Monday, March 31, 2014

Bebé, nani a beti yo?



Melbourne, 10 Febbraio 2014

Da poco piú di un mese é entrata a far parte di questa casa  e del mondo la figlia nuova di zecca dei miei coinquilini. E io sono stata eletta addormentatrice ufficiale.

Quando la sua mamma è occupata e la piccina richiede attenzioni, me la prendo in braccio e la coccolo. Con la testa sul mio petto, tra cuore, respiro, calore e vibrazioni della voce, mentre passeggio avanti e indietro, la piccola cino-peruviana si addormenta sulle note delle ninnananne congolesi che mi cantava mia madre. Poi la sera mi metto la divisa e vado a lavoro in ospedale. E penso: che ridere se si facesse lo stesso con gli adulti, se fosse una professione... se si usassero le coccole di un altro essere umano per triggerare la produzione di tutte quelle sostanze magiche che ci allentano dentro.



L’agenzia mi chiamerebbe: “Pronto, Nicole? Ho un turno da coprire questa notte: San Vincenzo, reparto 2 Est dalle 21.00” “Vado!”
Poi in reparto: “Buonasera, sono Nicole, dall’agenzia TalDeiTali” “Oh, meno male! Dunque, ti dico subito che sará una nottata piena: c’è da addormentare il signore del letto 17, che soffre di insonnia, poi la signora del letto 4 che questa sera è un po’ tesa; magari comincia da lei, che domattina deve alzarsi presto per un esame...”
Andrei dalla signora: “Buonasera! Come si sente? Preoccupata per l’esame di domani? Adesso la aiuto io a riposarsi... se mi fa un po’ di posto nel letto... ecco brava, meglio su questo lato, cosí mi sente meglio il cuore... poggi pure la testa qui, non mi pesa... come va? Giá meglio, vero?”
Poi sguscerei via da sotto le lenzuola e andrei dal signore del letto 17: “Buonasera! Scusi se l’ho fatta aspettare ma ero impegnata con un’altra paziente. Allora, proprio non ne vuole sapere Morfeo? Non si preoccupi: so una ninnananna congolese che fa miracoli! Mi faccia posto...”


Bebè, nani a beti yo?
Loba na nga, na nako zongisa!
Yo moko o tutani na zolo a Tin Tin?


Friday, March 28, 2014

La fase psycho


Melbourne (Australia), 8 febbraio 2014

Se i turni di giorno sono tendenzialmente tranquilli, quelli di notte sono spesso un mortorio. Su un turno di dieci ore, il tempo che dedico all'assistenza puó essere concentrato in circa due ore, mezzora se ne va con la pausa, il resto del tempo lo passo seduta da sola in silenzio in una stanza buia con un unico compito: vegliare su un paziente che dorme.
Dato che l’unica cosa che mi si chiede di fare é rimanere sveglia, io impegno anima e corpo per lottare contro al sonno.
Mi sono comprata una lucina di quelle da pinzare al libro. Inizialmente leggo. Quando la lettura non è piú sufficiente a tenermi sveglia, scrivo. Quando anche la scrittura diventa uno stimolo troppo blando, passo alla fase psycho: i calcoli in colonna. 


Calcolo qualunque cosa. Spazio da questioni pratiche tipo quanto sarebbe in media il mio guadagno mensile se lavorassi un minimo di uno e un massimo di sei giorni a settimana, meno le trattenute, meno la media delle spese di trasporto, piú... a questioni di carattere piú filosofico e di intrattenimento generale, come i chilometri di filo interdentale che consumo approssimativamente in un anno.
La cosa sorprendente non è tanto che faccia le divisioni esattamente come alle elementari (cappellino sull’otto, ci sta due volte –e lo scriviamo sotto al tettuccio- col riporto di due, cappellino al contrario sul sei, lo facciamo scendere di un piano...), ma che ogni volta riesca sinceramente a convincermi di star calcolando qualcosa di utile. 

