Tuesday, December 25, 2012

Sud



Hampi (India), 14 dicembre 2012

L’unico difetto della guest house in cui ho passato una settimana di soggiorno forzato a Delhi era che aveva le pareti molto sottili, per cui avere la propria camera o essere in uno stanzone unico con gli altri ospiti, i proprietari, i vicini e i passanti sarebbe stato grossomodo la stassa cosa. A livello acustico intendo.
La sveglia arrivava dalla strada, con il suo cescendo di traffico: prima un solista, poi qualche quartetto, in fine un’intera orchestra si clacson ti invitava ad abbandonare il sonno.  
Il buongiorno arrivava dai vicini che ti rendevano partecipe delle loro abluzioni quotidiane; la mia preferita, non che la piu’ potente: un risucchio agghiacciante, come se si stesse cercando di aspirarsi in bocca il cervello facendolo passare dalle coane, seguito da un sonorosissimo e liberatorio sputo.
Al ristorante della colazione, scelto per il rapporto qualita’-prezzo-distanza, alcuni topolini bianchi scorrazzavano tra i piedi dei clienti, ma bellini, piccoli come criceti; la clientela del ristorante della colazione non era certo del tipo che chiama l’ufficio d’igiene, anzi, chiamava i topi per nome. 


Lungo a strada tra guest house e ristorante, ristorante e guest house, tutta una serie di personaggi: sullo sfondo, il coro greco di negozianti senza nome che ogni pochi passi ti interrompevano discorsi e camminata per invitarti a parlare/guardare/comprare all’interno del proprio negozio. Poi sempre le stesse quattro facce degli incorreggibili ottimisti che ti si avvicinavano sussurrando per venderti qualsivoglia tipo di sostanza stupefacente; ottimisti perche’ nonostante si fossero sentiti dire di no quelle cinque volte al giorno per una settimana, continuavano a proporre, hai visto mai che uno improvvisamente cambi idea “Ma sai cosa? Oggi si’. Oggi un po’ di crack te lo compro!”. E poi c’erano personaggi piu’ delineati, come il ragazzo dei biscotti che ogni sera sbucava in strada con il suo carretto e da cui compravo la mia dose giornaliera di simil paste di meliga cotte sul momento in un forno a brace ricavato da un secchio di latta. 


O la Signora dello Sri Lanka, che girava ben vestita e truccata con un foglio di carta e una penna a raccogliere firme e offerte “per lo Sri Lanka” (?) e che ogni volta che le dicevo di no (cioe’ ogni volta) mi faceva una pernacchia alle spalle; le ho fatto il verso, lei l’ha trovato divertente e da li’ ogni incontro si e’ trasformato in uno spernacchiamento generale e grasse risate (sue); ben strana la Signora dello Sri Lanka.
Poi c’era il Signore Buono delle Patate, che tutte le sere montava il suo fornello e friggeva patate tagliate a cubetti da mangiare in uno scodellino di alluminio con salse e spezie a piacere; o con un pizzico di sale e basta, come piacciono a me; il Signore Buono delle Patate era buono perche’ aveva un faccione pacioso e perche’ ogni volta che passava una mucca lui le allungava una patata e lei si avvicinava, la mangiava al volo e proseguiva la sua passeggiata come fosse un gesto abituale, un appuntamento fisso con un vecchio amico. Il Signore Buono delle Patate era il mio preferito.
Certo Delhi e’ molto di piu’, nel bene e nel male. Questa e’ stata solo la mia Delhi. La mia Delhi per una settimana. E non e’ che me la sia propria goduta… come il resto del mese passato, se proprio dobbiamo dirla tutta… e allora via! Cambiare! Duemila chilometri con un treno diretto verso orizzonti sicuramente piu’ caldi, auspicabilmente migliori: il sud. 


Qui devo aprire una parentesi perche’ Martin dice che se lui avesse un blog, scriverebbe che ha rischiato di perdere il treno e rimanere piantato a Delhi per il resto del soggiorno in India perche’ la sua compagna di viaggio doveva comprare degli assorbenti. Che e’ vero. Ma alla sua compagna di viaggio non pareva una cattiva idea, dato che stava per chiudersi in un treno per le successive trentasei ore e, forse, se lui fosse stato piu’ esplicito, la sua compagna di viaggio avrebbe colto i suoi timidi tentativi di metterle fretta mentre temporeggiava tra gli scaffali assolutamente ignara dell’ora e non si sarebbero ritrovati in un rickshaw a dieci minuti dalla partenza del treno e dieci-quindici minuti di distanza dalla stazione a maledire chi il proprio utero, chi la propria compagna di viaggio… insomma, chi e’ il colpevole? Chi la vittima? Io ho qualche riserva a riguardo… ma chiudo parentesi.


Dopo treni e rickshaw, eccoci a sudovest, dove vengo subito accolta da uno strano senso di smarrimento: dov’e’ l’immondizia? Dove la puzza di piscio? E soprattutto, dov’e’ la folla, che fine ha fatto la ressa?? Cammino per strada senza urtare o essere urtata, nessuno mi ferma, gli uomini non mi fissano… ci sono palme e carretti di frutta tropicale, chilometri di ampia spiaggia deserta, aria palpabile ma non di smog: e’ salsedine da respirare a pieni polmoni… e’ un altro pianeta!
E ora che sono arrivata ad Hampi vorrei rimanerci per mesi. Tra le rovine dei templi con storie di mille Dei scolpite nella roccia e queste buffe formazioni rocciose che danno l‘idea che le pietre siano piovute dal mondo degli Dei accatastandosi le une sulle altre;


tra i campi in cui i contadini seminano, tagliano, raccolgono e interrompono il lavoro per salutarti da lontano con la mano, mentre sfili con un vecchio motorino scassato sulle stradine costeggiate da palme; su questi promontori su cui arrampicarsi di fretta col fiatone perche’, come al solito, si e’ in ritardo per un apputamento importante: il tramonto. E ogni sera, mentre il sole si spegne e il paesaggio si accende di rosa tra il cielo e il suo riflesso sui campi di riso, sentirmi dire “Giuro che non viaggero’ mai piu’ con una femmina. Se penso che avrei potuto perdermi questo per colpa dei tuoi assorbenti…”. Ma, come ho gia’ detto, io ho le mie riserve…

No comments:

Post a Comment