Tuesday, December 25, 2012

Sud



Hampi (India), 14 dicembre 2012

L’unico difetto della guest house in cui ho passato una settimana di soggiorno forzato a Delhi era che aveva le pareti molto sottili, per cui avere la propria camera o essere in uno stanzone unico con gli altri ospiti, i proprietari, i vicini e i passanti sarebbe stato grossomodo la stassa cosa. A livello acustico intendo.
La sveglia arrivava dalla strada, con il suo cescendo di traffico: prima un solista, poi qualche quartetto, in fine un’intera orchestra si clacson ti invitava ad abbandonare il sonno.  
Il buongiorno arrivava dai vicini che ti rendevano partecipe delle loro abluzioni quotidiane; la mia preferita, non che la piu’ potente: un risucchio agghiacciante, come se si stesse cercando di aspirarsi in bocca il cervello facendolo passare dalle coane, seguito da un sonorosissimo e liberatorio sputo.
Al ristorante della colazione, scelto per il rapporto qualita’-prezzo-distanza, alcuni topolini bianchi scorrazzavano tra i piedi dei clienti, ma bellini, piccoli come criceti; la clientela del ristorante della colazione non era certo del tipo che chiama l’ufficio d’igiene, anzi, chiamava i topi per nome. 


Lungo a strada tra guest house e ristorante, ristorante e guest house, tutta una serie di personaggi: sullo sfondo, il coro greco di negozianti senza nome che ogni pochi passi ti interrompevano discorsi e camminata per invitarti a parlare/guardare/comprare all’interno del proprio negozio. Poi sempre le stesse quattro facce degli incorreggibili ottimisti che ti si avvicinavano sussurrando per venderti qualsivoglia tipo di sostanza stupefacente; ottimisti perche’ nonostante si fossero sentiti dire di no quelle cinque volte al giorno per una settimana, continuavano a proporre, hai visto mai che uno improvvisamente cambi idea “Ma sai cosa? Oggi si’. Oggi un po’ di crack te lo compro!”. E poi c’erano personaggi piu’ delineati, come il ragazzo dei biscotti che ogni sera sbucava in strada con il suo carretto e da cui compravo la mia dose giornaliera di simil paste di meliga cotte sul momento in un forno a brace ricavato da un secchio di latta. 


O la Signora dello Sri Lanka, che girava ben vestita e truccata con un foglio di carta e una penna a raccogliere firme e offerte “per lo Sri Lanka” (?) e che ogni volta che le dicevo di no (cioe’ ogni volta) mi faceva una pernacchia alle spalle; le ho fatto il verso, lei l’ha trovato divertente e da li’ ogni incontro si e’ trasformato in uno spernacchiamento generale e grasse risate (sue); ben strana la Signora dello Sri Lanka.
Poi c’era il Signore Buono delle Patate, che tutte le sere montava il suo fornello e friggeva patate tagliate a cubetti da mangiare in uno scodellino di alluminio con salse e spezie a piacere; o con un pizzico di sale e basta, come piacciono a me; il Signore Buono delle Patate era buono perche’ aveva un faccione pacioso e perche’ ogni volta che passava una mucca lui le allungava una patata e lei si avvicinava, la mangiava al volo e proseguiva la sua passeggiata come fosse un gesto abituale, un appuntamento fisso con un vecchio amico. Il Signore Buono delle Patate era il mio preferito.
Certo Delhi e’ molto di piu’, nel bene e nel male. Questa e’ stata solo la mia Delhi. La mia Delhi per una settimana. E non e’ che me la sia propria goduta… come il resto del mese passato, se proprio dobbiamo dirla tutta… e allora via! Cambiare! Duemila chilometri con un treno diretto verso orizzonti sicuramente piu’ caldi, auspicabilmente migliori: il sud. 