L’illusione svanisce e subito rinsavisco quando qualcuna delle infermiere entra in stanza; allora chiudo il quaderno di scatto fingendo disinvoltura come un adolescente beccato dalla prof a guardare un fumetto porno dietro al libro di storia. Perchè di una cosa sono sicura: se qualcuno trova il mio quaderno perdo il lavoro, sembra il maledetto taccuino di un serial killer!
Giá mi immagino cosa succederebbe: “Nicole, hai mica visto...?” “Sí??” “Perchè hai chiuso il quaderno di scatto? Stai nascondendo qualcosa?” “Chi? Io? No!” “Cosa c’è lí dentro?” “Oh! Intendi qui? Nulla! Solo... solo... un fumetto porno...” “Per un attimo avrei giurato che si trattasse di calcoli in colonna! Per questa volta voglio crederti, ma ti tengo d’occhio ragazza: non vogliamo serial killer qui dentro, chiaro?”

Forse  è il caso che inizi a bere caffè.

Thursday, March 27, 2014

The Picture of Queen Elisabeth II





Melbourne, 1 Febbraio 2014

Una cosa che mi fa ridere tanto qui è il fatto che si capisca in che anni è stata coniata una moneta in base a quanto è vecchia la regina ritratta sopra. Mi fa ridere, che ci posso fare? Fa tanto Dorian Gray.

Tuesday, March 25, 2014

La gavetta nel quotidiano

Melbourne, 22 Gennaio 2014

Con questo lavoro, in teoria io sono libera di comunicare la mia disponibilitá sui tre turni all’agenzia settimanalmente. Loro dovrebbero settimanalmente contattarmi per propormi dei turni compatibili con le mie disponibilitá e io potrei accettarli o rifiutarli a seconda di ció che piú mi aggrada, perché essere uno special con contratto casual vuol dire essere liberi. In teoria. In pratica gli ospedali fan richiesta all’ultimo per cui l’agenzia mi contatta all’ultimissimo (e quando dico ultimissimo, intendo davvero ultimissimo) e io non c’ho na lira, quindi mi guardo bene dal rifiutare qualsivoglia turno, dato che non so mai quando sará la prossima volta che mi chiameranno.

Nella pratica, la mia vita da PCA, la mia gavetta da infermiera, funziona cosí...




Sto dormendo profondamente. All’improvviso un casino indefinito, extrasistole da “cosa sta succedendo??” poi capisco: é il telefono. Nella confusione mentale del sonno interrotto allungo una mano chiedendomi perché mai il mio cellulare stia suonando per avvisarmi che la batteria é carica al 100% e solo dopo qualche secondo mi rendo conto che si tratta invece di una chiamata. 
“Proonntooo?” “ProntoNicolechiamodallagenziaTalDeiTali” sono rallentata io o é accelerata lei? capisco solo agenzia. Non per altro, ma perché nella costruzione inglese la parola agenzia occupa l’ultimo posto nella frase. Fortunatamente é la parola chiave e capisco di cosa si tratta. “Sí, mi dica!” “Nicole, potresti lavorare oggi per uno special dalle 7 alle 19 al San Vincenzo, reparto 10 Ovest?” “Si, certo!” “7-19 al S.Vincenzo, 10 Ovest” “Certo, certo, va benissimo!” “Grazie Nicole, buona giornata” “Buona giornata!” riaggancio. Bene! Dalle 7 alle 19, reparto... merda! Li richiamo. “Pronto, scusi, sono Nicole... qual era il reparto?” riaggancio. Dunque, 7-19 reparto 10 Ovest del... merda!! Li richiamo. “Pronto... ancora Nicole... e qual era l’ospedale??” Non ce la faccio a memorizzare!! Non ce la posso fare! Andiamo, oggettivamente, sono pretenziosi loro a pensare che la mia mente, naturalmente settata sull’italiano nel sonno, possa capire e registrare ben tre dati a due secondi da un risveglio brusco... é inumano!

