Sunday, September 30, 2012

Sulla via del ritorno



Verso Kathmandu (Nepal), 18 settembre 2012

Hanno costruito una strada che unisce questi paesini correndo lungo in fianco della montagna. Poi il fianco della montagna qua e la’ ha ceduto portandosi a valle pezzi di terreno. E pezzi di strada. Funziona cosi’: si prende un autobus con cui si avanza per qualche chilometro di curve, con il precipizio su un lato. Quando la strada si interrompe, si scende, si attraversa a piedi il pezzo franato e si raggiunge il secondo autobus per proseguire. Questo si ripete per tre, quattro volte, a seconda di quale sia la partenza e quale la destinazione. Ci sono tratti in cui il percorso in autobus dura dieci minuti e quello a piedi mezzora, perche’ nessun mezzo di trasporto e’ rimasto intrappolato tra le due frane. Gli autobus sono sovraffollatti e bisogna cercare di arrivarci per primi per assicurarsi un posto a sedere, che e’ comunque scomodo –non c’e’ spazio per le gambe e il sedile generalemente e’ bagnato perche’ i finestrini, se ci sono, non si chiudono bene– ma e’ sempre meglio che star sul tetto quando piove. E’ periodo di monsoni, quindi c’e’ poco da fare: piove. E’ un po’ una seccatura, ma cosi’ stanno le cose.


Arriviamo ad attraversare uno dei punti franati. Solo che questo, a differenza degli altri, non “e’ franato”, non “rischia di franare”, ma STA franando. Ora. E noi dobbiamo attraversare. Si tratta prevalentemente di una parete rocciosa e pietraia, quindi non c’e’ una lingua di fango che scivola via da sotto i piedi, ma dall’alto si staccano a intervalli irregolari pezzi di roccia che rotolano giu’ rimbalzando disordinatamente e rompendosi in pietre piu’ piccole strada facendo. La frana e’ divisa in due parti: la prima pare ora piu’ sicura, non sembra venir giu’ nulla; al centro c’e’ un roccione bello compatto e stabile; la seconda parte e’ quella da cui stan piovendo pietre.
I ragazzi sono rimasti indietro; c’e’ una piccola folla che diminuisce man mano che le persone, percependo il proprio “momento buono”, si decidono ad attraversare. Aspetto un pochino poi, piu’ per fatalismo che per altro, decido di crearmi il mio “momento buono” e andare, prima che la situazione peggiori. “Rajesh, io vado…” “Ok, quando te la senti. Io aspetto gli altri” Me la sento. Attraverso la prima parte e raggiungo il roccione centrale. Ci sono altre persone. Il roccione e’ alto e concavo su questo lato e a meno che non si muova pure lui –cosa davvero poco probabile– offre un riparo sicuro; copre pero’ la visuale su cio’ che sta succcedendo a monte, quindi da qua sotto si vedono le pietre rotolare a valle solo nel momento in cui ci passano davanti. Chi ha gia’ attraversato si e’fermato sul ciglio della frana, da dove e’ possibile vedere a monte e da indicazioni a chi, come me, e’ fermo a riparo del roccione. Urlano sia in nepalese che in inglese. “No… aspetta… aspetta…” e le pietre ci cadono davanti agli occhi “…aspetta…” poi piu’ nulla “VAI!!! Corri! Corri!!” uno o due alla volta ci lanciamo di corsa verso il punto sicuro, guidati dalle loro voci concitate. Quando tocca a me, siamo rimaste solo una ragazza che avra’ la mia eta’ ed io. Aspettiamo il segnale. “No… no… no…” pietre “…no..” una pausa “…aspetta…” altre pietre “…no…” altra pausa “ORA!!” la ragazza scatta e io dietro di lei “corri! corri!” corriamo il piu’ in fretta possibile con gli occhi fissi a terra sul sentiero, senza guardare giu’ verso il precipizio, senza guardare su’dove una folla di gente sta guardando per noi. E il peggio e’ arrivare a meta’ e sentire da una parte loro che battono le mani “Veloce! Veloce!!!” e dall’altra l’irregolare “toc toc-toc” delle pietre che rimbalzano. Ma sono pochi metri. Arriviamo. Arriveranno tutti, non succedera’ niente. Ma una volta raggiunta la strada mi sento il corpo in fiamme e ho come la sensazione di voler piangere o ridere o urlare, di buttare fuori qualcosa, e solo li’ mi rendo conto della tensione che avevo addosso. Guardo il gruppo di uomini che sta ancora urlando a chi deve attraversare… e’ un gruppo allegro. Ridono. Battono le mani per incitare, “Vai!”, “Aspetta!”, fanno battute, indicano un punto in alto, seguono la caduta delle pietre esultando… e se la ridono. C’e’ mica tanto da ridere!! 