Qui devo aprire una parentesi perche’ Martin dice che se lui avesse un blog, scriverebbe che ha rischiato di perdere il treno e rimanere piantato a Delhi per il resto del soggiorno in India perche’ la sua compagna di viaggio doveva comprare degli assorbenti. Che e’ vero. Ma alla sua compagna di viaggio non pareva una cattiva idea, dato che stava per chiudersi in un treno per le successive trentasei ore e, forse, se lui fosse stato piu’ esplicito, la sua compagna di viaggio avrebbe colto i suoi timidi tentativi di metterle fretta mentre temporeggiava tra gli scaffali assolutamente ignara dell’ora e non si sarebbero ritrovati in un rickshaw a dieci minuti dalla partenza del treno e dieci-quindici minuti di distanza dalla stazione a maledire chi il proprio utero, chi la propria compagna di viaggio… insomma, chi e’ il colpevole? Chi la vittima? Io ho qualche riserva a riguardo… ma chiudo parentesi.


Dopo treni e rickshaw, eccoci a sudovest, dove vengo subito accolta da uno strano senso di smarrimento: dov’e’ l’immondizia? Dove la puzza di piscio? E soprattutto, dov’e’ la folla, che fine ha fatto la ressa?? Cammino per strada senza urtare o essere urtata, nessuno mi ferma, gli uomini non mi fissano… ci sono palme e carretti di frutta tropicale, chilometri di ampia spiaggia deserta, aria palpabile ma non di smog: e’ salsedine da respirare a pieni polmoni… e’ un altro pianeta!
E ora che sono arrivata ad Hampi vorrei rimanerci per mesi. Tra le rovine dei templi con storie di mille Dei scolpite nella roccia e queste buffe formazioni rocciose che danno l‘idea che le pietre siano piovute dal mondo degli Dei accatastandosi le une sulle altre;


tra i campi in cui i contadini seminano, tagliano, raccolgono e interrompono il lavoro per salutarti da lontano con la mano, mentre sfili con un vecchio motorino scassato sulle stradine costeggiate da palme; su questi promontori su cui arrampicarsi di fretta col fiatone perche’, come al solito, si e’ in ritardo per un apputamento importante: il tramonto. E ogni sera, mentre il sole si spegne e il paesaggio si accende di rosa tra il cielo e il suo riflesso sui campi di riso, sentirmi dire “Giuro che non viaggero’ mai piu’ con una femmina. Se penso che avrei potuto perdermi questo per colpa dei tuoi assorbenti…”. Ma, come ho gia’ detto, io ho le mie riserve…

Friday, December 7, 2012

Dita lunghe e potere divino



Rishikesh (India), 29 novembre 2012

Rishikes e’ una cittadina nel nord dell’India, nello stato di Uttarakhand. Incastrata sul fondo di una valle scavata dal Gange, circondata da montagne e colline alla periferia dell’Himalaya e costantemente battuta dal vento. Qui in questo periodo l’aria e’ fresca, si prepara l’inveno, di giorno il sole scalda abbastanza da poter stare sbracciati e cercar rifugio all’ombra, ma la sera si tira fuori la giacca e la notte si apprezza il peso delle coperte. Il posto in se’ non e’ di una bellezza eccezionale: vicoli e stradine nella parte bassa e orrendi hotel in forma di mostri architettonici di cemento che si arrampicano piu’ in alto, lungo i fianchi delle montagne. Anche qui i clacson ululano felici e in paese tira aria di sovraffollamento, ma il tutto e’ sufficientemente contenuto e nel complesso l’atmosfera e’ relativamente tranquilla; tra i profili delle montagne alberate e lo scorrere pacato delle acque sacre ha trovato terra fertile una fprte spiritualita’ e, tra centri di yoga e di meditazione, oggi Rishikesh e’ proclamata -o si autoproclama- capitale mondiale dello yoga. Ma dove sboccia il fiore della spiritualita’ potra’ mica appassire quello della sua commercializzazione: a Rishikesh il sacro convive pacificamente con un profano che sfiora la blafemmia; puoi fare rafting sul Gange con l’agenzia Holy Adventures!, puoi ottenere sconti comitiva per esser guidato in esperienze mistiche come la regressione alla vita precedente… vuoi imparare ad annullare il tuo io nel silenzio della meditazione? Puoi farlo. Vuoi invocare la benevolenza degli Dei o purificarti l’anima dedicandoti a spettacolari riti religiosi? Puoi farlo. Vuoi comprare un’anima pulita? Vuoi comprare un’anima sporca e poi pulirla? Puoi farlo. Vale tutto. E nulla toglie autenticita’ a cio’ che di autentico c’e’ e che non e’ certo poco. 