Mi siedo sul letto e guardo l’ora: 6.03. Onnnoo!! Correre! Mi butto addosso dell’acqua e una divisa, maledico la me di ieri che pensando “figurati se mi chiamano domattina!” ha deciso di non stirare la camicia, maledico ogni bottone della camicia e le mie fisiologiche difficoltá di coordinazione delle 6 del mattino.

E intanto devo pensare, cercare di concentrarmi e valutare quale sia la scelta migliore: bici o treno? Bici o treno? L’ospedale dista quasi 8km da casa mia, ci metto circa 40 minuti in bici; la mia bicicletta pesa quanto un Ciao e, poichè qui non ci si cambia a lavoro, se mi impegno rischio di arrivare con la divisa fradicia di sudore; se non mi impegno o se mi cambio in ospedale rischio di arrivare in ritardo; in ogni caso rischio di non arrivare affatto, dato che non ho tempo per fare colazione e l’unica energia a cui posso attingere mi é data dall’ansia di arrivare in ritardo. Bici o treno? Bici! Mi si chiederá perché non il treno... non dimentichiamo che con questo tipo di contratto non ho la certezza di quante ore lavoreró in un mese, non sono che un’immigrata che lavora a giornata come i braccianti del Mississippi, non posso certo permettermi il lusso di pagare il biglietto del treno tutti i giorni!


Cosí salto in sella al mio destriero e arrivo trafelata in reparto, dove mi attendono dodici ore quasi ininterrotte di camminata circolare inseguendo un vecchino con demenza armato di deambulatore che mi insulta in macedone e cerca di picchiarmi e mordermi ogni volta che lo trascino fuori dalle stanze degli altri degenti. Dodici ore. Neanche per raggiungere il campo base dell’Everest ho mai camminato tanto in un solo giorno.

E questa è la mia gavetta oltreoceanica nella quotidianitá. Urca! Tenete a freno l’ividia! Metto un po' di foto di bei posti a caso, per compensare (non proprio a caso: e' tutto qui in Victoria!)


La levataccia alle 6 con chiamata a sorpresa questa settiamana è stata la norma e rispetto alla capacitá di memorizzare la conversazione non accenno miglioramenti (ma mi è stato consigliato di tenere carta e penna sul comodino, buona idea...).

I turni non sono sempre cosí, a dire il vero quello è stato il peggiore. Il piú delle volte il grosso delle mie energie lo spendo cercando di capire il senso del mio esser lí. Ad esempio, quando la consegna é “Ragazzo autistico ricoverato per difficoltá di gestione a domicilio, puó essere aggressivo e violento... non entrare nella stanza” ma come?? “prenditi una sedia e mettiti qui in corridoio davanti alla porta” che, ci tengo a precisare, era chiusa. Non ho passato proprio tutto il turno in corridoio, ma buona parte.
Insomma, non si tratta di un lavoro difficile o stancante, alle volte non richiede piú impegno del semplice fatto di esserci. La difficoltá sta nell’abituarsi al fatto che non si sa quando e se si verrá chiamati e nel trovarsi ogni volta in un ambiente nuovo con persone nuove.

Un’altra difficoltá spesso é la consegna: sulla terminologia scientifica e sul vocabolario intraospedaliero il mio inglese ha ancora delle lacune non indifferenti, per cui mi é capitato piú volte di ritrovarmi in situazioni del tipo “La signora é fortemente confusa e allucinata, ha lamentato mal di testa e nausea nell’ultima mezzora, ora sta dormendo. Si mobilizza da sola, ah, occhio: è ad altissimo rischio di aztrugatnat. Ha una dieta per diabetici...” ops, forse non ho solo capito “Alto rischio di cosa?” “Altissimo rischio di aztrugatnat. Che si mobilizza da sola te l’ho detto, poi, ha una dieta per diabetici, mangia da sola...” cosa avrá voluto dire?? E’ divertente poi vedere le ipotesi che formula il mio cervello: altissimo rischio di cosa? Cosa potrá mai fare la signora a cui devo stare attenta? Sputa? Si nasconde? Si infila le biglie nel naso? Levatele le biglie e non venite a stressare me, diamine!