Anche la corsa dell’ultimo pullman, quello che ci porta a Kathmandu, viene bloccata da una frana appena caduta (questa fangosa); ci fermiamo per un’oretta ad aspettare che ripuliscano la strada. Arrivata in capitale racconto l’episodio a un ragazzo nepalese e lui commenta tutto serio dicendo “Strano. In genere non succede.” “Stai scherzando?? Non succede che frani?” “No, non succede che puliscano in un’ora! Ci sono frane che son li’ da anni!”
Nepal, Nepal… it’s wild!

Saturday, September 29, 2012

Un passo alla volta



Himalaya (Nepal), 7 – 18 settembre 2012

Capita, con il raffreddore, che si risolva tutto in una manciata di giorni. Dato il rapido superamento dei “problemi di salute”, abbiamo iniziato tutti assieme appassionatamente il secondo trekking, seppur con un piccolo compromesso: non affronteremo il passo piu’ alto, ma arrivati a destinazione torneremo indietro lungo lo stesso cammino da cui siamo saliti. E va be’, meglio di niente, dico io.
La destinazione e’ il Gosaikunda, da cui prende il nome il percorso. Noto in inglese come Frozen Lake (sebbene in questa stagione di ghiacciato ci sia solo il nome), il Gosaikunda e’ un lago situato a 4380 metri e meta una volta all’anno di un pellegrinaggio religioso. 
In questi giorni e’ successo qualcosa. Nella mia testa. Qualcosa e’ cambiato: la mia mente si e’ sdraiata piu’ comodamente su una nuova concezione di trekking e ora ho la sensazione di poter camminare per sempre. So che il primo trekking e’ durato sei giorni e che questo ne durera’ altrettanti, ma non saprei dire quanti giorni ci siamo lasciati alle spalle e quanti dobbiamo ancora affrontarne. 
 Ho smesso di guadare la cartina, ho smesso di chiedere come sara’ il percorso… anche perche’ bisogna capire ed accettare per quel che e’ il concetto di “nepali flat”, il “piatto nepalese”: se un nepalese ti dice che il sentiero e’ in piano, significa che e’ un saliscendi, perche’ se ci sono meno di quei trecento metri di dislivello, allora non conta. Qui la gente ha una mente algebrica e se la strada sale di duecento metri e poi scende di altri duecento, allora, grossomodo, e’ in piano. Cosi’, non chiedo piu’. Non mi chiedo piu’. Cammino, fino a quando non e’ ora di fermarmi. Il mio unico metro di misura della distanza, del tempo, dell’altitudine, e’ diventato il passo.


Piove. Da giorni. Piove e c’e’ nebbia. Peccato, proprio ora che il paesaggio prometteva di dare il meglio di se’. Ma se devo dire la verita’ mi piace anche cosi’, con questo bianco che avvolge ogni cosa. In rari momenti alcune sagome riescono ad aprirsi un varco ed emergono dal nulla. Per il resto del tempo e’ tutto bianco. Con la mente cosi’ priva di stimoli, di distrazioni, passo dopo passo immagino di tracciare il mio percorso disegnando un dettagliatissimo mandala su questa pagina bianca, mentre taglio la salita zigzagando per patirla meno. Passetto dopo passetto. Metri e minuti. Anche quando sono stanca, non sono cosi’ stanca da non poter fare un altro passo. Uno solo. Poi un altro. Poi un altro. Passetto dopo passetto, potrei continuare per sempre.


La gente che passa, ci guarda e prosegue veloce...

