Friday, June 29, 2012

Ed e' Africa



Kampot (Cambodia), 15 giugno 2012

La Cambogia ha qualcosa che mi ricorda l’Africa. Non riesco a giustificare questa sensazione, ma e’ qualcosa di profondamente intenso e indefinito, come un odore gia’ sentito. E’ un’impressione che mi arriva a vampate nei momenti e nelle situazioni piu’ diverse: camminando lungo i fossati pieni d’acqua putrida nella periferia di Phnom Penh; attraversando questa campagna piatta e rigogliosa dove la terra esplode di rosso ipersaturo quando si bagna, dove le strade tra i campi sono ferite che si riaprono ad ogni pioggia; bevendo da un bicchiere di plastica colorato seduta al tavolino di un chiosco a bordo strada; guardando la luce; guardando la gente. Potra’ suonare assurdo, ma alcuni uomini mi sembrano un po’ africani. Non dell’Africa nera, no di certo… di una qualche isola in cui si siano mischiate per bene le carte della genetica. Capoverdiani con i capelli lisci, gli occhi allungati e gli zigomi larghi, qualcosa del genere… ok, e’ assurdo. La Cambogia e’ il primo Paese asiatico in cui ho considerato belli dei ragazzi. Non molti ma, insomma, spezziamola una lancia! Trovo invece che ci siano moltissime donne di una bellezza degna di nota, le piu’ belle che abbia visto da quando sono partita, piu’ delle tanto acclamate thailandesi, secondo me. 


Vale sempre la regola della casualita’degli incontri, ma se e’ vero che esiste una sorta di carattere collettivo, la gente e’ in generale molto espansiva in questo Paese. Moltissime persone parlano inglese e ad un buon livello, per cui e’ possibile anche scherzare, non solo esprimere bisogni basici. Gli stranieri sono un’opportunita’ per praticare l’inglese e quando mi allontano dalla famiglia improvvisata per soddisfare il mio bisogno di solitudine, finisco immancabilmente per conoscere qualcuno. Qui a Kampot, davanti ad una tazza di te, ho conosciuto Chin: un signore sulla cinquantina a cui ho proposto questo scambio: facciamo colazione assieme per qualche giorno, io ti correggo in inglese e tu mi insegni qualcosa in Khmer. E’ divertente. Intanto perche’ lo Khmer ha dei suoni incredibili, tipo la sequenza setto otto nove: pram pal pram bai pram bun. Ma soprattutto perche’ l’inglese di Chin e’ ancora piuttosto incerto, per cui: “”Cos’e’ questo?” si dice “Ni ta-auai?”” “E come si dice “Cos’hai detto?”” “”Ni ta-auai?”” “No, no, no: se non capisco, come faccio a chiedere di ripetere, come si chiede “Cos’hai detto?”” “”Ni ta-auai?”” “Ma e’ uguale a “Cos’e’ questo?”” “E’ un foglio” “…”


Kampot e’ una cittadella divisa dal fiume: su una sponda e’ di nuovo odore d’Africa per me, con le vie principali asfaltate e quelle interne ai quartieri in terra rossa, lungo la strada venditrici di frutta o bibite fresche, autolavaggi e meccanici, nel pomeriggio bambini ovunque che tornano da scuola in uniforme a piedi o con biciclette da adulto, prodigandosi in un coro di “Hello!!” sventolando le mani per aria a salutare la straniera. Sull’altra sponda del fiume i bambini sono identici, cambiano gli edifici: case coloniali francesi di una bellezza decadente, con le mura ormai stinte dal tempo e croste di colore cadute a scoprire il bianco dell’intonaco… nel complesso (ma anche nei dettagli) la citta’ e’ bellissima, fotograficamente e’ irresistibile con tutti questi colori, credo che questa apparente trascuratezza ne costituisca il fascino. E’ in assoluto la mia citta’ preferita tra quelle che ho visto in questo viaggio. La sera la passeggiata lungo il fiume si riempie di gente, c’e’ chi suona la chitarra, chi pattina, chi gioca a calcio, e io corro tra la folla, con Martin e Aritz, nell’aria che finalmente cede alla freschezza della notte… a guardarlo cosi’, in maniera un po’ superficiale, sembrerebbe un posto felice. Pulito, tranquillo e felice. Decisamente la mia citta’ preferita.


