Western Mongolia, 8-29 agosto 2012
Non siamo stati particolarmente fortunati in questi ultimi giorni con
il tempo. Oggi, di fronte ad una pioggia incessante e reduci da due
notti bagnate pure loro, ci siamo arresi e abbiamo comunicato a Don
l’intenzione di non dormire in tenda. Detto fatto: lui ci ha pensato un
attimo su’, con lo sguardo nel vuoto, poi ha annuito e lanciato il
minivan fuori pista. Ed eccoci ospiti in una ger. Diro’ ger e non yurta,
perche’ e’ piu’ simile alla parola mongola.
La famiglia ci accoglie come sempre con tazze di latte salato. Ci
sediamo per terra sui tappeti, ci sono due divani e mobili bassi lungo
la circonferenza della parete; al centro della ger, la stufa accesa
emana un calore piacevolissimo; il tubo della stufa sale dritto ed esce
da un’apertura al centro del tetto, da cui entrano anche indesiderabili
gocce di pioggia. C’e’ un televisore di trent’anni fa che trasmette un
servizio sulle olimpiadi in bianco e nero; c’e’ il corpo scuoiato e
aperto di un capretto appeso ad asciugare; c’e’ una donna indaffarata a
tagliare carne per la cena e badare al fuoco alimentandolo con cacche
secche di yak; ci sono degli uomini che ogni tanto entrano fradici, si
siedono e chiacchierano, fumando sigarette e riempiendo e passandosi un
bicchiere di vodka. E poi c’e’ un bambino biondo di cinque anni,
iperattivo, inizialmente simpatico e divertente, poi un po’ pesantuccio
nelle sue continue richieste di attenzioni, ma siamo in cinque a
palleggiarci il compito di giocarci assieme e riusciamo a non farcelo
pesare troppo. Quando ci da tregua, va a gironzolare attorno agli uomini
che chiacchierano quasi sussurrando e gli si struscia addosso come un
gatto che voglia le coccole; la maggior parte delle volte viene cacciato
con noncuranza, ma ogni tanto riesce nel suo intento e si guadagna il
compito di buttar via la cenere per qualcuno, ottenendo in premio di
farsi un piccolo tiro di segaretta anche lui.
La ger in cui dormiamo non e’ questa, ma quella vicina, meno
accogliente e curata. Ce la cedono interamente e fino a domattina sara’
casa nostra. Piu’ o meno. Se c’e’ una cosa che credo di aver capito dei
mongoli e’ che sanno stare a guardare, senza dire niente, senza
chiedere, con l’innocenza di chi non sa cosa sia l’invadenza e in
effetti non si percepisce nulla di inopportuno in questo osservare.
Cosi’, mentre noi cuciniamo sulla stufa, qualche curioso entra nella
ger, si piazza di fianco alla porta e guarda. Riesco a coinvolgere un
ragazzo disegnando, scopro che il mio nome in mongolo si legge Nestla,
imparo a dire fiume, sole, cavallo, pecora, mucca, tutti gli animali
della vecchia fattoria, impazzisco cercando di fargli pronunciare la F
che, evidentemente, e’ un suono che in mongolo non esiste. F, non P,
FFFF. Dai, non ci credo, non e’ possibile non riuscire a dire F, e’ come
non riuscire a incrociare le dita, non lo posso accettare! Forse stanco
della mia insitenza, forse stanco e basta, alla fine anche il ragazzo
se ne va con gli altri e noi rimaniamo soli a dormire.
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