…magari saluta, ma sempre prosegue veloce.



Himalaya (Nepal), 6 – 18 settembre 2012

Tamang Heritage Trail. Si chiama cosi’ questo primo trekking, prendendo il nome dall’etnia che abita questa parte di Himalaya. Sei giorni. Sei divesi villaggi incastonati sulle montagne ci ospiteranno ogni sera. Ci verra’ preparata la cena e porto un secchio di acqua calda con cui lavare via la fatica del giorno passato. Ci verra’ preparata la colazione e porta dell’acqua fresca per dissetare la fatica del giorno nuovo.


La nostra guida si chiama Rajesh e sembra piu’ tedesco che nepalese; ha la mia eta’ e da sette anni fa questo lavoro: cammina. Sotto il sole, sotto i monsoni, sotto la neve, sotto gli zaini pesanti, lui cammina. Una delle prime cose che ho fatto e’ stata controllargli il polso per curiosita’ e, di fronte ad un’invidiabile bradicardia, gli ho detto che avrei dato l’anima in cambio del suo cuore. La prima cosa che mi ha risposto e’ che vuole sposare un’europea.
Rajesh si ferma ogni pochi minuti di marcia e controlla se c’e’ campo per connettersi a facebook con il cellulare. Se c’e’, la pausa dura un po’ di piu’. Se non c’e’, dura un po’ di meno. In ogni caso, la camminata riprende con un nuovo sottofondo musicale: si passa da canzoni nepalesi (la mia preferita e’ Rassapiririn) a canzoni israeliane che inspiegabilmente ha sul telefono e con cui sorprende e intrattiene i ragazzi. 
I ragazzi si fermano ogni pochi minuti e posano gli zaini. Se la pausa dura un po’ di piu’, si lamentano poco. Se dura un po’ di meno, si lamentano tanto. In ogni caso, la camminata riprende sempre con lo stesso sottofondo: “Ripartiamo gia’? Ma quanto siamo saliti? Solo?? E quanto manca? E adesso? E ora quanto manca? Un mio amico mi ha detto che dal secondo villaggio c’e’ una scorciatoia…” ma come una scorciatoia?? Ti pare che siamo venuti a camminare in montagna per prendere scorciatoie?
Ho smesso di camminare con loro perche’ patisco il dover ripartire piu’ di quanto mi dia sollievo il fermarmi. Preferisco trovare il mio ritmo e mantenerlo, con calma, passetto dopo passetto. Ai rari bivi mi fermo e aspetto che mi raggiungano per avere indicazioni da Rajesh e ascolare un po’ di Rassapiririn, che mi mette sempre di buon uomore. Mi piace camminare da sola, in silenzio si vedono piu’ animali, si pensa meglio… a nulla che sia minimamente costruttivo, ma va be’.

Questo primo trekking e’ carino. Paesaggisticamente non eccezionale ai miei occhi, abituati alle “montagne di casa”, come le chiamo io. L’aspetto piu’ interessante e’ che si attraversano diversi villaggi, si assaggiano pezzetti di una quotidianita’ fatta di case di legno e pietra, di artigianato, di provviste a seccare per la stagione fredda: carne di yak stesa al sole, funghi sulle stufa, peperoncini sui tetti; 
e si assiste -e si partecipa- ad una sfilata di strani personaggi: alcuni ti vengono in contro, salutano e proseguono alle tue spalle, ma la maggior parte ti arriva alle spalle, saluta e ti supera sparendo quasi di corsa dietro la prima curva, lasciandoti a bocca aperta in un misto di ammirazione e sconforto… e tutti, tutti, trasportano qualcosa, poggiato sulla schina e tenuto su’ da una fascia che passa sulla fronte. 
Sono stata superata da gruppi di bambini con le cartelle e l’uniforme, diretti alla scuola del villaggio vicino, con le spalline delle cartelle non sulle spalle, ma una sola attorno alla fronte e lo zaino a penzolare sulla schiena; sono stata superata da donne con in braccio bambini e sul dorso ceste cariche di qualunque cosa; sono stata superata da una fila di uomini che portavano ognuno un masso enorme; li ho raggiunti qualche minuto dopo e li ho trovati a scaricare i massi su una montagna di altri massi, dove altri uomini e donne li rompevano a mano con martello e scalpello e altri ancora si passavano di mano in mano quelli gia’ squadrati per posarli gli uni sugli altri a costruire un muro; quella notte ho guardato con altri occhi le pareti che mi proteggevano dal freddo. Sono stata superata da portatori di gruppi di turisti, carichi dei loro zaini; sono stata superata da portatori dei vari villaggi, carichi di cibo e provviste. E ho iniziato a sentire un sapore piu’ profondo nel cibo che mangio ogni giorno. Sono stata superata da un bambino che teneva per mano la sorellina; avra’ avuto sei anni lui; a dir tanto tre la bimba. E, si’, mi hanno superata, lei barcollando un po’, strattonata e sorretta dal fratello, che una volta davanti a me se l’e’ presa in spalla ed e’ sparito. 