Non so come sia nata la cosa, ma in questo misticismo generale ho iniziato a scherzare con Martin sul fatto che avremmo dovuto farci leggere la mano e, capitando di fronte al centro di un astrologo, piu’ per divertimento che per altro, ci siamo detti, perche’ no? e siamo entrati. “Namaste!” “Namaste! Posso esservi utile?” “…vorremmo farci leggere la mano… forse lei…” “Si’, e’ possibile. Se sapete la data e l’ora di nascita posso associare alla semplice lettura del palmo un confronto con l’oroscopo e investigare tramite l’energia astrale… bla bla bla… per indovinare quale sia la vostra pietra protettrice affinche’ sia favorita l’apertura dei sette chakra… bla bla… dunque se siete interessati possiamo iniziare la seduta anche subito. Di dove siete?” “Lui californiano, io italiana” “Ah, Italia! Vicino all’Argentina!” ecco, iniziamo malissimo “…magari proprio subito no… le faremo sapere…” “Come preferite, vi lascio il mio biglietto da visita” “Grazie… grazie… nel caso la chiamiamo…” morta li’ la questione. Ma il giorno successivo, mentre camminavamo sulle sponde del fiume per andare ad assistere al Ganga Puja, la questione e’ tornata improvvisamente in vita e abbiamo chiesto impulsivamente al primo negoziante capitato a tiro se conoscesse un astrologo. “Seguitemi!” ha attraversato la strada, siamo entrati in un cortile interno, saliti al primo piano di un edificio dalle mura in cemento nudo, arrivati su una balconata su cui si affaccia una fila di porte numerate che suggeriscono si tratti di una sorta di albergo. “Stanza numero otto, entrate pure, vado a chiamarlo”. 



Sulla porta numero otto un adesivo rosso scolorito dal tempo e appiccicato senza troppa cura porta la scritta Mr TalDeiTali, astrologo; la apriamo e siamo in una stanza completamente spoglia. Non ci sono finestre, non c’e’ alcun oggetto che suggerisca sia abitata da qualcuno, ci sono solo un letto matrimoniale contro una parete unta e una sedia. Ci sediamo e aspettiamo scambiandoci sguardi di perplessita’. Ma dove diavolo siamo?? L’astrologo arriva dopo diversi minuti con una valigia nera; ha una parlantina piacevole, ci spiega che era a fare delle commissioni, ci chiede cosa vogliamo, tira fuori dalla valigia un’enorme lente d’ingrandimento e con quella inizia ad analizzarci il palmo della mano in silenzio, piegando dita, schiacciando polpastrelli e soprattutto facendo delle faccine che lasciano trapelare stupore o dubbio o interesse ma che inevitabilmente vengono interpretate come preoccupazione e in testa prende forma l’idea che stia per chiederti “sicura che non vuoi usare il mio telefono per chiamar tua madre e dirle che le vuoi bene prima che sia troppo tardi?” o come nelle barzellette “Ti restano all’incirca cinque… quattro, tre, due, uno…”. E invece no, nessuna prognosi infausta. Per quanto mi riguarda le cose piu’ rilevanti sono che a ventott’anni saro’ famosa nella mia citta’ per qualcosa di artistico, che dovrei meditare con la luna piena e, soprattutto, che ho le dita lunghe. Ah, ho anche un potere divino.


Usciamo dalla stanza dell’astrologo giusto in tempo per correre alla statua di Shiva ed assistere al Ganaga Puja: al crepuscolo piccoli cestini galleggianti di fiori colorati con al centro una candela accesa, vengono posati sulle acque del fiume in omaggio al Gange e tra i canti di preghiera decine di piccole luci si allontanano da riva e scivolano lungo la corrente. C’e’ una piacevole atmostera di festa che trasmette un senso di accoglienza: non ci si sente scomodi, non vengono dubbi su cosa fare o non fare, se avvicinarsi o meno, se si e’ vestiti in modo opportuno… e’ un rito aperto, libero e bello e si e’ semplicemente i benvenuti a partecipare. 


