Tuesday, July 31, 2012

Viagi esistenziali




Paesino di pescatori (Vietnam), 17 luglio 2012

Non so dove sono. In un posto di cui non conosco il nome nel sud est del Vietnam. E’ un paesino di pescatori, le case sono basse e colorate. C’e’ il sole, mare azzurro, cielo azzurro, vento, silenzio e odore di pesce. Pesci lasciati a seccare al sole su banchi di fianco alle entrate delle abitazioni. Molte porte sono aperte e passandoci davanti si intravvede l’interno di casa. Alle volte c’e’ un corpo steso a terra o su un’amaca, a dormire nel fresco della penombra. E’ l’ora in cui chi e’ furbo, potendo, rinuncia ad ogni attivita’ e sta alla larga dal sole, le stradine sono deserte. Cosi’ come la spiaggia. Le barche galleggiano a pochi metri da riva.


Lasciata alle spalle la citta’ principale, gli hotel, i ristoranti, i semafori, abbiamo guidato a casaccio costeggiando piu’ o meno il mare, e siamo arrivati qui. Credo siano questi per me i posti migliori, quelli trovati per caso, quelli liberi da ogni aspettativa e da ogni tentativo di apparire, di vendersi agli occhi dei visitatori. La citta’ abbruttisce e incattivisce. Qualunque citta’. In un Paese come il Vietnam, dove e’ chiaro da subito che tendenzialmete la gente non ha lo stesso carattere morbido dei laotiani, mi fa ancora piu’ piacere rifugiarmi nella tranquillita’ e nell’umanita’ di posti come questo.
Ecco un punto su cui questo viaggio mi sta cambiando: mi chiedo se saro’ ancora in grado di vivere in citta’. Forse no. Forse non sono piu’ disposta a rinunciare alla bellezza e alla tranquillita’ in cambio della comodita’. Vedremo.
Oh, finalmente posso dire anch’io di star cambiando! No, perche’ pare che viaggiando tutti diventino dei transformers. C’e’ chi abbandona il pallone e prende sotto braccio la Bibbia, chi capisce che la marca dei jeans non e’ poi cosi’ importante, chi smette di programmare ossessivamente ogni istante della propria vita… io ho iniziato a bere un caffe’ al mattino quasi tutti i giorni. Quasi! Sono pessima! Un signore in Laos mi ha addirittura detto questo: “In India ho imparato a mangiare quando ho fame e dormire quando ho sonno: anni fa dormivo otto ore a notte, sprecavo il mio tempo! Ora ne dormo cinque. Ma soprattutto, in India ho imparato che se si sorride a una persona… quella persona ci sorride”. Mah. Io non ho detto niente, che ognuno ha diritto di vedere le cose come meglio crede, pero’, India o non India, per quel che ne so dormire cinque ore a settant’anni forse potrebbe anche essere normale. Non so… con quel che costano i biglietti aerei, c’e’ davvero bisogno di andare cosi’ lontano a cercare un equilibrio interno? Questi discorsi sui viaggi esistenziali mi lasciano sempre un po’ perplessa. Vada per i cambiamneti, ma i viaggi esistenziali mi puzzano di forzatura.

Thursday, July 19, 2012

Cinque chilometri

Mui Ne (Vietnam), 13 luglio 2012



Scendiamo dallo scooter. Non si puo’ piu’ andare oltre. Abbiamo provato a forzare le cose e per qualche chilometro ha funzionato, poi quel rumorino comparso dopo i primi cinque minuti e’ diventato cosi’ forte da dare l’impressione che il cambio voglia esplodere ogni volta che si scala la marcia. Se ci fossimo arresi prima, adesso non saremmo bloccati nel bel mezzo del nulla, invece no: a furia di provare, riprovare e provare ancora, ci siamo pian piano allontanati da tutto… e siamo bloccati qui. 
Punto interrogativo sul da farsi ed ecco che compare un gippone scassato, un uomo alla guida e un bambinetto sui sei anni appeso dietro. Si fermano e ci urlano qualcosa, ci stanno chiaramente offrendo un passaggio. “Offrendo” nello stesso senso in cui “il menu’ offre”, il che non significa che alla fine non si debba pagare il conto. Ci ha colti un po’ alla sprovvista, per cui il primo impulso e’ quello di rifiutare con la mano. Il gippone riparte. Guardo a destra: sabbia; guardo a sinistra: mare; penso alla strada che abbiamo da fare a piedi, penso alla poca acqua ormai calda rimasta nella bottiglia, penso che saranno piu’ o meno le dieci e la temperatura salira’ ancora.