Incrocio questi pezzetti di vita e spesso mi chiedo come sarebbe la mia se fossi nata qui. Probabilmete starei trasportando le mie cose con una fascia attorno alla fronte. Se fossi nata in Congo invece le terrei in equilibrio sulla testa. In Peru’, in un foulard legato sulle spalle. In Vietnam, in due ceste appesa ad un’asta. Sono nata in Italia e ho uno zaino sulla schiena.

Shalom!



Kathmandu (Nepal), 6 settembre 2012

Chi ha ricevuto mie mail personali nell’ultimo periodo lo sa: avevo sempre piu’ voglia di “natura bella da togliere il fiato”. La Mongolia ha assolutamente soddisfatto questo desiderio andando ben oltre le aspettative che, pur non volendo, mi ero creata. Cio’ non significa che ne avessi abbastanza, per cui ho regalato il mio Ukulele e sono volata in Nepal per consumarmi le ginocchia e il fiato facendo trekking sull’Himalaya.
Vista dall’alto, durante l’atterraggio, nessuna citta’ mi aveva mai dato tanto l’impressione di esser fatta di lego quanto Kathmandu; un ammasso di cubetti colorati poggiati nel verde, non saprei dire se in fase di costruzione o di smontaggio. La prima sensazione che ho avuto, una volta posati i piedi a terra, e’ che qui, a differenza del sudest asiatico, le cose ti vengono addosso. Emotivamente intendo, non e’ che la gente ti lanci contro degli oggetti, sono solo sensazioni; e’ come se fosse tutto piu’… piu’ vicino e diretto: i rumori, gli odori e, soprattutto, le persone; lo sguardo delle persone, i gesti delle persone, le parole delle persone. 


Sono qui con Assaf e Dor, due dei ragazzi che erano con me in Mongolia, e ci ragiungera’ a breve un loro amico da Tel Aviv, Ziggy. Grazie a loro, in questi giorni dedicati alla preparazione per i trekking, ho visto cosa succede quando le persone si coalizzano nell’esercitareil loro potere di consumatori. Gli israeliani in visita qui sono tanti e sono stati furbi, hanno creato un sistema che funziona, un circuito chiuso di relazioni commerciali vantaggioso per loro e per i venditori coinvolti.
 Si servono tutti in massa negli stessi posti: tre hotel, due agenzie, un minuscolo negozio di attrezzatura tecnica. Si concentrano tutti li’ portando un enorme afflusso di clienti, mantenuto solo dal passaparola.
I proprietari di questi posti fanno una fortuna lavorando praticamente solo con loro, non hanno bisogno di pubblicita’ o di insegne lampeggianti: tutto cio’ che devono fare e’ mantenere un rapporto di fiducia. E lo fanno: per gli israeliani i prezzi sono reali, neanche da trattare, la merce e’ di buona qualita’, i tour operator sconsigliano con onesta’ di fare quel trekking o quel corso di rafting perche’ il sentiero e’ interrotto o il fiume troppo impetuoso in questa stagione; parlano ebraico, chi fluentemente, chi solo le formule di cortesia
e i numeri, e di loro ci si puo’ fidare ciecamente perche’ hanno capito che perdendo la fiducia di pochi clienti, perderebbero una nazione intera. Ho avuto la fortuna di varcare le soglie di questo circolo segreto facendomici introdurre dai miei amichetti. Vado negli stessi posti anch’io, dove ormai ricevo lo stesso trattamento anche senza di loro; alle volte vado solo per usare internet gratis o per chiacchierare, per farmi consigliare dove mangiare e farmi dire quanto dovrei pagare di taxi per andare in un certo posto. E tutti, ma proprio tutti, mi han detto la stessa cosa: “Sei fortunata a viaggiare con loro!” la signora del negozio di attrezzatura, quella con cui vado a chiacchierare, mi ha addirittura confessato: “Se fossi venuta da sola ti avrei fatto pagare il doppio per quel sacco a pelo, come agli altri europei!” 
Tutto cio’ ha altre ripercussioni, perche’ ogni negoziante vorrebbe entrare nel giro, per cui un po’ ovunque gli israeliani hanno prezzi piu’ bassi rispetto agli altri. Lo chiamano “il prezzo israeliano” e te lo dicono proprio: “How much for this?” “Three hundred rupees, israeli price.”
Dato che chiunque puo’ spacciarsi per israeliano, dall’algerino piu’ scuro al polacco piu’ chiaro, mi ci butto in mezzo anch’io senza farmi assolutamente alcun problema. Entro nei negozi, sorrido e saluto: “Shalom!”

