Western Mongolia, 8-29 agosto 2012
Il grande carro e’ tornato ad essere se stesso e non piu’ il mestolo
rovesciato che era nel sudest asiatico. Spente le frontali, sdraiati
davanti alle tende a guardare il cielo. Mi piace quando i miei compagni
di viaggio si chiudono in lunghe conversazioni in ebraico. Mi piace
sentire come suona; mi piace vederli nel massimo della propria
espressivita’, il che’ e’ possibile solo nella propria lingua madre, e’
un po’ come vederli togliersi una maschera; mi piace cogliere le parole
ricorrenti, cercare di indovinane il significato dal tono che usano, dal
momento in cui le usano. Ora pero’ non fatico a capire quel che stanno
dicendo: di fronte al cielo stellato non ci sono lingue, eta’, genere,
siamo tutti uguali, tutti a lanciare traiettorie invisibili dall’indice
teso, a disegnare per gli occhi dell’altro le costellazioni che sappiamo
chiamare per nome.
Accendo la frontale e mi allontano a far pipi’. La spengo, assicurandomi
cosi’ tutta la privacy che il buio puo’ offrirmi, e il cielo sopra di
me riesplode di luce. L’orizzonte e’ cosi’ basso, lo spazio attorno a me
cosi’ vuoto che le stelle, non incontrando ostacoli alla vista,
sembrano toccare a terra. Vedo una stella cadente, la prima di molte di
questa sera. Un desiderio, presto! Un desiderio!! Ma non mi viene in
mente nulla. Sono un puntino di vita insignificante accovacciato al buio
in un luogo che non saprei indicare con esattezza sul mappamondo, in un
presente che non saprei crocifiggere con le lancette di un orologio, e
non ho nulla da desiderare. Non per me.
Non lo so se siano trasferibili, pero’, Silvia, questo desiderio lo lascio a te.
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