Come a tirare le somme dei miei ragionamenti, dopo aver fatto pochi metri a passo d’uomo il gippone si ferma e ci ripropone l’offerta. Questa volta accettiamo. Iniziano le trattative per il prezzo, troviamo un accordo alla veloce calcolato su un’ipotetica distanza di cinque chilometri (non ho idea di quanti siano in realta’, l’importante e’ partire), carichiamo lo scooter e saliamo dietro anche noi: non c’e’ un portellone posteriore, per cui dovremo assicurare la moto tenendola a mano. Ci sono sabbia e teste di pesce qua e la’ sul fondo del gippone,ne sposto alcune con un piede e mi faccio spazio per sedermi. Mentre avanziamo, immagino l’uomo caricare sul gippone il pesce appena pescato, aiutato dal figlio che gli zompetta agilmente attorno, immagino la moglie seduta dietro a eviscerare i primi malcapitati per portarsi avanti con il lavoro mentre lui guida verso il mercato… 


Dopo non piu’ di due chilometri, l’uomo accosta davanti ad un meccanico e ci fa cenno di scendere. Ma gia’! Ci han dato uno scooter rotto, stiamo pagando noi il trasporto, ci manca solo che paghiamo pure il meccanico… non facciamo i furbetti, avevamo detto cinque chilometri! Gli facciamo capire che vogliamo tornare all’hotel con lo scooter cosi’ com’e’ e lui, evidentemente di malavolgia, riparte. Sabbia e arbusti secchi alla nostra destra, mare a sinistra. Case rade a destra, mare a sinistra. Mercato, case, negozi, motorini e passanti a destra e a sinistra: cinque chilometri, siamo in paese. Ora ci e’ evidente che la distanza stimata era del tutto errata: dobbiamo attraversare tutto il paese e continuare oltre per un bel pezzo prima di arrivare al nostro hotel. 


L’uomo, a ragione, ci chiede di scendere: “Erano cinque chilometri!” ci fa capire a gesti, e’ vero, ci dispiace, lo preghiamo di continuare, pagheremo quel che dovremo pagare. Lui capisce e avanza. Il figlio invece sembra piuttosto agitato da questo cambio di programma e inizia a fissare gli edifici appeso alla carrozzeria del gippone come un pirata di vedetta che scruta l’orizzonte; ad ogni hotel o similhotel che avvista ci chiede con una certa insistenza se sia quello giusto (in vietnamita, ma si fa capire benissimo) “Qui? Qui?”, sbracciandosi per indicare l’hotel e battendoci sulla schiena ogni volta per attirare l’attenzione… no, continua, te lo diciamo noi. Paf paf “Qui? Qui?” no continua; paf paf “Qui?? Qui??” no continua; paf paf “Qui??? Qui???” paf paf… ma lo sai che sei snervante dopo un po’??


Arriviamo finalmente all’hotel. Scendiamo, scarichiamo la moto e riprendiamo la trattativa. Stimo un dieci chilometri totali, Martin concorda. “No: venti” fa cenno il bambino. No caro, venti proprio no! Il padre ci da ragione: dieci chilometri, ma ci chiede il triplo della cifra concordata in partenza. No, si era detto un tot per cinque chilometri, per dieci fa il doppio. Giusto, siamo d’accordo. Gli diamo i soldi. “No! Il triplo!!” si intromette ancora il bambino “Il triplo!!”… ma, di’ un po’, farti gli affari tuoi, no?! Il padre non lo degna della minima attenzione, in un atteggiamento che lascia intuire “lascia ai grandi le cose da grandi”, ci ringrazia, lo ringrziamo e ci scusiamo ancora, strette di mano, saluti, controllo di non avere teste di pesce attaccate al sedere e ognuno torna alla propria vita.
Cambiato lo scooter, riprendiamo la strada, sotto il sole cocente della meta’ del giorno e torniamo la’, tra le dune e il mare. A livello paesaggistico il Vietnam pare non si faccia mancare proprio niente.