Wednesday, September 5, 2012

Furia assassina



Western Mongolia, 8–29 agosto2012

Arrivati ad Olgii, procurati mappa e permessi, dato appuntamento a Don a cinque giorni dopo e qualche chilometro piu’ a nord, siamo pariti per il trekking sull’Altai. Data la fatica di doversi portare in spalla le tende e tutto il resto, io mi sarei volentieri rimpinzata di leggerissimo riso precotto e cibo liofilizzato di ogni genere e sorta per cinque giorni, che non sara’ il massimo, ma non si dovrebbe neanche morirne. E invece no. Siamo carichi di cibo “vero” come se fossimo incaricati del catering per un matrimonio calabrese. Aglio e cipolle, verdura, latte… Mi sono rifiutata di trasportare nel mio zaino una bottiglia da mezzo litro di chilli sauce. Neanche mi piace! Ho dovuto fare obiezione di coscienza.


Nonostante il peso in spalla, la bellezza del paesaggio fa dimenticare le fatiche del corpo. Il sentiero inizialmente segue ampissime vallate costeggiando un fiume dalle acque di un incredibile azzurro; quando poi si inizia a prendere quota, e’ possibile apprezzarne l’elegante disegno di curve nel verde del prato. Si cammina per ore in prati sterminati, chiacchierando, canticchiando o semplicemente in silenzio, con la mente che vaga senza alcun guinzaglio e capita che a riportarla alla realta’ sia il rapido passaggio di un’ombra sull’erba, allora si alzo lo sguardo ed e’ un’aquila a volteggiare nell’azzuro.


Si sale, si sale, si sale ancora, fino a raggiungere il passo piu’ alto di questo percorso, per poi ridiscendere sull’altro versante del monte, in una stretta pietraia di cui una parete e’ dominata da un ghiacciaio. E’ un ghiacciaio piccolo piccolo, non come quello che si vede in lontananza. E’ un ghiacciaietto, e’ un po’ di acqua e neve rimasta congelata li’… ma i miei compagni di viaggio gli hanno dedicato centinaia di foto e un sacco di entusiasmo, come e’ naturale che sia: loro a casa hanno il deserto, mica le Alpi. Al mattino, quando ci alziamo e troviamo tutto gelato, tutto ricoperto di bianco, loro saltellano felici… io ci leggo un unico inequivocabile messaggio: fa-un-freddo-cane. In effetti e’ cosi’. Di giorno no, la temperatura e’ piacevolissima, ma appena va via il sole si gela. La sera, quando la presenza di alberi lo permette, per prima cosa cerchiamo legna da ardere. Cuciniamo sul fuoco e rimaniamo a scaldarci li’ vicino per ore, ipnotizzati dalle fiamme. Come dice Dor, dall’alto della sua saggezza, tre sono le cose da cui e’ difficile distogliere lo sguardo: il fuoco, l’acqua che scorre e un’altra persona che lavora. L’odore che per sempre mi riportera’ con la mente a questo trekking sara’ quello di legna bruciata, quello che ora la sera mi rimane impregnato nelle mani e mi accompagna nel sonno dentro a sacco a pelo. 

