Tuesday, March 25, 2014

Il primo turno non si scorda mai

Melbourne, 11 Gennaio 2014

Specifico per i sani di mente che si sono saltati il post precedente: appena arriavata a Melbourne ho firmato un contratto di tipo casual con un’agenzia per lavorare negli ospedali come Personal Care Assistant, ovvero grossomodo come oss. Purtroppo peró i giorni passano e di lavoro nemmeno l’ombra.

Il 10 dicembre, alle 22.00, sono ancora nel pieno delle mie lamentele crepuscolari via sms con amici in Italia, quando il flusso di messaggi viene improvvisamente interrotto da una telefonata “Nicole, chiamo dall’agenzia: un’emergenza!” cosa? “un paziente che vuole scendere dal letto” dove? “Pronto Soccorso dell’ospedale TalDeiTali” quando? “Adesso, il prima possibile, è un’emergenza! Puoi?” Il mio primo turno. La mia prima cifra con un piú davanti sullo storico dei movimenti del mio conto in banca. Il momento che aspettavo da una vita... “Posso!”

Un’ora dopo sono in ospedale.




Dal triage mi fanno subito entrare e vengo affidata alla Nurse in Charge del pronto (la capoturno), che a sua volta mi affida all’infermiera responsabile del mio paziente, che a sua volta mi affida il mio paziente facendomi il quadro della situazione: alcoolista, ripetuti passaggi in pronto soccorso, agitato e aggressivo, vuole lasciare l’ospedale contro parere medico, “se diventa violento chiama la sicurezza e se hai bisogno di qualunque cosa chiama me” mi dice, e mi rifila un dect. Il paziente è davanti a me. E dorme. Dormirá per le successive quattro ore consecutive, durante le quali io staró seduta su una sedia a guardarmi attorno, inizialmente sperando che “il mostro” non si svegli, poi considerando l’idea di svegliarlo a pizzicotti pur di far succedere qualcosa, qualunque cosa che mi salvi dalla tenaglia della noia.

Tralasciando il frutto dei miei deliri notturni circa la discutibilitá etica e morale del pizzicotto, come descrivere questo pronto soccorso?
Open space, bancone centrale, unitá ampie delimitate da tendoni spessi che partono dal soffitto e arrivano a 30 centimetri da terra dando l’idea di vere e proprie stanze. Nessuno urla, nessuno chiama, nessuno si lamenta, se qualcuno puzza non lo da a sentire... c’è qualcosa di sospetto. Le infermiere si muovono sculettando con calma tra le unitá e il bancone, nessuna corre, nessuna schiamazza, nessuna indossa una divisa che io reputi tale. Parliamone. Al momento dell’acquisto della divisa (che la mia agenzia non fornisce) non sono riuscita a trovare un negozio di abbigliamento professionale. Con un po’ di perplessitá sono andata al supermercato, nel reparto premaman ho trovato un paio di pantaloni a mio giudizio idonei e li ho abbinati ad una polo bianca. Tutto largo, discreto e comodo, il nostro classico pigiama da lavoro per intenderci.
Le infermiere e dottoresse che mi trovo davanti invece indossano ballerine nere, pantalone alla pescatora aderente nero o blu (variante leggins per una evidentemente piú sportiva e pantalone lungo per una che probabilmente non aveva avuto tempo di depilarsi), camicetta chiara sciancrata con manica corta o a ¾ oppure maglietta di cotone morbido sempre tendenzialemente aderente. Gli uomini hanno scarpe nere, pantalone classico nero, camicia o polo bianca... dei camerieri col fonendo al collo. Mi sento inadeguata come quella volta che sono andata ad una serata di tango in tuta da ginnastica.
Oltre all’atmosfera generale, noto subito due indicatori inequivocabili di basso carico di lavoro: abiti senza tasche e badge appeso al collo che penzola libero sul petto. Ma voglio una conferma esplicita, per cui chiedo all’infermiera quanti pazienti segue: “Quattro”. Quattro? Quattro??? 
Fammi capire, su un rapporto uno a quattro con pazienti autosufficienti, uno che vuole scendere dal letto è considerato un’emergenza tale da giustificare la mia presenza qui?? Penso a tutto il personale del nostro pronto soccorso con un misto di compassione e profonda stima.

