Friday, August 31, 2012

In Don we trust

Western Mongolia, 8–29 agosto 2012

Da qua in poi ho perso la cognizione dello spazio e del tempo. Nei prossimi post i luoghi non avranno un nome, gli attimi non avranno date, le foto saranno piu’ a casaccio del solito. Quel che e’ successo, per dare un’idea generale, e’ che siamo partiti per tre settimane con un minivan, un autista, le tende e tanto, tantissimo cibo per raggiungere Olgii, una cittadina all’estremo ovest della Mongolia. Olgii e’ in questo viaggio meta e punto di partenza: e’ la fine di una corsa su quattro ruote attraverso steppe sconfinate ed e’ l’inizio di un trekking su due gambe su monti dell’Altai Tavan Bogd National Park (due gambe e quattro zampe dovrei dire ora, dato che il trekking si e’ concluso con un quinto giorno a cavallo).

E’ iniziata senza preliminari questa convivenza stretta con i miei nuovi coinquilini da viaggio. La comitiva questa volta e’ composta da un minivan russo, un autista mongolo, un’italiana e quattro israeliani: Alon, Adi, Assaf e Dor.

Alon e’ i piu’ giovane di tutti, fresco di servizio militare. Zohan, come l’ho soprannominato io, sorride sempre, anche quando dorme, e parla nel sonno; lo so perche’ e’ il mio compagno di tenda: dividiamo una tenda minuscola in cui stiamo a malapena lui, io e il suo coltello con lama da quindici centimetri e custodia intagliata in osso di renna. Dorme rigorosamete dal lato della porta e la chiude con un lucchetto di cui inizialmente non mi ha comunicato il codice, per cui al mattino dovevo svegliarlo per riottenere la custodia di me stessa. E’ una presenza abbastanza ingombrante; non che sia goffo o maldestro, ma e’ come se avessero installato il sistema operativo di un gatto nel corpo di un terranova: ti si appoggia addosso senza rendersi conto di avere il peso specifico della ghisa, se e’ nei paraggi sono da evitarsi attivita’ potenzialemte mortali come usare uno stuzzicadenti, tagliarsi le unghie o avere le tette, perche’ e’ inevitabile che arrivi una gomitata.
Adi e’ una ragazza allegra e spontanea, ha un carattere forte ben amalgamato con la dolcezza che le si legge in viso. Per dire, anche lei ha un coltello con lama di lunghezza imbarazzante, ma in una tenerissima costodia in plastica rosa. E’ molto bella, di quella bellezza magnetica e dinamica data dall’espressivita’ piu’ che dai lineamenti. 
Assaf inizialmente mi era un po’ insipido, poi e’ diventato il mio preferito, come mi capita quasi sempre. E’ lievemente ipocondriaco, mi chiede cose del tipo “Nicole, ho bisogno di una diagnosi…” “Oh per carita’! Sentiamo” “Quando deglutisco sento un leggero fastidio a questa altezza della gola sulla parte destra, e’ iniziato questa notte alle quattro, cosa puo’ essere?” “Mah, lasciami pensare… niente?” Per giorni sono stata convinta che sua madre fosse lesbica, poi ho capito che fa confusione con il genitivo sassone, per cui per “my mother’s girlfriend” intende la madre della sua ragazza.
Dor ha uno sguardo fiero e sembra mantenere sempre compostezza e un certo distacco dalle cose, da tutte le cose. Ne rispetto l’inafferrabilita’ e non mi avvicino piu’ di quanto mi sia concesso avvicinarmi. 


E poi c’e’ lui, l’unico, l’insostituibile, il magico Don: il nostro autista, che parla solo mongolo, ma ci capiamo ugualmente a gesti e versi. Piu’ o meno. Don ha i guancioni rossi e gli occhietti spenti che scompaiono in due fossette quando sorride. E’ pacato come un panda, ma quando si mette al volante si trasforma in una specie di tarantolato, il che’ gli ha fatto guadagnare il titolo di “na ag sciodig”, ovvero l’autista da rapina, quello che aspetta fuori col motore acceso e poi da gas per scappare a colpo fatto. Ogni tanto esce dalle piste e lancia il minivan in una corsa pazza nei prati, cosi’, senza apparente motivo; probabilmente perche’ si diverte. Ogni tanto invece si ferma, apre il vano motore, ci infila le mani dentro, scende, controlla la ruota posteriore sinistra e poi riparte. Un giorno, in un momento in cui sembrava aver perso completamente l’orientamento, si e’ fermato tre volte a far pipi’ nell’arco di venti minuti e, non vorrei dire, ma secondo me stava marcando il territorio… insomma, e’ strano Don, ma come si fa a non voler bene a uno che ha la faccia cosi’ grossa? Ogni volta che non lo capiamo gli diamo l’ok e ci lasciamo guidare, al grido di “in Don we trust”.
E poi ci sono io, che ho la maglietta con un miniva uguale al nostro minivan, per cui vinco (Si’ Luca, e’ proprio lei, lo so, era per mio fratello, ma a lui non stava, giuro, per questo l’ho tenuta io!)
Insomma, siamo una negra, quattro ebrei e un comunista (dai, pinzato tra la Russia e la Cina, avra’ pur qualche traccia di comunismo pure lui, anche solo per osmosi)… ogni volta che ci penso sento rumore di baffetti che si rivoltano nella tomba…



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