbigliamento, ferramenta, barbieri, meccanici, fiorai, ognuno dei quali riversa all’esterno dell’edificio la propria attivita’ trasformando i marciapiedi –dove percorribili- in percorsi ad ostacoli in cui ogni tanto, per non farsi mancare niente, compare anche qualche motorino che ti suona alle spalle per farsi strada. E’ stancante, il cervello e’ bombardato di informazioni, suoni, clacson, colori, uccelli in gabbie appese agli alberi, odori, acqua sporca versata per strada, facce, “Motorbike, lady?”, mobili caricati su cyclo, gente che ti taglia la strada, e soprattutto cose, cose dappertutto… e’ il tripudio dell’oggettistica, con scritte a me incomprensibili sparse qua e la’: e‘ l’Ikea! E proprio come dopo un’ora all’Ikea, l’attenzione e’ ormai esaurita, potrei sbattere il muso contro il cancello dell’ambasciata e non me ne renderei conto. E alla fine ne uscirei con delle candele profumate.


16.00 Cosa sto facendo? Sto girando a caso! Martin avra’ gia’ comprato i biglietti per domani, devo richiedere il mio visto assolutamente oggi pomeriggio! C’e’ solo una soluzione: google. Cammino cercando ora un internet point, ma nulla… addocchio un hotel e mi ci fiondo dentro. Ci sono due ragazze eleganti e profumate dietro al bancone della reception. Porte vetrate scorrevoli, aria condizionata e fiori finti, silenzio. “Per favore, posso usare la vostra connessione?” Sono sudata e stanca, faccio schifo. Mi accordano il permesso per pieta’ suppongo. Trovo almeno quattro indirizzi diversi per l’ambasciata. Ne scelgo uno a caso ed esco di nuovo in strada, affrettata e innervosita.
16.30 Mezzora. Non ci arrivero’ mai a piedi, mi serve una moto. Una moto, una moto… scruto tutti gli angoli, incrocio tutti gli sguardi, ma ora che ne ho bisogno nessuno mi offre uno straccio di passaggio. Cammino sentendomi un po’ un verme attaccato all’amo e dopo un’attesa che mi sembra interminabile, ecco che qualcuno abbocca: “Motorbike?” Si’! Gli mostro l’indirizzo, discuto il prezzo, infilo il casco e andiamo.
16.50 Suono il campanello dell’ambasciata. Mi apre un signore che sembra un po’ una rana e che non mi parla. Non dira’ una parola che sia una durante il tempo necessario per compilare tutti i moduli.
Quando esco mi sembra di volare. Torno all’hotel attraversando di nuovo questa citta’ sullo scooter e quasi dimentico di odiarla, quasi dimentico di essere qui talmente sono stanca. Arrivo in stanza e, felice di esser circondata da pareti bianche, felice di essere sola, felice di non sentire i rumori della strada, mi spengo. 


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