Friday, January 18, 2013

Ibu e Ayah



Yogjakarta (Indonesia), 4 gennaio 2013

Devo fare pena quando arrivo alla guest house che avevo premurosamente prenotato online e accolgo con un “non importa” la notizia che la mia stanza e’ stata data a qualcun altro. E va be’, posso mica chiedere che sbattano fuori un’altra persona. Ma devo fare davvero pena perche’ Ibu e Ayah decidono di aprirmi la porta di casa loro. “Nostra figlia sara’ felice” decidono.
Ibu e Ayah vivono in una casetta isolata, la porta d’ingresso si affaccia sulla strada, quella sul retro sui campi di riso che riflettono il cielo. C’e’ un che di fiabesco, la casa e’ piccina, sospesa tra le nubi, immersa in un gracchiare di ranocchie. E’ adorabile.
Ibu mi fa trovare in bagno una bacinella d’acqua calda con cui lavarmi. Il bagno e’ una cabina esterna in cemento nudo; c’e’ una vasca cubica in muratura piena d’acqua e un secchiellino con cui versarsela addosso; c’e’ un cestino di plastica vedre inchiodato alla parete con dentro tre spazzolini, un sapone e delle bustine monodose di shampoo. 



Non vedendo altra alternativa, faccio pipi’ per terra, il piu’ vicino possibile al buco di scolo, e verso abbondanti scodellate d’acqua per sciacquare. Mi chiedo come facciano per “quella grossa”. Solo a danno compiuto mi rendo conto che c’e’ una turca, perfettamente nascosta sotto la bacinella d’acqua calda e mi sento terribilmente in colpa. Brava Nicole! Questi ti ospitano in casa loro e tu cosa fai? Gli pisci nella doccia!! Complimenti!
Quando esco dalla doccia Ibu mi ha preparato la cena e Retno, la figlia ventitreenne, ha chiamato la sua amica con l’inglese migliore per intrattenermi. Sono stanca, ma cerco di non darlo a vedere perche’ pare che ognuno stia facendo del proprio meglio per… be’, per me. Cosi’ accetto anche quando Ayah si offre di accompagnarmi al tempio di Borobudur svegliandoci alle quattro del mattino per esser li’ all’alba.


Non e’ la mia sveglia a darmi il buongiorno, ma il canto dell’Imam piu’ triste del mondo che chiama alla preghiera nella moschea vicina. Salgo sul motorino che e’ ancora buio, il giorno si sveglia pian piano e l’umidita’ della notte si alza lenta dai campi velando il paesaggio di bianco. Che meraviglia. Nessun tempio potra’ mai eguagliare la bellezza di quest’alba. Vedo la mia faccia riflessa deformemente sul casco di Ayah. Che orrore. Ho gli occhi gonfi, il destro piu’ del sinistro, e uno sguardo vuoto, sono uno sfacelo… ma sono felice. Per l’alba, per il tempio, per essere stata accolta con questo calore da persone di cui non conosco neppure il nome. Ibu e Ayah sinificano Mamma e Papa’. Cosi’ si sono fatti chiamare, cosi’ li ho chiamati.
…e io, ingrata, gli ho pisciato nella doccia… mannaggia, mannaggia a me…

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