Nel frattempo sul mio passaporto si e’ materializzato il visto per il Vietnam e incrocio le dita perche’ Martin decida di venire con me, anziche’ seguire Aritz in Thailandia. Tutti vorrebbero continuare con Martin, fingiamo indifferenza ma sotto sotto ognuno fa il tifo per se stesso. Ad oggi, non ho utilizzato strategie politicamente scorrette per influenzarlo nella scelta, ma l’altra sera ho beccato Aritz mentre gli prometteva di andare a vedere assieme il Ping Pong Show a Bangkok (non approfondiro’)… Dunque e’ cosi’ che stanno le cose? Si gioca sporco?? Maledetto spagnolo…

Friday, June 22, 2012

Felicita' e malinconia

Otres Beach (Cambodia), 9 giugno 2012

Il giorno prima della partenza, ho fatto lo zaino con lo spirito di chi si prepara ad ogni evenienza: coltellino svizzero, sacco a pelo, frontale, scarpe in goretex adatte per camminate, escursioni, corsa, trotto e galoppo. Avevo addirittura pensato di portami dietro una bussola e una metallina, hai visto mai che mi perda sull’Himalaya e debba combattere l’ipotermia… gia’. L’ipotermia. Ci sono 35 gradi all’ombra, ma, per carita’, meglio essere previdenti. Superati i due mesi, ho preso il mio zaino da Mc Giver, l’ho vuotato del tutto e l’ho rifatto dal principio seguendo rigorosamente una sola semplicissima regola: se e’ nuovo, e’ superfluo. Nel senso: tutto cio’ che non ho usato fin ora non mi serve e perde il diritto di tornare nello zaino. Ma proprio tutto? Tuttissimo. Anche se potrebbe servirmi? Anche se potrebbe salvarti la vita. Anche il dizionario tascabile italianoingleseingleseitaliano di mia madre? …se lo scopre mi ammazza. Se si ha dello spazio in esubero nello zaino, se dopo aver corso in spiaggia al mattino ci si puo’ sdraiare su un’amaca a riprendere fiato guardando il mare, se la contabilita’ del mese ha confermato che si sta spendendo meno di quanto ci si potrebbe permettere… qual e’ la prima cosa che si corre a fare? Esatto: comprare un ukulele!! Lo volevo da giorni e ora che ce l’ho, mi consumo i polpastrelli tra Don’t worry be happy e Somewhere over the rainbow… ipotermia… ma per favore! E’ tempo per me di seguire le orme di Israel Kamakawiwo’ole, il quale dubito fortemente abbia mai messo piede sull’Himalaya. O forse si’. Chissa’.



Siamo ora sulle spiagge a sud della Cambogia. Se poco fa la stagione delle piogge iniziava a bussare timidamente alle porte, ora varca la soglia almeno una volta al giorno. L’atmosfera e’ strana: il cielo grigio e la spiaggia deserta a tratti emanano la stessa malinconia del mare in inverno, ma la temperatura (e l’ukulele!) riporta la mente a realta’ splendidamente tropicali, mentre si continua giocare con le onde, sotto la pioggia. Non avevo mai nuotato in mare con la pioggia, e’ meraviglioso! E’ un incontro di sensazioni contrastanti: dolce e salato, autunno ed estate, felicita’ e malinconia…
Dunque, Cambogia. Prima di scappare a gambe levate a sud, abbiamo passato qualche giorno nella capitale.  
Phnom Penh e’ una citta’ difficile. Anche per chi e’ abituato a Ouagadougou. Camminando per strada, la sensazione dominante e’ quella di dovermi togliere di li’, di dovermi rifugiare al piu’ presto in un luogo chiuso. Non e’ la quantita’ di traffico il problema, ma la qualita’: il disordine, l’irregolarita’ del flusso data dalle diverse velocita’ dei diversi mezzi di trasporto, auto, scooter, tuk tuk, bicitaxi che nelle ore di punta si lanciano negli incroci, si fermano o fanno inversione con lo stesso ordine di un sacchetto di biglie rovesciato sul pavimento. Anche il casino piu’ totale puo’ essere affascinante, ma non e’ questo il caso, non per me. 