Giunti quasi al termine, lungo il sentiero abbiamo incontrato un uomo. Gli abbiamo buttato li’ la domanda: hai cinque cavalli? No, non li ha. Ma se gli diamo un giorno di tempo, puo’ andare a prenderli in montagna. Dopo interminabili trattative (e’ un po’ complicato quando non si parla la stessa lingua) abbiamo chiuso l’accordo con una stretta di mano e montato le tende di fianco alla sua ger. Il mattino seguente la ger non c’era piu’. Nomadi. L’abbiamo ritrovato nel pomeriggio, ci ha offerto ospitalita’ per la notte nella sua nuova locazione e questa mattina, siam partiti.



Il nostro trekking si conclude dunque su quattro zampe. Abbiamo cinque cavalli, piu’ un cammello per i bagagli, piu’ l’omino dei cavalli che verra’ con noi fino al termine del sentiero e poi si riportera’ indietro il bestiame.
Come gli altri, anche il mio cavallo e’ un maschio, ma io l’ho chiamato Adelaide. Come mia cugina, che e’ la cosa piu’ simile a un cavallo che io conosca. Adelaide e’ il cavallo piu’ stupido con cui abbia mai avuto a che fare. Sembra che l’abbiano preso ieri sera da un branco, gli abbiano poggiato una sella sulla schiena e ora eccolo qui. E probabilmente e’ andata cosi’ davvero. Innanzitutto non sa seguire il sentiero, non sa andare dritto: cammina a zig zag. E poi non sa stare solo: se siamo tutti appiccicati gli uni agli altri, grossomodo e’ gestibile, ma se ci allontaniamo impazzisce, non mi ascolta, trotta quando vuole lui, se cerco di fermarlo si arrabbia e galoppa e mi tocca litigarci malamente. Quando Alon, a cinquanta metri da noi, incita il suo cavallo, parte ache il mio… allora, no, Adelaide, no: loro corrono, noi camminiamo; lui il suo cavallo l’avra’ chiamato “Furia Assassina” o quacosa del genere, tu hai un nome da checca, comportati di conseguenza. Insomma, mi han dato un cavallo fallato. L’unica e’ appiccicarlo al culo del cammello, tenuto alla fune dall’omino dei cavalli, e allora li’ diventa obbediente e segue senza protestare. Sempre zigzagando, ma va be’.



L’omino dei cavalli ed io, zitti zitti, ci portiamo avanti di parecchio, mentre gli altri si fermano qua e la’ a scattar foto. Ad un certo puto veniamo raggiunti da Assaf, che mi dice agitato “Nicole, vieni: Alon e’ caduto da cavallo!” E figurati, Furia Assassina… “Parla?” “Certo che parla!” “Ha battuto la testa?” “No” “Ha battuto la schiena?” “No” “Sanguina?” “No” “E allora digli di rimettersi a cavallo e venire fin qui!” che non ho nessuna intenzione di fare piu’ del minimo indispensabile con Adelaide.
Una botta alla spalla, nulla di piu’. Concludiamo il percorso con Alon legato come un prigioniero e raggiungiamo il buon Don per affrontare il viaggio di ritorno in minivan verso Ulaanbaatar.


Finisce qui questo pezzetto di strada in Mongolia. Mi porto via un po’ di maraviglia, ci lascio la promessa di tornare. E spero di avere la possibilita’ un giorno di mantenerla. Mi si stringera’ un po’ lo tomaco ripensando a questi paesaggi. All’accoglienza ricevuta. A Don, che svita la coppetta coprilampadina dell’abitacolo del minivan, ci versa dentro vodka e ce la offre sorridendo… “Denko! Denko!” No Don, non “denko”: “thank you”. E comunque, grazie a te.