Quando la folla inizia a disperdersi la luna e’ gia’ visibile, la guardo e mi rendo conto che sara’ piena a breve. Luna piena, meditazione… perche’ no? E il giorno dopo eccoci a varcare le porte di un Ashram per seguire il consiglio dell’astrologo.
Entriamo nel cortile, non c’e’ nessuno. Saliamo la scalinata e varchiamo la porta d’ingresso, nessuno. Imbocchiamo il corridoio prendendolo da sinistra, senza parlare, scambiandoci gli stessi sguadi perplessi di ieri: ma dove diavolo siamo, di nuovo?? Si tratta di un ampio corridoio circolare, non ci sono finestre, e’ tutto freddo e buio e silenzioso e in marmo bianco, c’e’ qualcosa di lugubre in tutto cio’; sulla parete di sinistra ci sono delle porte numerate, presumibilmente delle stanze; su quella di destra (che pare circondare una stanza tonda) ci sono delle porte sospese a circa due metri da terra, senza alcun tipo di accesso, non una scala, non una fune, nulla. Finiamo il corridoio e ci ritroviamo al punto di partenza piu’ incuriositi che mai ma senza aver incontrato anima viva. Usciamo e nel giardino ecco che compare un uomo vestito di bianco che ci sorride “Namaste!” “Namaste! Come posso aiutarvi?” “…volevamo provare una seduta di meditazione…” 

detto fatto, poco dopo siamo seduti a terra in una stanza fredda, l’omino vestito di bianco ci fa chiudere gli occhi e concentrare sulla percezione del nostro corpo “Come si chiama questo corpo? Ogni sua parte, anche la piu’ piccola ha un nome, sentitelo, osservatelo, ogni sua parte ha un nome e una forma… ma chi e’ che lo sta osservando, chi lo sta sentendo? Come si chiama? Non c’e’ nome. Non c’e’ forma…” Lavoriamo su tre punti preliminari alla meditazione: imparare a sedersi, imparare a respirare e imparare a rilassarsi. Che detto cosi’ sembra facile. Be’, non lo e’. L’Omino Bianco ci guida con la voce nel cambiare posizione, nel percepire, ascoltare e controllare il ritmo e la meccanica del respiro, nell’assumere coscienza di ogni muscolo, dalla testa ai piedi, e rilassarlo, dai piedi alla testa, e rilassarlo, dalla testa ai piedi… parla lentamente, trascina le vocali, ripete ancora e ancora e ancora… ci lascia tempo, ci lascia silenzio… e’ una cosa che faccio quando non riesco ad addormentarmi, quella di cercare di rilassare sistematicamente ogni muscolo e ogni volta mi stupisco di quante parti del nostro corpo sono in tensione senza che noi ce ne accorgiamo e di quanto sia difficile rilasciarle consapevolmente; questo non e’ un esercizio nuovo per me, la differenza e’ che questa volta la mente non accenna a seguire il corpo nella direzione del sonno. Eppure piu’ di un’ora scivola via in un attimo e quando usciamo dall’Ashram ho la sensazione di aver dormito un sonno profondo e ristoratore per almeno sei ore. E sto profondamente bene. E’ una sensazione estremamente piacevole.