Sunday, July 15, 2012

Sua moglie, sua figlia e le sue sette sorelle

Ho Chi Minh (Vietnam), 11 luglio 2012

Vietnam, piu’ precisamente Ho Chi Minh, ovvero Saigon. Mi e’ sempre suonato come uno di quei posti dalla dubbia esistenza, come Timbuktu, Samarcanda, Atlantide, Java (trova l’intruso)… Be’, Saigon esiste davvero ed e’ una cittadona trafficata e rumorosa. Ma, a differenza di Phnom Pehn, e’ invasa da un traffico che segue una logica a me comprensibile. Cio’ non toglie che attraversare la stada dove non ci sono semafori sia tutta un’avventura, comunque ce la si puo’ fare, non devo piu’ macchiarmi di vergogna aspettando che attraversino altre persone da usare come scudo umano. Il trucco e’ questo: fronteggiare il fiume di motorini che ti vengono in contro come proiettili di un plotone d’esecuzione e fare il primo passo. Poi il secondo. Poi il terzo e via cosi’, sintonizzarsi su una volocita’ e mantenerla; a quel punto ci pensano i motorini a calcolare tempi e distanze, si crea una sorta di armonia di traiettorie grazie alla quale e’ possibile penetrare la materia e superare illesi la barriera del traffico. Mai fermarsi, mai correre, niente movimenti bruschi, ricorda: loro fiutano la tua paura.
Non avevo davvero alcun interesse nel visitare la citta’, ma dovendo sbrigare alcune commissioni, ho avuto modo di rimbalzare da un indirizzo a un altro, tra un’esigenza e l’altra… autobus, posta, esami del sangue, motorizzazione… adoro come l’intera citta’ si trasformi nel tabellone di un gioco di abilita’ quando non si capisce una sola parola nella lingua del posto. Mi piace vedere che alla fine si riesce a fare tutto ugualmente, solo con qualche tribolazione in piu’.