Il primo turno non si scorda mai

Melbourne, 11 Gennaio 2014

Specifico per i sani di mente che si sono saltati il post precedente: appena arriavata a Melbourne ho firmato un contratto di tipo casual con un’agenzia per lavorare negli ospedali come Personal Care Assistant, ovvero grossomodo come oss. Purtroppo peró i giorni passano e di lavoro nemmeno l’ombra.

Il 10 dicembre, alle 22.00, sono ancora nel pieno delle mie lamentele crepuscolari via sms con amici in Italia, quando il flusso di messaggi viene improvvisamente interrotto da una telefonata “Nicole, chiamo dall’agenzia: un’emergenza!” cosa? “un paziente che vuole scendere dal letto” dove? “Pronto Soccorso dell’ospedale TalDeiTali” quando? “Adesso, il prima possibile, è un’emergenza! Puoi?” Il mio primo turno. La mia prima cifra con un piú davanti sullo storico dei movimenti del mio conto in banca. Il momento che aspettavo da una vita... “Posso!”

Un’ora dopo sono in ospedale.




Dal triage mi fanno subito entrare e vengo affidata alla Nurse in Charge del pronto (la capoturno), che a sua volta mi affida all’infermiera responsabile del mio paziente, che a sua volta mi affida il mio paziente facendomi il quadro della situazione: alcoolista, ripetuti passaggi in pronto soccorso, agitato e aggressivo, vuole lasciare l’ospedale contro parere medico, “se diventa violento chiama la sicurezza e se hai bisogno di qualunque cosa chiama me” mi dice, e mi rifila un dect. Il paziente è davanti a me. E dorme. Dormirá per le successive quattro ore consecutive, durante le quali io staró seduta su una sedia a guardarmi attorno, inizialmente sperando che “il mostro” non si svegli, poi considerando l’idea di svegliarlo a pizzicotti pur di far succedere qualcosa, qualunque cosa che mi salvi dalla tenaglia della noia.

Tralasciando il frutto dei miei deliri notturni circa la discutibilitá etica e morale del pizzicotto, come descrivere questo pronto soccorso?
Open space, bancone centrale, unitá ampie delimitate da tendoni spessi che partono dal soffitto e arrivano a 30 centimetri da terra dando l’idea di vere e proprie stanze. Nessuno urla, nessuno chiama, nessuno si lamenta, se qualcuno puzza non lo da a sentire... c’è qualcosa di sospetto. Le infermiere si muovono sculettando con calma tra le unitá e il bancone, nessuna corre, nessuna schiamazza, nessuna indossa una divisa che io reputi tale. Parliamone. Al momento dell’acquisto della divisa (che la mia agenzia non fornisce) non sono riuscita a trovare un negozio di abbigliamento professionale. Con un po’ di perplessitá sono andata al supermercato, nel reparto premaman ho trovato un paio di pantaloni a mio giudizio idonei e li ho abbinati ad una polo bianca. Tutto largo, discreto e comodo, il nostro classico pigiama da lavoro per intenderci.
Le infermiere e dottoresse che mi trovo davanti invece indossano ballerine nere, pantalone alla pescatora aderente nero o blu (variante leggins per una evidentemente piú sportiva e pantalone lungo per una che probabilmente non aveva avuto tempo di depilarsi), camicetta chiara sciancrata con manica corta o a ¾ oppure maglietta di cotone morbido sempre tendenzialemente aderente. Gli uomini hanno scarpe nere, pantalone classico nero, camicia o polo bianca... dei camerieri col fonendo al collo. Mi sento inadeguata come quella volta che sono andata ad una serata di tango in tuta da ginnastica.
Oltre all’atmosfera generale, noto subito due indicatori inequivocabili di basso carico di lavoro: abiti senza tasche e badge appeso al collo che penzola libero sul petto. Ma voglio una conferma esplicita, per cui chiedo all’infermiera quanti pazienti segue: “Quattro”. Quattro? Quattro??? 
Fammi capire, su un rapporto uno a quattro con pazienti autosufficienti, uno che vuole scendere dal letto è considerato un’emergenza tale da giustificare la mia presenza qui?? Penso a tutto il personale del nostro pronto soccorso con un misto di compassione e profonda stima.

