Friday, August 31, 2012

Notte in ger



Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Non siamo stati particolarmente fortunati in questi ultimi giorni con il tempo. Oggi, di fronte ad una pioggia incessante e reduci da due notti bagnate pure loro, ci siamo arresi e abbiamo comunicato a Don l’intenzione di non dormire in tenda. Detto fatto: lui ci ha pensato un attimo su’, con lo sguardo nel vuoto, poi ha annuito e lanciato il minivan fuori pista. Ed eccoci ospiti in una ger. Diro’ ger e non yurta, perche’ e’ piu’ simile alla parola mongola.


La famiglia ci accoglie come sempre con tazze di latte salato. Ci sediamo per terra sui tappeti, ci sono due divani e mobili bassi lungo la circonferenza della parete; al centro della ger, la stufa accesa emana un calore piacevolissimo; il tubo della stufa sale dritto ed esce da un’apertura al centro del tetto, da cui entrano anche indesiderabili gocce di pioggia. C’e’ un televisore di trent’anni fa che trasmette un servizio sulle olimpiadi in bianco e nero; c’e’ il corpo scuoiato e aperto di un capretto appeso ad asciugare; c’e’ una donna indaffarata a  
 tagliare carne per la cena e badare al fuoco alimentandolo con cacche secche di yak; ci sono degli uomini che ogni tanto entrano fradici, si siedono e chiacchierano, fumando sigarette e riempiendo e passandosi un bicchiere di vodka. E poi c’e’ un bambino biondo di cinque anni, iperattivo, inizialmente simpatico e divertente, poi un po’ pesantuccio nelle sue continue richieste di attenzioni, ma siamo in cinque a palleggiarci il compito di giocarci assieme e riusciamo a non farcelo pesare troppo. Quando ci da tregua, va a gironzolare attorno agli uomini che chiacchierano quasi sussurrando e gli si struscia addosso come un gatto che voglia le coccole; la maggior parte delle volte viene cacciato con noncuranza, ma ogni tanto riesce nel suo intento e si guadagna il compito di buttar via la cenere per qualcuno, ottenendo in premio di farsi un piccolo tiro di segaretta anche lui. 

La ger in cui dormiamo non e’ questa, ma quella vicina, meno accogliente e curata. Ce la cedono interamente e fino a domattina sara’ casa nostra. Piu’ o meno. Se c’e’ una cosa che credo di aver capito dei mongoli e’ che sanno stare a guardare, senza dire niente, senza chiedere, con l’innocenza di chi non sa cosa sia l’invadenza e in effetti non si percepisce nulla di inopportuno in questo osservare. Cosi’, mentre noi cuciniamo sulla stufa, qualche curioso entra nella ger, si piazza di fianco alla porta e guarda. Riesco a coinvolgere un ragazzo disegnando, scopro che il mio nome in mongolo si legge Nestla, imparo a dire fiume, sole, cavallo, pecora, mucca, tutti gli animali della vecchia fattoria, impazzisco cercando di fargli pronunciare la F che, evidentemente, e’ un suono che in mongolo non esiste. F, non P, FFFF. Dai, non ci credo, non e’ possibile non riuscire a dire F, e’ come non riuscire a incrociare le dita, non lo posso accettare! Forse stanco della mia insitenza, forse stanco e basta, alla fine anche il ragazzo se ne va con gli altri e noi rimaniamo soli a dormire. 

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