Cambiando Paese, ogni volta per i primi due giorni sento di avere delle enormi limitazioni mentali. Innanzitutto, come gia’ detto, per la lingua, perche’ si riparte da zero, dal non riconoscere neanche una parola. Poi per i soldi: e’ piuttosto facile, un euro sono venticinquemila dong, ma il mio cervello, che tra le altre cose non sa piu’ bene se ragionare in euro o in dollari americani, inizialmente si rifiuta di fare il passaggio diretto e tenta di seguire complicatissime strade secondarie… se un dollaro erano quattromila real e un euro e’ un dollaro e venticinque centesimi circa e io devo pagare cinquantamila dong allora in euro fanno… persa. Cinquanta diviso venticinque, Nicole: due, sono due euro, e’ facile! Ma no, niente, inizio a divagare perche’ un euro erano quaranta bath oppure diecimila kip, quindi cinquantamila diviso diecimila… nessuna speranza. Fortuna che dura poco.
Navigavo ancora in questo mare di incertezze e relativita’ matematica quando mi e’ capitato di essere derubata. Esatto: derubata! Ora, potrei scegliere di raccontare di aver avuto un coltello puntato alla gola, una pistola alla tempia, le spalle al muro in un vicolo cieco di un quartiere malfamato di notte… qualcosa cosi’, che mi facesse sembrare, non dico eroica, ma almeno una vittima indifesa. E invece no, a onor del vero, raccontero’ la realta’ e passero’ per la rincoglionita che sono. Le cose sono andate grossomodo cosi’: dopo un’interminabile caccia al tesoro, Martin ed io troviamo finalmente il pullman che dovrebbe portarci fuori da questa maledetta citta’, verso il delta del Mekong; arriviamo che il pullman sta per partire, facciamo appena in tempo a chiedere se sia quello giusto “Si’, si’, veloci che parte!” l’uomo ci aiuta a caricare gli zaini, quasi ci butta sul pullman che effettivamente stava gia’ chiudendo le porte, ci procura due sgabellini su cui sederci nel corridoio tra i sedili perche’ i posti sono gia’ tutti occupati, poi ci dice “Fanno xxx soldini” Martin apre il portafoglio e glieli da. Io ho come il vago sentore che sia una cifra esorbitante e allora, dato che sono furba, gli chiedo “Xxx soldini?? Caspita, e’ un po’ caruccio! Ma a testa o in totale?” “…mmm… a testa…” “Acciderbolina! Sono un sacco di soldi!” e a quel punto gli do anche la mia parte. Sempre perche’ sono furba. “Grazie signorina, ben gentile!” “O, prego buon uomo. Certo che e’ tantino pero’! Quanto sono xxx soldini? Vediamo, se un dollaro erano quattromila real e un euro e’ un dollaro e venticinque centesimi circa o diecimila kip, allora xxx soldini…” Si’, ciao! Persa di nuovo. Prima che mi renda conto che si tratta di venticinque dollari, cifra con cui potrei attraversare il Vietnam per lungo in pullman, il buon uomo e’ gia’ belle che sceso. E non perche’ abbia finito il turno, ma perche’ non era il bigliettaio! Ma almeno, il pullman era quello giusto? …NO!!!
Ah… mannaggia, quanto mi fa ridere adesso!! Un momento memorabile! Ma si’, per venticinque dollari… che se li goda! Che li usi per ubriacarsi, dato che questo mese sua moglie, sua figlia e le sue sette sorelle attraverseranno tutte contemporaneamente una fase di isteria premestruale potentissima… Che se li goda, brindando al karma!
Bene, anche questa e’ fatta. Prima o poi doveva capitarmi qualcosa del genere, ora non capitera’ piu’. Si impara dall’esperienza e sui mezzi di trasporto c’e’ da imparare un sacco.

Ad ogni modo, fermando il pullman sbagliato all’incrocio giusto e procacciando due mototaxi, siamo arrivati sul delta del Mekong. E questo solo perche’ l’avevo inserito nella lista dei desideri e propositi 2012, quindi dovevo andarci ad ogni costo. “Delta del Mekong” e’ un po’ vago: e’ in realta’ un’area molto ampia, non pensavo. E’ una zona in cui il fiume diventa decine di fiumi. Superato un ponte ce n’e’ un altro, poi un altro, poi un altro ancora. Colossi architettonici, ponti normali, ponticelli piu’ incerti e sull’acqua case, mercati, pescatori, ogni genere di trasporto… le attivita’ sul fiume si sprecano. Ho trovato la stessa accoglienza sincera e disinteressata della Cambogia, sara’ la vicinanza, lo stesso “May I help you?” sulla bocca di chi parla inglese e nei gesti di chi non lo parla. Tra gli altri, abbiamo conosciuto un signore che nonostante l’eta’ avanzata pedala avanti e indietro tutto il giorno con con la sua bicitaxi. Davanti ad un caffe’ in un bar di My Tho ci ha raccontato la citta’ cosi’ com’era durante la guerra e per una mattinata quelle che ora sono case sul fiume, sono tornate ad essere locali pieni di vita in cui giovani soldati americani si ritrovano a bere con gli uomini del posto e a scatenare risse tra di loro per questa o quella ragazza o per una partita persa… anche qui la storia e’ recente, eppure sembra lontana secoli.


