Melbourne, 11 Gennaio 2014
Specifico per i sani di mente che si sono
saltati il post precedente: appena arriavata a Melbourne ho firmato un
contratto di tipo casual con
un’agenzia per lavorare negli ospedali come Personal Care Assistant, ovvero
grossomodo come oss. Purtroppo peró i giorni passano e di lavoro nemmeno
l’ombra.
Il 10 dicembre, alle 22.00, sono ancora nel
pieno delle mie lamentele crepuscolari via sms con amici in Italia, quando il
flusso di messaggi viene improvvisamente interrotto da una telefonata “Nicole,
chiamo dall’agenzia: un’emergenza!” cosa? “un paziente che vuole scendere dal
letto” dove? “Pronto Soccorso dell’ospedale TalDeiTali” quando? “Adesso, il
prima possibile, è un’emergenza! Puoi?” Il mio primo turno. La mia prima cifra
con un piú davanti sullo storico dei movimenti del mio conto in banca.
Il momento che aspettavo da una vita... “Posso!”
Dal triage mi fanno subito entrare e vengo
affidata alla Nurse in Charge del pronto (la capoturno), che a sua volta mi
affida all’infermiera responsabile del mio paziente, che a sua volta mi affida
il mio paziente facendomi il quadro della situazione: alcoolista, ripetuti
passaggi in pronto soccorso, agitato e aggressivo, vuole
lasciare l’ospedale contro parere medico, “se diventa violento chiama la
sicurezza e se hai bisogno di qualunque cosa chiama me” mi dice, e mi rifila un
dect. Il paziente è davanti a me. E dorme. Dormirá per le successive quattro
ore consecutive, durante le quali io staró seduta su una sedia a guardarmi
attorno, inizialmente sperando che “il mostro” non si svegli, poi considerando
l’idea di svegliarlo a pizzicotti pur di far succedere qualcosa, qualunque cosa
che mi salvi dalla tenaglia della noia.
Tralasciando il frutto dei miei deliri
notturni circa la discutibilitá etica e morale del pizzicotto, come descrivere
questo pronto soccorso?
Open space, bancone centrale, unitá ampie
delimitate da tendoni spessi che partono dal soffitto e arrivano a 30
centimetri da terra dando l’idea di vere e proprie stanze. Nessuno urla,
nessuno chiama, nessuno si lamenta, se qualcuno puzza non lo da a sentire...
c’è qualcosa di sospetto. Le infermiere si muovono sculettando con calma tra le
unitá e il bancone, nessuna corre, nessuna schiamazza, nessuna indossa una
divisa che io reputi tale. Parliamone. Al momento dell’acquisto della divisa
(che la mia agenzia non fornisce) non sono riuscita a trovare un negozio di
abbigliamento professionale. Con un po’ di perplessitá sono andata al
supermercato, nel reparto premaman ho trovato un paio di pantaloni a mio
giudizio idonei e li ho abbinati ad una polo bianca. Tutto largo, discreto e
comodo, il nostro classico pigiama da lavoro per intenderci.
Le infermiere e dottoresse che mi trovo
davanti invece indossano ballerine nere, pantalone alla pescatora aderente nero
o blu (variante leggins per una evidentemente piú sportiva e pantalone lungo
per una che probabilmente non aveva avuto tempo di depilarsi), camicetta chiara
sciancrata con manica corta o a ¾ oppure maglietta di cotone morbido sempre
tendenzialemente aderente. Gli uomini hanno scarpe nere, pantalone classico
nero, camicia o polo bianca... dei camerieri col fonendo al collo. Mi sento
inadeguata come quella volta che sono andata ad una serata di tango in tuta da
ginnastica.
Oltre all’atmosfera generale, noto subito due
indicatori inequivocabili di basso carico di lavoro: abiti senza tasche e badge
appeso al collo che penzola libero sul petto. Ma voglio una conferma esplicita,
per cui chiedo all’infermiera quanti pazienti segue: “Quattro”. Quattro?
Quattro???
