Himalaya (Nepal), 6 – 18 settembre 2012
Tamang Heritage Trail. Si chiama cosi’ questo primo trekking,
prendendo il nome dall’etnia che abita questa parte di Himalaya. Sei
giorni. Sei divesi villaggi incastonati sulle montagne ci ospiteranno
ogni sera. Ci verra’ preparata la cena e porto un secchio di acqua calda
con cui lavare via la fatica del giorno passato. Ci verra’ preparata la
colazione e porta dell’acqua fresca per dissetare la fatica del giorno
nuovo.
La nostra guida si chiama Rajesh e sembra piu’ tedesco che nepalese; ha la mia eta’ e da sette anni fa questo lavoro: cammina. Sotto il sole, sotto i monsoni, sotto la neve, sotto gli zaini pesanti, lui cammina. Una delle prime cose che ho fatto e’ stata controllargli il polso per curiosita’ e, di fronte ad un’invidiabile bradicardia, gli ho detto che avrei dato l’anima in cambio del suo cuore. La prima cosa che mi ha risposto e’ che vuole sposare un’europea.
Rajesh si ferma ogni pochi minuti di marcia e controlla se c’e’ campo per connettersi a facebook con il cellulare. Se c’e’, la pausa dura un po’ di piu’. Se non c’e’, dura un po’ di meno. In ogni caso, la camminata riprende con un nuovo sottofondo musicale: si passa da canzoni nepalesi (la mia preferita e’ Rassapiririn) a canzoni israeliane che inspiegabilmente ha sul telefono e con cui sorprende e intrattiene i ragazzi.
I ragazzi si fermano ogni pochi minuti e posano gli zaini. Se la
pausa dura un po’ di piu’, si lamentano poco. Se dura un po’ di meno, si
lamentano tanto. In ogni caso, la camminata riprende sempre con lo
stesso sottofondo: “Ripartiamo gia’? Ma quanto siamo saliti? Solo?? E
quanto manca? E adesso? E ora quanto manca? Un mio amico mi ha detto che
dal secondo villaggio c’e’ una scorciatoia…” ma come una scorciatoia??
Ti pare che siamo venuti a camminare in montagna per prendere
scorciatoie?
Ho smesso di camminare con loro perche’ patisco il dover ripartire piu’ di quanto mi dia sollievo il fermarmi. Preferisco trovare il mio ritmo e mantenerlo, con calma, passetto dopo passetto. Ai rari bivi mi fermo e aspetto che mi raggiungano per avere indicazioni da Rajesh e ascolare un po’ di Rassapiririn, che mi mette sempre di buon uomore. Mi piace camminare da sola, in silenzio si vedono piu’ animali, si pensa meglio… a nulla che sia minimamente costruttivo, ma va be’.
Ho smesso di camminare con loro perche’ patisco il dover ripartire piu’ di quanto mi dia sollievo il fermarmi. Preferisco trovare il mio ritmo e mantenerlo, con calma, passetto dopo passetto. Ai rari bivi mi fermo e aspetto che mi raggiungano per avere indicazioni da Rajesh e ascolare un po’ di Rassapiririn, che mi mette sempre di buon uomore. Mi piace camminare da sola, in silenzio si vedono piu’ animali, si pensa meglio… a nulla che sia minimamente costruttivo, ma va be’.
Questo primo trekking e’ carino. Paesaggisticamente non eccezionale
ai miei occhi, abituati alle “montagne di casa”, come le chiamo io.
L’aspetto piu’ interessante e’ che si attraversano diversi villaggi, si
assaggiano pezzetti di una quotidianita’ fatta di case di legno e
pietra, di artigianato, di provviste a seccare per la stagione fredda:
carne di yak stesa al sole, funghi sulle stufa, peperoncini sui tetti;
e si assiste -e si partecipa- ad una sfilata di strani personaggi:
alcuni ti vengono in contro, salutano e proseguono alle tue spalle, ma
la maggior parte ti arriva alle spalle, saluta e ti supera sparendo
quasi di corsa dietro la prima curva, lasciandoti a bocca aperta in un
misto di ammirazione e sconforto… e tutti, tutti, trasportano qualcosa,
poggiato sulla schina e tenuto su’ da una fascia che passa sulla
fronte.
Sono stata superata da gruppi di bambini con le cartelle e l’uniforme,
diretti alla scuola del villaggio vicino, con le spalline delle
cartelle non sulle spalle, ma una sola attorno alla fronte e lo zaino a
penzolare sulla schiena; sono stata superata da donne con in braccio
bambini e sul dorso ceste cariche di qualunque cosa; sono stata superata
da una fila di uomini che portavano ognuno un masso enorme; li ho
raggiunti qualche minuto dopo e li ho trovati a scaricare i massi su una
montagna di altri massi, dove altri uomini e donne li rompevano a mano
con martello e scalpello e altri ancora si passavano di mano in mano
quelli gia’ squadrati per posarli gli uni sugli altri a costruire un
muro; quella notte ho guardato con altri occhi le pareti che mi
proteggevano dal freddo. Sono stata superata da portatori di gruppi di
turisti, carichi dei loro zaini; sono stata superata da portatori dei
vari villaggi, carichi di cibo e provviste. E ho iniziato a sentire un
sapore piu’ profondo nel cibo che mangio ogni giorno. Sono stata
superata da un bambino che teneva per mano la sorellina; avra’ avuto sei
anni lui; a dir tanto tre la bimba. E, si’, mi hanno superata, lei
barcollando un po’, strattonata e sorretta dal fratello, che una volta
davanti a me se l’e’ presa in spalla ed e’ sparito.
Incrocio questi pezzetti di vita e spesso mi chiedo come sarebbe la
mia se fossi nata qui. Probabilmete starei trasportando le mie cose con
una fascia attorno alla fronte. Se fossi nata in Congo invece le terrei
in equilibrio sulla testa. In Peru’, in un foulard legato sulle spalle.
In Vietnam, in due ceste appesa ad un’asta. Sono nata in Italia e ho uno
zaino sulla schiena.
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