La sconfitta del Ping Pong Show

Siem Reap (Cambodia), 3 luglio 2012



“Hallo?”
“C’est moi”
“Niki, speravo proprio che mi chiamassi!”
“Cosa ti e’ sucesso alla voce?”
“Ah, ieri mi sono svegliata senza voce, ma ora va meglio…”
“Capita. Perche’ speravi che ti chiamassi?”
“Cosi’, mi annoiavo… Sei sempre li’…?”
“Sono sempre in Cambogia, si’, ma tra poco vado in Vietnam con uno dei ragazzi con cui sto viaggiando ultimamente”
“Ah, il francese!”
“Francese? No, quale francese?”
“Quel ragazzo francese simpatico…”
“Ma no, mamma, era tre mesi fa! Te l’ho detto, sto viaggiando con uno spagnolo, un americano e c’era anche…”
“Ah, non e’ piu’ con te il francese? Peccato!”
“Perche’ peccato?”
“Era simpatico”
“Ma se non lo conosci!”
“Ci hai fatti parlare al telefono”
“Solo un volta…”
“Be’, era simpatico”
“Ma ci hai parlato per meno di un minuto!”
“Se non era sipatico perche’ viaggiavi con lui allora?”
“… ok, ok, era simpatico, era simpaticissimo…”
“E questo ragazzo parla fracese?”
“No, parla solo inglese, e’ americano. Voui che ti passi anche lui? Magari ti sta simpatico…”
“No, ho la voce brutta adesso. Chiamami la prossima settimana, che mi torna la voce”
“Quando posso ti chiamo, ok? ”
“Va bene. E ricorda le mie monetine!”
“Si mamma, mi ricordo…”
“Ok. Ciao!”

Sunday, July 8, 2012

Ogni donna al mondo

Siem Reap (Cambodia), 30 giugno 2012


Due di notte. Usciamo dal supermercato con il necessario per il pranzo al sacco di domani. Di solito non facciamo cosi’ tardi, ma oggi avevamo una persona da salutare e siamo rimasti alzati ad aspettare che arrivasse il pullman a portarla via. E di solito non mangiamo panini, ma domani passeremo la giornata ad Angkor Wat, dove con ogni probabilita’ il cibo sara’ caro come l’oro, per cui meglio essere previdenti. Camminando in silenzio sulla via verso la nostra guest house, gli occhi mi si chiudono da soli. Ripenso a quando, con questa stessa stanchezza addosso, uscivo di casa per andare a fare la notte e mi sembra di tornare con la mente ad una vita precedente. E’ la voce allarmata di Aritz a riaccendermi l’attenzione: “Cosa succede??” Guardo avanti, c’e’ un motorino fermo a bordo strada ad una ventina di metri da noi, una ragazza alla guida; di fianco, sul marciapiede, una persona ne atterra un’altra e cerca di sferrare qualche colpo… sembrano due ragazzini, e’ tutto molto lento, quasi fossero due amici che giocano. Li’ per li’ mi pare eccessivo che Aritz si lanci di corsa verso di loro, ma in quel momento l’aggressore alza un braccio, ha una cintura in mano ed e’ chiaro che non sta scherzando quando cerca di colpire… ok, non stanno giocando. Aritz lo blocca da dietro e lo alza “Hey! Hey, fermo! Basta!” Ci avviciniamo tutti e vedo che non si tratta di un ragazzino, ma di un uomo, giovane e di corporatura piuttosto minuta. E la persona a terra non e’ un suo amico, ma una donna: sua moglie, come continua a ripetere l’uomo, mentre si dimena nella stretta di Aritz “Non importa se e’ tua moglie! Le fai male cosi’, basta!” Non siamo gli unici presenti: oltre alla ragazza sullo scooter, ci sono altri due uomini, due passanti suppongo. Cercano di calmare l’uomo dicendogli qualche parola in khmer e anche loro ripetono ad Aritz “Ok, ok, e’ sua moglie…”, quasi a volerlo tranquilizzare. Aritz, dal canto suo, non ha alcun bisogno di essere tranquillizzato, ha il pieno controllo di se stesso, non c’e’ la minima traccia di aggressivita’ nei suoi gesti, solo fermezza; non alza la voce, non istiga, non e’ brusco, e’ solo irremovibile: basta. L’uomo e’ evidentemente ubriaco, per questo i suoi movimenti erano cosi’ lenti e i colpi scarsamente efficaci. Tiene ancora la moglie per i capelli quando Aritz lo lascia, vedendo che ormai si sta calmando e tenerlo fermo servirebbe solo ad irritarlo di piu’. Sentendosi libero, lui accenna ancora a sbattere la testa della donna contro un albero, ma e’ un movimento cosi’ lento e debole che Aritz fa in tempo a bloccarlo senza neanche doversi affrettare troppo. Alla fine lascia la presa e la donna sale sullo scooter con l’altra ragazza. Bene, ora se ne vanno, penso. Invece no: aspettano che anche il marito salga a bordo. Noi rimaniamo un po’ straniti, Aritz vorrebbe impedirgli di avvicinarsi allo scooter, ma i due passanti lo rassicurano: “E’ tutto ok, tutto ok, e’ sua moglie”. L’uomo e’ tranquillo ora, la donna pure, si stringe all’altra per fargli spazio; la ragazza alla guida ingrana la marcia e si allontanano tutti e tre, come se nulla fosse successo.
Torniamo alla guest house, all’ingresso attraversiamo il corridoio in cui il proprietario dorme su una brandina sotto ad una zanzariera, come si usa da queste parti. Cerchiamo di non far rumore per non svegliarlo: chissa’ quante volte viene svegliato ogni notte da tutta la gente che rientra o esce o chiede cose… Aritz entrando in stanza dice solo una cosa: “Questa notte voglio dormire nudo” non dira’ altro riguardo all’accaduto, neppure nei giorni successivi. Sono abbastanza sicura che ci sia un nesso, qualcosa che ha a che fare con l’istinto dell’esemplare maschio, il simpatico e il parasimpatico… robe che io non potro’ mai capire realmente perche’ sono nata con le ovaie. Ad ogni modo, dormi pure come vuoi, ci mancherebbe altro. Martin invece ha la desolazione stampata in faccia e credo di sapere perche’, ha a che fare con qualcosa che mi ha confidato tempo fa; lo abbraccio. “Stai bene?” “.. sono solo arrabbiato…” e questo invece lo riesco a capire. Capisco quanto possa logorarti dentro una rabbia che non trovera’ mai un unico colpevole su cui sfogarsi. “Non essere arrabbiato… hey?… stai rispettando ogni donna al mondo per il modo in cui abbracci me ora” “Davvero?” “Si’” “Grazie” E lo so che non ha senso, grammaticalmente e concettualmete, che il rispetto non e’ un’azione attiva, che con il mio accento strampalato in inglese dev’esser suonato in modo ridicolo, pero’ credo che lui abbia capito lo stesso. Lo spero davvero.