I primi giorni in Cambogia sono stati emotivamente importanti; al desiderio di fuga dall’ambiente urbano si univa un senso di pesantezza e vergogna: mi ero preparata a questo pezzo di viaggio leggendo First they killed my father, un libro autobiografico che racconta la storia di una famiglia e quella dell’intero Paese durante il regime dei Khmer Rouge. Non e’ esattamente una lettura leggera, adatta al prima del sonno: mi sono svegliata diverse mattine in preda all’angoscia, sentendomi alle volte vittima, alle volte colpevole di ogni genocidio della storia dell’umanita’. 1975, e’ giusto dietro l’angolo. Quanti anni hanno le persone nate nel ’75? 37! Non sono niente! Tutti i cambogiani che hanno piu’ di 37 anni hanno vissuto l’indicibile in prima persona dal principio. E lo si vede. E’ una storia cosi’ recente da poter essere ancora letta sui corpi delle persone: nei numerosi mutilati, nelle cicatrici, negli sfregi sui tanti volti… ora non voglio fare il ritratto di un Paese di invalidi di guerra, non e’ cosi’, ma bisogna non voler vedere per non notarlo. Di fronte a questo (e non solo), provo intensa vergogna di appartenere ad una specie capace di infima crudelta’. E la chiudo qui.



Monday, June 11, 2012

Non ci si puo' tenere tutto dentro

E’ una questione spinosa, ma non voglio sottrarmi dal condividerla: sono troppi gli interrogativi a cui ancora non ho trovato risposta, troppi i dubbi e le perplessita’. E se e’ vero che non ci si puo’ tenere tutto dentro, allora l’argomento casca a pennello.


Partiamo dal presupposto che il rappresentante ritratto nell’immagine e’ stato scelto in seguito ad una severa selezione che ha permesso di individuare un soggetto qualificato come lussuoso rispetto alla media. Questo in rispetto degli osservatori. Ci tengo comunque a segnalare che il qui presente non e’ che uno dei tanti esemplari, tutti simili, ma ognuno unico a modo suo. Vediamo in cosa analizzando piu’ attentamente i dettagli.
Riguardo al corpo centrale, ben noto a tutti, non ho nulla da dire, se non che si trova spesso anche la versione a turca.
Sulla destra e’ possibile apprezzare lo sciacquone manuale. Qualcuno mi fara’ notare che l’elemento centrale e’ provvisto di sciacquone incorporato… vero. Ma non funziona. Per cui in questo caso specifico la vaschetta ha valore puramente estetico. In altri casi proprio non c’e’. Lo scodellino verde serve chiaramente per versare l’acqua contenuta nel secchio nello scarico. Sorvolerei sulle diverse variabili da cui dipende il numero di scodellate necessarie ad ottenere un risultato efficace; credo influisca in qualche modo anche l’altezza da cui si versa l’acqua, ma non ho ancora approfondito. Il secchio puo’ essere sostituito da piu’ eleganti vasche in muratura. Ah, in questa foto non compare, ma in genere c’e’ un rubinetto basso con cui e’ possibile ripristinare l’acqua utilizzata.
All’estrema sinistra, ecco la vera causa delle mie elucubrazioni mentali: la carta igienica. Si’, si’, proprio quel coso, quel tubo con un rubinetto in cima, altro non e’ che la carta igienica. Premendo una sorta di interruttore, quell’apparentemente innocuo tubicino eroga acqua con la potenza di un idrante. Cofesso di averlo piu’ volte utilizzato per lavarmi, perche’ quando la pressione dell’acqua e’ cosi’ bassa da farla uscire a gocce dalla doccia e dal lavandino, la carta igienica e’ l’unica che mantiene inspiegabilmente un getto potentissimo. Questo complica notevolmente le cose durante l’utlizzo. Ed e’ qui che mi sorgono i dubbi: cioe’, come… dove… voglio dire: il fatto e’ che comunque si orienti li getto, si finisce per fare un disastro che rende poi umiliate l’uscita dal bagno, con tutti i vestiti fradici e lo sconforto in viso… io ho rinunciato. Ecco, l’ho detto, a costo di passare per quella che va dall’altra parte del mondo per fare esattamente cio’ che faceva a casa, lo dico e lo ribadisco: io uso occidentalissima carta igienica di carta. Proprio oggi ho finalmente trovato delle istruzioni semplici semplici su come utilizzare la carta igienica asiatica. 



Be’, sono falsita’! Sono un documento privo di fondamento scientifico. Primo perche’ la carta di carta bisogna procurarsela. Secondo perche’ e’ impossibile che lo spruzzo orientato in quella maniera vada a colpire le parti anatomiche interessate. E terzo perche’, diamine, qualcuno l’avra’ anche messo in ghingheri e incorniciato, ma rimane pur sempre un castoro.

