Wednesday, September 5, 2012

Furia assassina



Western Mongolia, 8–29 agosto2012

Arrivati ad Olgii, procurati mappa e permessi, dato appuntamento a Don a cinque giorni dopo e qualche chilometro piu’ a nord, siamo pariti per il trekking sull’Altai. Data la fatica di doversi portare in spalla le tende e tutto il resto, io mi sarei volentieri rimpinzata di leggerissimo riso precotto e cibo liofilizzato di ogni genere e sorta per cinque giorni, che non sara’ il massimo, ma non si dovrebbe neanche morirne. E invece no. Siamo carichi di cibo “vero” come se fossimo incaricati del catering per un matrimonio calabrese. Aglio e cipolle, verdura, latte… Mi sono rifiutata di trasportare nel mio zaino una bottiglia da mezzo litro di chilli sauce. Neanche mi piace! Ho dovuto fare obiezione di coscienza.


Nonostante il peso in spalla, la bellezza del paesaggio fa dimenticare le fatiche del corpo. Il sentiero inizialmente segue ampissime vallate costeggiando un fiume dalle acque di un incredibile azzurro; quando poi si inizia a prendere quota, e’ possibile apprezzarne l’elegante disegno di curve nel verde del prato. Si cammina per ore in prati sterminati, chiacchierando, canticchiando o semplicemente in silenzio, con la mente che vaga senza alcun guinzaglio e capita che a riportarla alla realta’ sia il rapido passaggio di un’ombra sull’erba, allora si alzo lo sguardo ed e’ un’aquila a volteggiare nell’azzuro.


Si sale, si sale, si sale ancora, fino a raggiungere il passo piu’ alto di questo percorso, per poi ridiscendere sull’altro versante del monte, in una stretta pietraia di cui una parete e’ dominata da un ghiacciaio. E’ un ghiacciaio piccolo piccolo, non come quello che si vede in lontananza. E’ un ghiacciaietto, e’ un po’ di acqua e neve rimasta congelata li’… ma i miei compagni di viaggio gli hanno dedicato centinaia di foto e un sacco di entusiasmo, come e’ naturale che sia: loro a casa hanno il deserto, mica le Alpi. Al mattino, quando ci alziamo e troviamo tutto gelato, tutto ricoperto di bianco, loro saltellano felici… io ci leggo un unico inequivocabile messaggio: fa-un-freddo-cane. In effetti e’ cosi’. Di giorno no, la temperatura e’ piacevolissima, ma appena va via il sole si gela. La sera, quando la presenza di alberi lo permette, per prima cosa cerchiamo legna da ardere. Cuciniamo sul fuoco e rimaniamo a scaldarci li’ vicino per ore, ipnotizzati dalle fiamme. Come dice Dor, dall’alto della sua saggezza, tre sono le cose da cui e’ difficile distogliere lo sguardo: il fuoco, l’acqua che scorre e un’altra persona che lavora. L’odore che per sempre mi riportera’ con la mente a questo trekking sara’ quello di legna bruciata, quello che ora la sera mi rimane impregnato nelle mani e mi accompagna nel sonno dentro a sacco a pelo. 

Giunti quasi al termine, lungo il sentiero abbiamo incontrato un uomo. Gli abbiamo buttato li’ la domanda: hai cinque cavalli? No, non li ha. Ma se gli diamo un giorno di tempo, puo’ andare a prenderli in montagna. Dopo interminabili trattative (e’ un po’ complicato quando non si parla la stessa lingua) abbiamo chiuso l’accordo con una stretta di mano e montato le tende di fianco alla sua ger. Il mattino seguente la ger non c’era piu’. Nomadi. L’abbiamo ritrovato nel pomeriggio, ci ha offerto ospitalita’ per la notte nella sua nuova locazione e questa mattina, siam partiti.



Il nostro trekking si conclude dunque su quattro zampe. Abbiamo cinque cavalli, piu’ un cammello per i bagagli, piu’ l’omino dei cavalli che verra’ con noi fino al termine del sentiero e poi si riportera’ indietro il bestiame.
Come gli altri, anche il mio cavallo e’ un maschio, ma io l’ho chiamato Adelaide. Come mia cugina, che e’ la cosa piu’ simile a un cavallo che io conosca. Adelaide e’ il cavallo piu’ stupido con cui abbia mai avuto a che fare. Sembra che l’abbiano preso ieri sera da un branco, gli abbiano poggiato una sella sulla schiena e ora eccolo qui. E probabilmente e’ andata cosi’ davvero. Innanzitutto non sa seguire il sentiero, non sa andare dritto: cammina a zig zag. E poi non sa stare solo: se siamo tutti appiccicati gli uni agli altri, grossomodo e’ gestibile, ma se ci allontaniamo impazzisce, non mi ascolta, trotta quando vuole lui, se cerco di fermarlo si arrabbia e galoppa e mi tocca litigarci malamente. Quando Alon, a cinquanta metri da noi, incita il suo cavallo, parte ache il mio… allora, no, Adelaide, no: loro corrono, noi camminiamo; lui il suo cavallo l’avra’ chiamato “Furia Assassina” o quacosa del genere, tu hai un nome da checca, comportati di conseguenza. Insomma, mi han dato un cavallo fallato. L’unica e’ appiccicarlo al culo del cammello, tenuto alla fune dall’omino dei cavalli, e allora li’ diventa obbediente e segue senza protestare. Sempre zigzagando, ma va be’.



L’omino dei cavalli ed io, zitti zitti, ci portiamo avanti di parecchio, mentre gli altri si fermano qua e la’ a scattar foto. Ad un certo puto veniamo raggiunti da Assaf, che mi dice agitato “Nicole, vieni: Alon e’ caduto da cavallo!” E figurati, Furia Assassina… “Parla?” “Certo che parla!” “Ha battuto la testa?” “No” “Ha battuto la schiena?” “No” “Sanguina?” “No” “E allora digli di rimettersi a cavallo e venire fin qui!” che non ho nessuna intenzione di fare piu’ del minimo indispensabile con Adelaide.
Una botta alla spalla, nulla di piu’. Concludiamo il percorso con Alon legato come un prigioniero e raggiungiamo il buon Don per affrontare il viaggio di ritorno in minivan verso Ulaanbaatar.


Finisce qui questo pezzetto di strada in Mongolia. Mi porto via un po’ di maraviglia, ci lascio la promessa di tornare. E spero di avere la possibilita’ un giorno di mantenerla. Mi si stringera’ un po’ lo tomaco ripensando a questi paesaggi. All’accoglienza ricevuta. A Don, che svita la coppetta coprilampadina dell’abitacolo del minivan, ci versa dentro vodka e ce la offre sorridendo… “Denko! Denko!” No Don, non “denko”: “thank you”. E comunque, grazie a te.

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