Foto non scattate

Ratanakiri (Cambodia), 25 giugno 2012

Il nord della Cambogia ci scivola via cosi’: sotto due ruote. Non e’ piu’ solo pianura, ma collina e il paesaggio ci scorre a fianco piu’ o meno rapidamente a seconda che si tratti di ruote di scooter o di bicicletta.




Alcuni giorni fa, Kate ci ha abbandonati per aggregarsi ad un gruppo di ragazze kiwi. Da quando siamo riamasti soli noi tre, le cose hanno preso un ritmo piu’ dinamico a cui in alcuni momenti stento a star dietro, come ogni volta che ci spostiamo in bici. No, no: va benissimo cosi’, non me ne sto lamentando! Non sia mai! Come mi ricordano i miei compagni di viaggio, non ne abbiamo diritto noi che abbiamo “il miglior cuore al mondo” (cit.aritz), noi “donne africane strutturate per portare l’acqua sulla testa per chilometri dal fiume al villaggio. E di corsa.” (cit.martin) In tutto cio’, ad ogni salita se provo a tenere il loro ritmo mi sento morire, loro chiacchierano come dal parrucchiere e io mi arrampico aggrappandomi alla bici, pedalando in piedi con il sudore che mi brucia gli occhi e spreco preziosissime energie per urlare “Vi prego! Ditemi che sono forte!” “Te la stai cavando” “No!! Ditemi che sono forte! Che ce la posso fare, ne ho bisogno!” …un intero villaggio ucciso dalla sete a causa mia. Mi toglie il sonno pensare a cosa sarebbe successo se fossi nata in Africa.