Alle tre il mio paziente si sveglia e contrariamente ad ogni aspettativa si dimostra estremamente collaborativo, addirittura piacevole. Chiacchieriamo, lo accompagno in bagno, richiacchieriamo...

ad un certo punto, con nonchalance, si toglie il camice bianco e inizia a vestirsi. “Stai andando da qualche parte?” gli chiedo “Voglio fumare una sigaretta” mi spiega tranquillo. In quel momento passa l’infermiera, mi guarda, le sorrido e le dico “vuole fumarsi una sigarett...” “CHIAMO LA SICUREZZA!” prende il dect che ha appeso ai pantaloni come una pistola nella fondina e in un secondo chiama la sicurezza, la chiama davvero. Rimango pietrificata. La sicurezza?? Dalla conversazione capisco che la sicurezza si occupa tra le altre cose di accompagnare i pazienti a fumare fuori, ma data l’ora nel caso specifico non è ritenuto idoneo; chiedono comunque se sia necessario un intervento, l’infermiera dice che prova a gestirla da sola, riaggancia, dice al paziente “Sono quasi le quattro! Ora della vitamina B!” cannula, siringa, midazolam... stud! Steso. Ok, ora sono DAVVERO pietrificata, lo dicevo che c’era qualcosa di sospetto!
Altre quattro ore a guardarmi attorno e alle 7.30 finisco il mio primo turno.


Quando mi chiamano dall’agenzia per il secondo turno, mi danno l’orario, il nome dell’ospedale e quello del reparto. Considerando che il nome del reparto in genere è qualcosa del tipo 6 West, che piú che un nome sembrano coordinate gps, quando esco di casa per andare a lavoro è un po’ un salto nel vuoto. Mi affido a google map per trovare l’ospedale e ad uno strumento ancora piú potente e affidabile per capire di che reparto si tratti, le tavole sacre del nostro millennio... 6 West, ala ovest sesto piano: la targhetta dell’ascensore dice “chirurgia”, le tavole hanno parlato ancora.

Questa volta la mia paziente è una signora a cui è stata attivata l’osservazione continua di livello 3 per rischio di autolesionismo: il mio compito è quello di stare seduta su una sedia a due metri dal letto della paziente con gli occhi puntati su di lei e riportare su una scheda di osservazione quel che sta facendo ogni quindici minuti. Per dieci ore. Di notte. “DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. BEVE UN BICCHIERE D’ACQUA. RIPOSA A LETTO. DORME. DORME. DORME. DORME...”

Il terzo turno é un’altra notte, questa volta per un signore confuso. La consegna che mi viene passata é questa: “E’ un signore autosufficiente, collaborante, tranquillo ma confuso, se si sveglia devi solo reindirizzarlo”. Cosí mi limito a rimettergli l’ossigeno quando si spostano gli occhialini e a “reindirizzarlo” le rare volte in cui si sveglia: ti ricordi dove sei? Sai che ore sono? Hai sonno? Perchè non dormi ancora un po’? Lui si ricorda, ringrazia, si scusa, si riaddormenta.

E lo so che sembra impossibile, ma giuro che mi pagano. Mi pagano per questo. E non poco. Che dire? Indubbiamente questo è un Paese che ha le risorse economiche per poter risolvere la spinosa questione della contenzione, prevenire il rischio di caduta, di rimozione dei presidi, di autolesionismo... e soprattutto per curare il lato estetico della professione.

A tal proposito, mi sono adeguata al codice di abbigliamento ospedaliero locale: quelle nelle foto sono la mia vecchia e nuova divisa. Come il prima e il dopo degli interventi di chiururgia estetica, ma senza photoshop, giuro: sono ballerine vere.
Mannaggia, le ballerine... ridicolo!