Saturday, September 29, 2012

Shalom!



Kathmandu (Nepal), 6 settembre 2012

Chi ha ricevuto mie mail personali nell’ultimo periodo lo sa: avevo sempre piu’ voglia di “natura bella da togliere il fiato”. La Mongolia ha assolutamente soddisfatto questo desiderio andando ben oltre le aspettative che, pur non volendo, mi ero creata. Cio’ non significa che ne avessi abbastanza, per cui ho regalato il mio Ukulele e sono volata in Nepal per consumarmi le ginocchia e il fiato facendo trekking sull’Himalaya.
Vista dall’alto, durante l’atterraggio, nessuna citta’ mi aveva mai dato tanto l’impressione di esser fatta di lego quanto Kathmandu; un ammasso di cubetti colorati poggiati nel verde, non saprei dire se in fase di costruzione o di smontaggio. La prima sensazione che ho avuto, una volta posati i piedi a terra, e’ che qui, a differenza del sudest asiatico, le cose ti vengono addosso. Emotivamente intendo, non e’ che la gente ti lanci contro degli oggetti, sono solo sensazioni; e’ come se fosse tutto piu’… piu’ vicino e diretto: i rumori, gli odori e, soprattutto, le persone; lo sguardo delle persone, i gesti delle persone, le parole delle persone. 


Sono qui con Assaf e Dor, due dei ragazzi che erano con me in Mongolia, e ci ragiungera’ a breve un loro amico da Tel Aviv, Ziggy. Grazie a loro, in questi giorni dedicati alla preparazione per i trekking, ho visto cosa succede quando le persone si coalizzano nell’esercitareil loro potere di consumatori. Gli israeliani in visita qui sono tanti e sono stati furbi, hanno creato un sistema che funziona, un circuito chiuso di relazioni commerciali vantaggioso per loro e per i venditori coinvolti.
 Si servono tutti in massa negli stessi posti: tre hotel, due agenzie, un minuscolo negozio di attrezzatura tecnica. Si concentrano tutti li’ portando un enorme afflusso di clienti, mantenuto solo dal passaparola.
I proprietari di questi posti fanno una fortuna lavorando praticamente solo con loro, non hanno bisogno di pubblicita’ o di insegne lampeggianti: tutto cio’ che devono fare e’ mantenere un rapporto di fiducia. E lo fanno: per gli israeliani i prezzi sono reali, neanche da trattare, la merce e’ di buona qualita’, i tour operator sconsigliano con onesta’ di fare quel trekking o quel corso di rafting perche’ il sentiero e’ interrotto o il fiume troppo impetuoso in questa stagione; parlano ebraico, chi fluentemente, chi solo le formule di cortesia
e i numeri, e di loro ci si puo’ fidare ciecamente perche’ hanno capito che perdendo la fiducia di pochi clienti, perderebbero una nazione intera. Ho avuto la fortuna di varcare le soglie di questo circolo segreto facendomici introdurre dai miei amichetti. Vado negli stessi posti anch’io, dove ormai ricevo lo stesso trattamento anche senza di loro; alle volte vado solo per usare internet gratis o per chiacchierare, per farmi consigliare dove mangiare e farmi dire quanto dovrei pagare di taxi per andare in un certo posto. E tutti, ma proprio tutti, mi han detto la stessa cosa: “Sei fortunata a viaggiare con loro!” la signora del negozio di attrezzatura, quella con cui vado a chiacchierare, mi ha addirittura confessato: “Se fossi venuta da sola ti avrei fatto pagare il doppio per quel sacco a pelo, come agli altri europei!” 
Tutto cio’ ha altre ripercussioni, perche’ ogni negoziante vorrebbe entrare nel giro, per cui un po’ ovunque gli israeliani hanno prezzi piu’ bassi rispetto agli altri. Lo chiamano “il prezzo israeliano” e te lo dicono proprio: “How much for this?” “Three hundred rupees, israeli price.”
Dato che chiunque puo’ spacciarsi per israeliano, dall’algerino piu’ scuro al polacco piu’ chiaro, mi ci butto in mezzo anch’io senza farmi assolutamente alcun problema. Entro nei negozi, sorrido e saluto: “Shalom!”

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