Alle tre il mio paziente si sveglia e contrariamente ad ogni aspettativa si dimostra estremamente collaborativo, addirittura piacevole. Chiacchieriamo, lo accompagno in bagno, richiacchieriamo...

ad un certo punto, con nonchalance, si toglie il camice bianco e inizia a vestirsi. “Stai andando da qualche parte?” gli chiedo “Voglio fumare una sigaretta” mi spiega tranquillo. In quel momento passa l’infermiera, mi guarda, le sorrido e le dico “vuole fumarsi una sigarett...” “CHIAMO LA SICUREZZA!” prende il dect che ha appeso ai pantaloni come una pistola nella fondina e in un secondo chiama la sicurezza, la chiama davvero. Rimango pietrificata. La sicurezza?? Dalla conversazione capisco che la sicurezza si occupa tra le altre cose di accompagnare i pazienti a fumare fuori, ma data l’ora nel caso specifico non è ritenuto idoneo; chiedono comunque se sia necessario un intervento, l’infermiera dice che prova a gestirla da sola, riaggancia, dice al paziente “Sono quasi le quattro! Ora della vitamina B!” cannula, siringa, midazolam... stud! Steso. Ok, ora sono DAVVERO pietrificata, lo dicevo che c’era qualcosa di sospetto!
Altre quattro ore a guardarmi attorno e alle 7.30 finisco il mio primo turno.


Quando mi chiamano dall’agenzia per il secondo turno, mi danno l’orario, il nome dell’ospedale e quello del reparto. Considerando che il nome del reparto in genere è qualcosa del tipo 6 West, che piú che un nome sembrano coordinate gps, quando esco di casa per andare a lavoro è un po’ un salto nel vuoto. Mi affido a google map per trovare l’ospedale e ad uno strumento ancora piú potente e affidabile per capire di che reparto si tratti, le tavole sacre del nostro millennio... 6 West, ala ovest sesto piano: la targhetta dell’ascensore dice “chirurgia”, le tavole hanno parlato ancora.

Questa volta la mia paziente è una signora a cui è stata attivata l’osservazione continua di livello 3 per rischio di autolesionismo: il mio compito è quello di stare seduta su una sedia a due metri dal letto della paziente con gli occhi puntati su di lei e riportare su una scheda di osservazione quel che sta facendo ogni quindici minuti. Per dieci ore. Di notte. “DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. BEVE UN BICCHIERE D’ACQUA. RIPOSA A LETTO. DORME. DORME. DORME. DORME...”

Il terzo turno é un’altra notte, questa volta per un signore confuso. La consegna che mi viene passata é questa: “E’ un signore autosufficiente, collaborante, tranquillo ma confuso, se si sveglia devi solo reindirizzarlo”. Cosí mi limito a rimettergli l’ossigeno quando si spostano gli occhialini e a “reindirizzarlo” le rare volte in cui si sveglia: ti ricordi dove sei? Sai che ore sono? Hai sonno? Perchè non dormi ancora un po’? Lui si ricorda, ringrazia, si scusa, si riaddormenta.

E lo so che sembra impossibile, ma giuro che mi pagano. Mi pagano per questo. E non poco. Che dire? Indubbiamente questo è un Paese che ha le risorse economiche per poter risolvere la spinosa questione della contenzione, prevenire il rischio di caduta, di rimozione dei presidi, di autolesionismo... e soprattutto per curare il lato estetico della professione.

A tal proposito, mi sono adeguata al codice di abbigliamento ospedaliero locale: quelle nelle foto sono la mia vecchia e nuova divisa. Come il prima e il dopo degli interventi di chiururgia estetica, ma senza photoshop, giuro: sono ballerine vere.
Mannaggia, le ballerine... ridicolo!

No comments:

Post a Comment