Saturday, June 9, 2012

Piccolo elogio al popolo lao

Don Det (Laos), 3 giugno 2012

Da quando sono in Laos, in ogni grande città in cui vado, incontro una ragazza con gli occhi verdi. Ogni volta ci riconosciamo, ci salutiamo e facciamo qualche battuta chiedendoci chi delle due stia seguendo l’altra. Nulla di più. L’ultima volta l’ho incontrata a Paksè, poco prima di spostarmi sulle Siphan Don, ovvero le Quattromila Isole. Che siano proprio quattromila è tutto da vedere, comunque si chiamano così; sono un arcipelago di isole e isolette sul Mekong il cui numero e le cui dimensioni variano a seconda del livello del fiume e quindi della stagione. 



Ho trovato una sistemazione a Don Det, un’isola piccina piccina, forse la più sfruttata turisticamente, ma anche la più economica. Non e’ che ci sia molto da fare qui o da vedere, ma non disprezzo l’ozio preso a piccole dosi: ci si ricarica staccando la spina. Ho passato qualche giorno in piena solitudine, in una sorta di ritiro spirituale, godendomi appieno la tranquillità’ dell’isola, i suoi sentierini tra i campi in cui si incontrano solo bufali, la terra sotto i piedi nudi, i temporali pomeridiani. Ho lasciato scivolare le ore sonnecchiando pigramente sull'amaca. Ho ripreso a correre alzandomi all'alba per evitare il caldo della giornata e ho esplorato in bici le isole vicine. Durante una delle mie pedalate, attraversando la parte più popolata dell’isola, chi ho incontrato? Proprio lei: la ragazza con gli occhi verdi. “Di nuovo tu?” “Di nuovo tu!” “Ho un letto in più nel mio bungalow” mi ha detto “se vuoi venire sei la benvenuta!” Suona male, suona molto male, ma in questo contesto e’ la verita’: sono una ragazza facile. “Mmm… ok!” Ho fatto lo zaino e mi sono spostata. La ragazza con gli occhi verdi si chiama Kate, ha la mia eta’ ed e’ russa. Si e’ aggregata da poco ad altri due ragazzi con l’idea di andare in Cambogia assieme. “Se vuoi unirti a noi e’ un piacere!” mi ha detto la prima sera uno di loro. “Mmm… ok!” Lo so, lo so: una ragazzaccia.
E cosi’ ora faccio parte di questa piccola famiglia itinerante improvvisata, composta da Kate (il capo), Martin (il simpatico), Aritz (il bello) e me. 