Fammi capire, su un rapporto uno a quattro
con pazienti autosufficienti, uno che vuole scendere dal letto è considerato
un’emergenza tale da giustificare la mia presenza qui?? Penso a tutto il
personale del nostro pronto soccorso con un misto di compassione e profonda
stima.
Alle tre il mio paziente si sveglia e
contrariamente ad ogni aspettativa si dimostra estremamente collaborativo, addirittura
piacevole. Chiacchieriamo, lo accompagno in bagno, richiacchieriamo...
ad un certo punto, con nonchalance, si toglie
il camice bianco e inizia a vestirsi. “Stai andando da qualche parte?” gli
chiedo “Voglio fumare una sigaretta” mi spiega tranquillo. In quel momento
passa l’infermiera, mi guarda, le sorrido e le dico “vuole fumarsi una
sigarett...” “CHIAMO LA SICUREZZA!” prende il dect che ha appeso ai pantaloni
come una pistola nella fondina e in un secondo chiama la sicurezza, la chiama
davvero. Rimango pietrificata. La sicurezza?? Dalla conversazione capisco che
la sicurezza si occupa tra le altre cose di accompagnare i pazienti a fumare
fuori, ma data l’ora nel caso specifico non è ritenuto idoneo; chiedono
comunque se sia necessario un intervento, l’infermiera dice che prova a
gestirla da sola, riaggancia, dice al paziente “Sono quasi le quattro! Ora
della vitamina B!” cannula, siringa, midazolam... stud! Steso. Ok, ora sono
DAVVERO pietrificata, lo dicevo che c’era qualcosa di sospetto!
Altre quattro ore a guardarmi attorno e alle
7.30 finisco il mio primo turno.
Quando mi chiamano dall’agenzia per il
secondo turno, mi danno l’orario, il nome dell’ospedale e quello del reparto.
Considerando che il nome del reparto in genere è qualcosa del tipo 6 West, che
piú che un nome sembrano coordinate gps, quando esco di casa per andare a
lavoro è un po’ un salto nel vuoto. Mi affido a google map per trovare
l’ospedale e ad uno strumento ancora piú potente e affidabile per capire di che
reparto si tratti, le tavole sacre del nostro millennio... 6 West, ala ovest
sesto piano: la targhetta dell’ascensore dice “chirurgia”, le tavole hanno
parlato ancora.
Questa volta la mia paziente è una signora a cui è stata
attivata l’osservazione continua di livello 3 per rischio di autolesionismo: il mio compito è quello di stare
seduta su una sedia a due metri dal letto della paziente con gli occhi puntati
su di lei e riportare su una scheda di osservazione quel che sta facendo ogni
quindici minuti. Per dieci ore. Di notte. “DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. BEVE UN BICCHIERE
D’ACQUA. RIPOSA A LETTO. DORME. DORME. DORME. DORME...”
Il terzo turno é un’altra notte, questa volta
per un signore confuso. La consegna che mi viene passata é questa: “E’ un
signore autosufficiente, collaborante, tranquillo ma confuso, se si sveglia
devi solo reindirizzarlo”. Cosí mi limito a rimettergli l’ossigeno quando si
spostano gli occhialini e a “reindirizzarlo” le rare volte in cui si sveglia:
ti ricordi dove sei? Sai che ore sono? Hai sonno? Perchè non dormi ancora un
po’? Lui si ricorda, ringrazia, si scusa, si riaddormenta.
E lo so che sembra impossibile, ma giuro che
mi pagano. Mi pagano per questo. E non poco. Che dire? Indubbiamente questo è
un Paese che ha le risorse economiche per poter risolvere la spinosa questione
della contenzione, prevenire il rischio di caduta, di rimozione dei presidi, di
autolesionismo... e soprattutto per curare il lato estetico della professione.
A tal proposito, mi sono adeguata al codice
di abbigliamento ospedaliero locale: quelle nelle foto sono la mia vecchia e nuova divisa. Come il prima e il dopo degli interventi di chiururgia estetica, ma senza photoshop, giuro: sono ballerine vere.
Mannaggia, le ballerine... ridicolo!
Mannaggia, le ballerine... ridicolo!
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