Tornati a “casa” raccontiamo l’esperienza a uno dei ragazzi che gestiscono la guest house e accenniamo al fatto che l’Omino Bianco ci ha consigliato di fare dello yoga… “Io faccio yoga, se volete potete farlo con me ogni mattina e sera sul tetto!” salta fuori lui. Perche’ no? Proviamo anche questo! E di nuovo, mentre questo ragazzino con un buffissimo inglese cerca di annodarci sul tetto della guest house di cui siamo gli unici ospiti, tra le smorfie di dolore ecco il solito scambio di sguardi: ma dove diavolo siamo, per l’ennesima volta?? “Don’t falling down! Don’t falling down!” ci ripete il ragazzo, mentre pretende che ci incastriamo un piede dietro la nuca mantenendo la schiena dritta e senza perdere l’equilibrio.
Passano i giorni a Rishikesh e la perplessita’ svanisce, soffocata dal graduale abituarsi a questa nuova routine di esercizi lenti e silenziosi capitataci addosso un po’ per caso. Non credo che andro’ dicendo di aver imparato in India a mangiare quando ho fame e dormire quando ho sonno come raccontava il buon James, incontrato in Laos, ma ora lo capisco meglio e spero di riuscire a far tesoro di quanto imparato in questi giorni. 

Sunday, December 2, 2012

L'umanita' mi sta stretta



Jaiselmer (India), 15 novembre 2012

Centro, destra, centro, sinistra… ma perche’ la muove cosi’? Alla prossima a destra vado… centro, destra… ora! Scatto, ma qualcosa si muove a borda strada, la mucca si spaventa, si sposta verso destra, la coda incrostata di cacca perde il ritmo delle oscillazioni e io vedo sfumare i miei piani di superarla senza farmi toccare, ma non mi arrendo, balzo istintivamente verso centro strada dove un rikshaw mi arriva alle spalle suonando il clacson, mi ributto a sinistra superando la mucca, accelero per assicurami distanza dall’animale, un uomo fa capolino dall’interno di un negozio e inchiodo giusto in tempo per evitare il suo sputo, ma qualcuno mi urta da dietro e mi spinge a sinistra e… sciaf! Il piede affonda in una gigantesca busa. A pile of shit per dirla all’inglese, che mi piace perche’ suona proprio come “una pila di merda” e rende bene l’idea. 

A Dehli ho ritrovato Martin e assieme ci siamo mossi verso ovest. Gli spostamenti in treno sono stati estenuanti per la simultanea presenza di troppe anime in uno spazio troppo piccolo. Abbiamo provato l’alternativa del pullman, mezzo piu’ costoso ma, ci siamo detti, sicuramente meno affollato. Illusi. Anche quello si e’ riempito di gente, in piedi, sdraiata lungo il corridoio, seduta sui braccioli dei sedili, con i piedi sulla testiera dei sedili di fronte, con la testa fuori dal finestrino a vomitare, con la testa nel corridoio a vomitare, allora tutti ad aprire i finestrini per sopravvivere alla puzza, poi tutti a chiuderli per sopravvivere al freddo, poi aprirli di nuovo per la puzza… il viaggio notturno peggiore della mia vita, credo. Ad ogni modo, tra una disavventura e l’altra siamo giunti qui, nell’arido Rajasthan.



Ora ogni mattina mi lancio in questa corsa ad ostacoli in cui mucche e cani, motorini e rikshaw, passanti e mendicanti si contendono la strada stretta sottraendosi vicendevolmente lo scarso spazio vitale. A terra c’e’ immondizia, shifezze non meglio identificate, scatarrate, pile di merda, ci sono intere pareti usate come pisciatoi pubblici, c’e’ polvere, c’e’ vociare di gente e un assordante e continuo e insopportabile suonare il clacson. Ci sono quelli che lo tengono premuto costantemente, li senti avvicinarsi, peeeeeeeeeeeeEEEEEEEEEEEEEEEEEeeeeeeeeeeeeeeeee…. e allontanarsi. E ogni volta mi faccio violenza per trattenermi dal girarmi di scatto nel momento in cui mi passano a fianco e sferrare un calcio volante al conducente del motorino per vederlo volare a metri di distanza come nei migliori film d’azione. E’ dura anche resistere dal sollevare da terra alcuni autisti di rikshaw prendendoli per il colletto e urlar loro “Ti pare il caso??? Adesso lo cancelli!!! Immediatamente!!” perche’ la scritta che alcuni hanno dipinta a mano sul retro del veicolo e’ “Perfavore, suonare il clacson” Suonare il clacson???? Ma ti suonassero la faccia!!! E tutto questo non e’ nulla, tutto questo e’ solo lo sfondo; in questa processione l’azione vera e’ data dall’interazione con i negozianti, i truffatori e i veditori ambulanti.