Kate e’ molto premurosa e dolce con me e non ne capisco esattamente il motivo; la mia misoginia mi impedisce di ricambiare esplicitamente le sue dimostrazioni d’affetto, ma in realta’ mi piace: ha una mente acuta e una lingua tagliente; e’ quella che pianifica, quella piu’ esigente. Martin e’ Californiano ed e’ un erogatore di buon umore; lo adoro, e’ il mio preferito, e’ il preferito di tutti; e’ il cabarettista che racconta della nonna novantacinquenne infatuata di Antonio Banderas, e’ il maestro che ci spiega con pazienza tutto quel che non sappiamo in inglese, e’ l’amico di sempre con cui ci si puo’ appartare e parlare per ore scambiandosi le confidenze piu’ profonde; semplicemente, lo adoro. Aritz e’ di Minorca ed e’ indubbiamente il ragazzo piu’ bello che abbia mai conosciuto, secondo i miei canoni; porta in giro la sua perfezione anatomica con reale disinteresse e scioltezza, quasi ne fosse inconsapevole; quando vuole sa essere volgare come solo gli spagnoli possono; assieme lui e Martin lasciano con le lacrime agli occhi. E poi ci sono io. Io che non sono un animale da branco, chi mi conosce lo sa. Ma in quattro mi sta bene, e’ il numero massimo. E proviamo anche l’esperienza del viaggio di gruppo!
In questa settimana si e’ andata delineando la routine che scandisce il tempo delle nostre giornate: corsa mattutina con Martin e Aritz lungo il sentiero che attraversa i campi. Al ritorno, via i vestiti e tuffo diretto nel Mekong, senza fermarsi. Doccia e colazione sulla terrazza sul fiume, dove troviamo Kate ad aspettarci. Da li’ in poi e’ tutto un oziare sui cuscini della terrazza, un po’ chiacchierando, un po’ ascoltando musica o leggendo, un po’ facendoci dei massaggi (in Asia la cultura del massaggio e’ contagiosa: ora appena vedo una schiena nuda mi viene da affondarci le dita…). Per alleviare il caldo del pomeriggio, ogni tanto Martin, Aritz ed io ci alziamo e ci buttiamo nel Mekong. Credo sia uno dei fiumi piu’ inquinati del mondo, mi pare di aver sentito o letto qualcosa del genere da qualche parte. Nuotiamo contro corrente fino a un punto in cui una canna di bamboo segnala alle barche la presenza di un roccione al centro del fiume. Li’ l’acqua ci arriva al petto, la corrente rende difficile stare fermi in piedi sulla roccia. Quel che adoro fare e’ stare a guardare le nuvole tenendomi con le mani alla canna e lasciando galleggiare il corpo: con le nubi che si muovono e l’acqua che scorre, si ha quasi un senso di disorientamento e vertigine, sembra di precipitare verso un punto gravitazionale non definito. Aritz e Martin in acqua giocano, si picchiano, si fanno i dispetti come i bambini. Sentirli, guardarli e lasciarsi coinvolgere e’ un piacere inestimabile, sono momenti di gioia pura, di quella che stringe lo stomaco e riempie la testa con l’intensa consapevolezza di non voler essere in nessun altro presente. Per questo l’inquinamento del Mekong e’ l’ultimo dei miei pensieri.
Intanto si avvicina la data di scadenza del mio visto: tra due giorni varra’ quanto un cartoccio di latte rancido e dovro’ lasciare il Laos. Questo mi rattrista, sinceramente. Non tanto per il fatto di dover ricominciare da zero con la lingua, con la moneta o con l’idea generale di un Paese; ma perche’ in Laos ho trovato un’accoglienza e un’ospitalita’ che mi hanno commossa. Un popolo bello, ma cosi’ bello che andrebbe messo dietro ad una cattedra del mondo e noi tutti dall’altra parte ad imparare. Poi dipende dall’esperienza di ognuno: una volta, in un pullmino, mi sono seduta accanto ad una signora che a meta’ tragitto ha iniziato tirar fuori ogni sorta di frutta e a dividerla equamente ta me e i figli; li’ ho pensato che l’ospitalita’ non e’ altro che questo: culo. Perche’ se mi fossi seduta due sedili piu’ avanti, non mi sarei trovata in quella situazione e non avrei pensato “ma che signora generosa, che gente meravigliosa!”. Quindi si’, e’ questione di culo. Pero’ c’e’ da dire questo: o sono molto, molto fortunata io o il Laos e’ pieno di sedili giusti e di persone giuste a cui sedersi accanto. Credo la seconda.