Se il velocipede allena la capacita’ di non lamentarsi, secondo me lo scooter insegna invece l’arte della meditazione. Chiusi nel casco i pensieri inizialmente rimbombano un po’ piu’ forte, poi vanno via via attutendosi con il passare del tempo, fino ad azzerarsi. Alla fine ci si ferma, ci si toglie il casco e sembra di riemergere alla realta’ da una sorta di stato di minima coscienza in cui si era stati risucchiati. Vorrei chiedere a chi va in moto se capita a tutti la stessa cosa. Guidando qui bisogna fare molta attenzione. Cioe’, bisogna sempre e dovunque fare molta attenzione quando si guida, usare sempre il casco, far guidare l’amico sobrio, attraversare guardando a sinistra e a destra e via cosi’… ma in alcuni posti bisogna fare piu’ che molta attenzione. Attenzionissima. Perche’ anziche’ il Codice Stradale, ha vigore il Libro della Giungla: il piu’ grosso mangia il piu’ piccolo. Gli stradoni che collegano le citta’ sono rettilinei d’asfalto separati dai campi su entrambi i lati da due o tre metri di terra battuta. Quando un camion o un pullman decide di superare un altro camion o un altro pullman, poco importa se qualcuno sta arrivando dalla direzione opposta: se e’ piu’ piccolo, problema suo. Con lo scooter ci si ritrova cosi’ in continuazione a dover saltare giu’ dalla strada sulla striscia di terra per evitare l’altrimenti inevitabile frontale. Ogni volta ho poi il terrore che le ruote scivolino nel risalire il dislivello d’asfalto rientrando sulla carreggiata. Quei pochi centimetri mi fanno trattenere il fiato ogni volta, anche se so che non ha senso, che le ruote del motorino non sono come quelle della mia bici di casa…



Quando non guido, come ho gia’ detto, il pensiero mi si annulla. Guardo il paesaggio e i passanti con la capacita’ di giudizio azzerata. Semplicemente guardo e registro delle immagini che mi piacciono. Sono troppo pigra per tirar fuori dallo zaino la macchina fotografica e scattare foto che comunque sarebbero orrende, per cui riempio album fotografici mentali di foto mai scattate. Ad esempio… un uomo alla guida di uno scooter rosso, dietro di lui un bambino e una ragazzina in pigiama che reggono ognuno una canna di bamboo; sulla cima di ogni canna, tenuta ben in verticale, c’e’ un sacchetto nero capovolto; il contenuto non si vede, ma i deflussori che ne scendono e che vanno a infilarsi sotto le maniche dei pigiami non lasciano dubbi: due flebo; terapia infusionale in scooter. Click. Un bue bianco, enorme, un uomo gli sta caricando sul dorso un’asta alle cui estremita’ sono appese due ceste; il campo verdissimo continua a perdita d’occhio dietro di loro; all’orizzonte degli alberi tracciano una linea netta che separa il verde del campo dall’azzurro del cielo; sole, qualche nuvola bianca. Click. Martin ed io sullo scooter, scene di vita coniugale: “Perche’ vai cosi’ forte? Mi sembra di essere di fretta e non riesco a godermi il paesaggio…” “Scusa, e’ che credevo fossi stanca e ti facesse piacere arrivare il prima possibile a casa per riposarti” “Oh, andiamo! Non usarmi come scusa, non lo pensi davvero!” “Non dirmi a cosa non penso!” “No, TU non dirmi cosa non pensi!”. Click. Un uomo in motorino che trasporta, legato dietro, un blocco gigante di ghiaccio; e’ una corsa contro il tempo, il ghiaccio e’ grondante e lancia una scia di gocce dietro di se’. Click. Un camion pieno di maiali. Click. Una moto a terra; un’altra anguria rotta con attaccato un corpo umano. Click (mio malgrado). Il camion di una birra locale, la scritta bianca bordata di blu su sfondo rosso: Anchor, national bier national pride. Click. Un distributore di benzina a bordo strada: il banchetto di legno su cui sono posate le bottiglie di vetro da un litro piene di carburante giallo; di fianco al banchetto, una cassa frigorifero rossa, sicuramente piena di giaccio e lattine. Click.
Assorbo e mi lascio assorbire.