La dinamica indiana della compravendita e’ un rito interessante. Supponiamo di dover comprare un oggetto X il cui prezzo, si sa per certo, e’ cinque generici soldi. In genere in Laos mi capitava cosi’: “Quanto costa X?” “Sei soldi” “…mmm… facciamo cinque?” “Ok”. In Thailandia e Cambogia si andava un po’ piu’ per le lunghe: “Quanto costa X?” “Otto soldi” “No, troppo” “Sette e mezzo” “Al massimo quattro” “No quattro no, sei e’ l’ultimo prezzo” “Quattro” “Vienimi in contro, possiamo fare cinque e mezzo” “Quattro e mezzo” “Cinque” “Ok, lo compro”. Nel nord del vietnam molti erano piu’ sbrigativi: “Quanto costa X?” “Ottantacinque soldi” “Cosa???” “Ottantacinque” “Ma se costa cinque dappertutto!” “Ottantacinque” chiusa la questione. E allora tanti saluti.

  

In India e’ tutto piu’ colorato, tutto piu’ speziato, spesso si parte con un baccagliamento spietato: “Hello madame! You look like indian! Which country? Oh! Italy! Ciao, nesun poblema, Milano, Roma, Sonia Gandhi… I speak italian, yo parla italiano poco poco. I have friends in Italy! What’s your good name? Nicole?? My favourite name!! And you have beautiful voice, so sweet…” poi si cerca di creare il setting adeguato “How much for X?” “X? Well, I also have different colour… come, have a look inside, come! Maybe you want some chai?” (il chai e’ un te speziato) “I’m ok, thank you… just tell me the price” e poi finalmente si arriva ad una fantasiosissima trattativa: “Ten” “Ten?? No, it’s too much…” “Ok, nine fifty” “Too much” “Ok, how much you want to give me?” “Five” “Five??” e scoppia a ridere “My friend, five not possible: this is good quality, rajasthani quality, best quality! Last price: eight” “Five” “Madame (e ride), eight is very best price! Ok, ok, let’s say seven, I give you Diwali price” Diwali e’ il capodanno indiano, il mio quarto capodanno dell’anno. Per l’occasione tutto e’ venduto a finti prezzi di favore “Let’s say five” “Madame, five is evening price, now we are morning: seven is morning price!” “What…? What are you talking about??? (e rido) I’m sorry, I can’t spend more than five. Sorry. Bye” ci si allontana di qualche passo… “Ok, Ok, come! Six: indian price” “No, five” “Ok, ok, ok” “Ok what? Five?” “Five fifty” “Five” “Ok madame, five! But only for you ‘cause you are first costumer. First costumer price for you!” Il mio nome e’ sempre il preferito di tutti, la mia voce e’ melodiosa e io sono di una bellezza accecante quando devo comprare qualcosa, ma soprattutto, sono sempre il primo cliente. Anche di sera. 


Cosi’, ogni mattina si parte con Hello madame! Buy something madame? What are you looking for madame? The ticket office is closed today, madame, but I can find you a ticket if you follow me to my agency, madame… e ogni tanto qualcuno ti si aggrappa al polso chiedendo qualcosa… non mi toccare, non mi toccare!!… I can give you Indian price, Diwali price, first costumer price… beautiful name, beautiful voice, you are beautiful… uno dietro l’altro, una mitragliata, tiro dritto distribuendo no a destra e a manca, cercando di schivare i troppi corpi che mi vengono contro, sempre piu’ irritata da tutto quel che mi circonda e che mi ruba piu’ attenzioni di quante io ne voglia dare. Sempre piu’ nervosa e tesa e pronta ad esplodere… trovo rifugio ogni mattina sul tetto-terrazza del ristorante in cui vego a fare colazione, dove di fronte ad un bicchiere di te alla menta posso godere di un po’ di tranquillita’ guardando Jaiselmer dall’alto.