Friday, June 1, 2012

'a livella



Pakse’ (Laos), 22 maggio 2012

Sono le sette di sera ed e’ gia’ buio. La strada e’ un rettilineo debolmente illuminato da lampioni distanti tra loro. Siamo ormai vicini alla citta’, non che si possa parlare di traffico, ma ci sono altri veicoli che circolano. Ha iniziato a piovigginare, fa freddo, ma non e’ cosi’ fastidioso da doversi fermare a cinque minuti da casa. O forse dieci: di solito anche Patrick guida a ritmo di Riders on the Storm, ma con la strada che inizia a bagnarsi ha rallentato ulteriormente. Patrick e’ un ragazzone grande e grosso, e’ molto piu’ alto di me, molto piu’ largo. Quando guida lui, mi copre completamente la visuale, per cui nel momento in cui molla l’acceleratore non ho idea di quale sia il motivo che l’ha spinto a farlo. E neanche me lo chiedo, sono altrove con il pensiero. Quando inizia a frenare, la mia attenzione si focalizza sulla sua guida, ma senza preoccupazioni: vorra’ far passare qualcuno che vuole immettersi. E’ solo quando realizzo che sta avanzando a passo d’uomo che mi viene il sospetto ci sia qualcosa davanti a noi. Cerco di sbirciare oltre la sua spalla destra, ma intravvedo solo forme indistinte. E’ questione di pochissimi secondi: Patrick avanza lentissimo tagliando in diagonale la strada, si sposta sulla corsia di sinistra per aggirare l’ostacolo e gradualmente mi diventa visibile quel che prima era nascosto dal suo corpo. Vedo un motorino a bordo strada, rovesciato a terra. Un incidente. Una frazione di secondo dopo vedo le gambe… oddio… dopo al vuoto, una mitragliata di pensieri simultanei: una persona a terra, nessuno accanto, far togliere Patrick da in mezzo alla strada, devo vedere… “Accosta, accosta li’!!” “Non possiamo fare niente!!” vedo il ventre… maglietta azzurra, niente sangue, le altre macchine, possono chiamare l’ambulanza… vedo il torace… maschio, non si muove, devo scendere, ma le altre macchine, bisogna fermarle, far mettere Patrick in mezzo alla strada “No, torna indietro e accendi le frecce!” “E’ morto, Nicole! E’ morto di sicuro!!”… solo a quel punto mi e’ visibile la testa. E’ completamente aperta, il cervello e’ sull’asfalto a brandelli… No, non devo scendere. Ha ragione, non serve a niente. Non serve proprio a niente. C’e’ solo il gelo mentre gli passiamo di fianco.
Patrick rientra nella corsia di destra e accosta. Davanti a noi c’e’ un camion fermo, le quattro frecce lampeggiano nel buio. Rimaniamo fermi dietro al camion, con il motore acceso e lo scooter in direzione di marcia, ma entrambi girati a guardare l’uomo. Ci interroghiamo sul da farsi, ma niente. Non possiamo fare niente. Ci sono alte persone, noi siamo gli ultimi a sapere cosa fare, chi chiamare. Potremmo andarcene, ma non riusciamo a muoverci, quasi significasse mancare di rispetto, quasi fosse disumano girare le spalle a quella scena e andar via come se niente fosse. C’e’ un uomo a terra al cento della corsia e le macchine e i motorini rallentano, lo aggirano e proseguono. Ha le braccia buttate a casaccio e la testa non e’ che un’anguria rotta. Un’anguria rotta con attaccato un corpo umano, illuminato dai fari di tutti i veicoli che lentamente gli sfilano accanto.
Due uomini sono in piedi poco distanti dal corpo. Un terzo sta mettendo dei rami sulla strada per segnalare l’incidente. Con una lentezza estenuante (ma a cosa servirebbe correre ormai?), qualcuno se ne sta occupando, avranno gia’ chiamato chi di dovere. Non saprei davvero cosa fare. Dovremmo andare. Si’, dovremmo andare. E non ci muoviamo. Non so per quanti minuti rimaniamo in silenzio sotto la pioggia. E nulla cambia di fronte ai nostri occhi: tre uomini in piedi, un ramo posato a pochi metri e la straziante processione dei fari che illuminano un corpo senza vita. “Dovremmo andare prima che vengano a chiederci qualcosa, a fare domande.” “Non possiamo fare niente, non avremmo niente da dire…” “Non lo so, la gente in Asia e’ strana, guidano senza un senso, vogliono sempre soldi, cercano sempre di fare soldi, anche nel sud della Thailandia…” domande, sud della Thailandia, soldi… e’ morto, Patrick, cosa c’entrano i soldi? E’ morto! Ma non gli dico niente, non e’ lui a parlare. “Vuoi che guidi io?” “No, ce la faccio, andiamo”. Grazie. Perche’ in realta’ e’ l’ultima cosa che voglio fare.
Non c’era indifferenza sulle facce delle persone che passavano, che non si pensi una cosa simile. Sarebbe stato del tutto inutile che ognuno si fermasse a bloccare la strada, mentre un numero sufficiente di persone se ne stava gia’ occupando. Nascondere o meno la morte alla vista e’ un fatto culturale, nulla di piu’, non e’ questione di cattiva volonta’ o cattiva gestione.
Non lo so quante persone ho visto morire, credo che nessuno dei miei colleghi tenga il conto. Non voglio parlare di abitudine o indifferenza o scudi, non me ne frega niente di generalizzare… ci sono situazioni e situazioni, cui seguono reazioni e reazioni. E in questa situazione, io sono caduta dal pero. Di faccia. Perche’ quel che ho visto non era piu’ un uomo, ma un animale morto sulla strada. Era sullo stesso identico piano del gatto investito, del rospo sull’asfalto con le interiora di fuori a cui si passa di fianco con dispiacere, ma senza fermarsi. Uguale. Siamo la stessa cosa. L’ho sempre saputo, ma l’ho visto solo ora e forse ancora devo accettarlo. Alla fine di tutto (LA fine di tutto), ai miei occhi la differenza tra un animale e un uomo la fa un lenzuolo bianco. Possibile che sia’ questo la dignita’?