Jaiselmer e’ una cittadina alle porte del deserto, case gialle dai tetti piatti con panni colorati stesi ad asciugare; cosi’ come Jodhpur, e’ chiaramente una citta’ su due livelli: quello della strada, fatto di vicoli sovraffollati e sporchi dove il flusso delle cose e’ tumultuoso e claustrofobico; e poi quello dei tetti, fatto di silenzio e tranquillita’, dove si ritrova un’intimita’ esposta al cielo eppure protetta dal resto del mondo: su una casa una madre lava il figlio in un catino, su un’altra un uomo vestito di bianco fa yoga, due donne stendono chiacchierando, un cameriere sistema i tavoli di un ristorante… il forte troneggia sulla citta’ i cui confini sfumano nell’aria opaca di polvere e inquinamento. Non e’ che non ci sia nessuno quassu’, non e’ che non arrivi alcun rumore dalla strada o che l’aria sia piu’ pulita… ma sicuramente e’ meglio che star di sotto. Che poi anche di sotto e’ cosi’ tanto il bello…
In Rajhastan abbiamo visitato bellissimi forti e palazzi da Mille e una Notte curati nei minimi dettagli, sospirato guardando dall’alto Jodhpur -la citta’ blu-, condiviso posti treno con donne dai sahari variopinti e uomini dal turbante colorato, ci siamo spostati in moto per raggiungere il deserto… 


Il bello e’ molto, ma dopo gli spazi immensi, il vuoto, il silenzio e la pace della Mongolia e dell’Himalaya, patisco enormemente la presenza di tutte queste persone ovunque. L’umanita’ mi sta stretta. Se dopo le prime ventiquattro ore l’India aveva risucchiato tutte le mie energie, dopo sole due settimane mi ha portata ad auspicare che l’estinzione della specie umana avvenga presto e in modo rapido. Mi ha portata a provare intensissimo fastidio, insofferenza, rabbia profonda… a allo tesso tempo ammirazione, affetto, divertimento e meraviglia.
In questo momento il briciolo d’India che ho visto e’ per me come un paziente confuso, iperattivo e in isolamento da contatto, ma il turno dura ventiquattr’ore e non arrivera’ mai nessuno a darti il cambio. E’ un paziente che richiede un’attenzione continua, che ti risucchia tutte le energie, anche quelle che pensavi di non avere, che ti fa arrabbiare, che ti fa provare frustazione perche’ devi rifare le stesse cose
innumerevoli volte solo per vedergliele disfare pochi minuti dopo, che ti fa sentire sporco perche’ tutto e’ contaminato, ma poi, quando senti di essere sull’orlo dell’esasperazione, spara l’ennesima assurdita’, quella piu’ grossa delle altre che pero’ va a toccare il tasto giusto e invece di farti esplodere ti fa arrendere e ti viene da ridere, ti rendi conto che in una situazione che non ha alcun senso, la cosa piu’ irragionevole e’ il tuo spazientirti.
Cosi’, nonostante tutto, quando riesco a guardarmi dall’esterno (quando un autista di rikshaw trova una scusa ridicola per cambiare il prezzo a destinazione raggiunta e io incrocio le braccia e gli dico che non scendero’ fino a quando non mi avra’ dato il mio resto, che non ho problemi a seguirlo tutto il giorno e lui ride e inizia a darmi una monetina alla volta sperando che ceda prima di lui… quando i proprietari della guest house ti sbattono fuori perche’ non hai comprato il loro camel safari, il tour organizzato nel deserto, e ti ritrovi improvvisamente per strada senza aver davvero capito come diavolo ci sei finito a vagare con lo zaino in spalle senza una sistemazione…) quando mi vedo dall’esterno, dicevo, mi viene da mettermi la mani nei capelli e ridere sconsolata di tutto; scopro di starmi affezionando a tutto cio’, so che ricordero’ col sorriso ogni viaggio in treno, compatiro’ la mia rabbia, forse addirittura trovero’ noioso qualunque altro posto e mi manchera’ questo affascinante disastro.
Ultimamente mi capita spesso di sognare a cartoni animati, che non so cosa voglia dire ma sicuramente qualcosa di significativo.