Tuesday, May 29, 2012

Campo minato e solitario

Pakse’ (Laos), 21 maggio 2012



Ho lasciato senza troppo dispiacere Vientiane: ciao bulli, ciao francesi con denti di coniglio, ciao vicino di dormitorio che passi le serate ad alitare fumo sulle cartoline cercando di dimostrare che cosi’ le immagini cambiano… ciao! Statemi bene, io vado a sud.
Sono ora a Pakse’, una cittadina usata come punto di transito per i due siti di maggior interesse turistico al sud: il Bolaven Plateau e le Siphan Don (Quattromila Isole). Nessuno riusciva a spiegarmi cosa fosse questo benedetto Bolaven Plateau: “E’ bellissimo, se puoi vacci!” “Si’, ma cos’e’?” “Tu vacci”. E proviamoci, tanto ho tempo da perdere. Mi ero fatta l’idea che si trattasse di un altipiano; niente di piu’ sbagliato: e’ un posto. Mi spiego: la Valchiusella e’ una valle, Mappano e’ un comune, il Vercellese, be’, il Vercellese e’ un posto. Il Bolaven Plateau e’ un’area attraversata da una strada circolare che unisce diversi paesini e villaggi tra montagne, campi e soprattutto cascate, cascate ovunque. Ed e’ effettivamente un bel posto. Un tratto di strada e’ costeggiato da alberi con fiori rossissimi e carretti che vendono frutta colorata, le montagne sullo sfondo, il verde… molto bello. Credo di essermi assuefatta alle cascate, perche’ il mio cervello ha iniziato a scomporne il concetto ed e’ arrivato alla definizione di “acqua che cade”. A due chilometri da qui c’e’ dell’acqua che cade, andiamo a vederla? Capirai che entusiasmo se la si mette cosi’… comunque, anche l’acqua che cade non e’ male. Un po’ come le cascate.
Il mio nuovo coinquilino tedesco si chiama Patrick e sogna di fare il missionario per convertire la gente alLa Verita’. Prima sognava di fare il calciatore. Io credo che non ci sia niente di male nel correre dietro a un pallone. Abbiamo passato qualche giorno assieme dividendo l’affitto dello scooter e le ore di guida e scorrazzando per il Plateau. Il primo giorno, camminando nella campagna per cercare di raggiungere un villaggio in cui dormire, ci siamo persi (Ormai e’ la prassi!). Credendo di aver intuito la direzione da prendere per raggiungere il sentiero giusto, mi sono incamminata tagliando attraverso un campo. Patrick mi ha fermata dopo pochi passi: “Forse non dovresti camminare li’!” Immobile, mi sono guardata attorno senza capire… non sto pestando le piantine, non c’e’ nessuno a minacciarmi con un forcone… “Perche’?” “Ci sono ancora delle mine!” “In un campo coltivato??” ho continuato la traversata con lui dietro, presa dai miei pensieri. E’ vero, in Laos ci sono ancora delle mine, ma certo non in un campo come questo, in cui la gente si e’ spezzata la schiena per arare a mano ogni centimetro quadro di terreno ogni anno negli ultimi chissa’ quanti anni… come puo’ pensare alle mine? Ecco perche’ mi cammina sempre dietro! Da quando siamo partiti! Che uomo e’ uno che mi lascia avanzare pensando che potrei esplodere davanti ai suoi occhi? Certo, io ho fatto la stessa cosa con il russo… ma non temevo che sarebbe esploso, diamine! Speravo solo che spaventasse eventuali serpenti prima che potessi vederli io. Forse sono la sua mulatta da combattimento che gli apre la strada tra le mine. Forse e’ coraggioso, se mi segue nonostante tema di saltare per aria ad ogni passo. Chissa’ che paura ha addosso, poverino… Alla fine, ognuno ha i suoi problemi, mi dico. Siamo arrivati a destinazione, ognuno con le proprie irrazionali paure in testa.
La sistemazione nei villaggi e’ diventata molto divertente da quando ho imparato ad esprimere i miei bisogni in lao. La possibilita’ di comunicare a parole ha sancito il passaggio dal livello Cita al livello Tarzan e questo ha portato ad un ulteriore aumento dell’ospitalita’. Il rischio e’ che si venga invitati a condividere davvero di tutto, anche una colazione a base di locuste fritte e birra. Le locuste fritte sono ottime, ma la birra… a me… a colazione… mai piu’. Mi spiace rifiutare, mi sento estremamente inopportuna, ma proprio non mi piace. D’ora in poi terro’ sempre in tasca un blister di compresse e lo usero’ come scusa per declinare gentilmente l’offerta. Proviamo cosi’.
Passero’ ancora qualche giorno tra il Bolaven Plateau e Pakse’, poi andro’ a sud, mentre Patrick continuera’ a nord. E’ strano abituarsi cosi’ velocemente alla presenza di qualcuno e dopo pochi giorni vederlo sparire, sapendo che probabilmente non lo si incontrera’ mai piu’. Ci si aiuta tanto a vicenda, si cammina assieme per un pezzetto di strada (tra mine, pitoni e spauracchi vari ed eventuali), ogni volta e’ un piccolo lutto. Mi chiedo se mi abituero’ anche a questo, come all’acqua che cade.


Sunday, May 20, 2012

Vittima di bullismo

Vientiane (Laos), 15 maggio 2012




Faccio colazione, cerco una bici in affitto (di quelle con il cestino davanti, che e’ tanto comodo), banca, mercato, ufficio immigrazione per prolungare il visto… sbrigo tutte le mie commissioni piu’ velocemente del previsto. Ho appuntamento alle quattro davanti al museo nazionale con un ragazzo catalano che ho conosciuto ieri. Catalano, non spagnolo. E per loro si’ che la questione e’ seria, altro che i sardi e i bretoni! Mente rifletto sulle minoranze etniche incontrate sin ora (me compresa), pedalo verso il parco. Ho un buon libro e la giornata non e’ troppo calda, aspettero’ li’ che sia ora di andare all’appuntamento.
Mi siedo sull’erba all’ombra e poso di fianco a me gli occhiali da sole. Sto leggendo un libro emotivamente molto coinvolgente, so che in pochi secondi saro’ completamente assorbita dalla storia, per cui tiro fuori anche il cellulare in modo da avere l’ora sott’occhio. Sono gia’ persa tra racconti di guerra, quando un ragazzo viene a sedersi vicino a me. Troppo vicino per poterlo ignorare. Lo guardo, un po’ dispiacuta di dover interrompere la lettura; lui mi dice qualcosa in una lingua che non capisco. Gli sorrido e gli faccio cenno di no con la testa: non ho capito, gli dico in lao. Lui mi parla ancora. Mi concentro, ma niente. Scusa ma non capisco, gli dico di nuovo in lao. E lui continua a parlare. Mi sforzo, ma non riesco a cogliere nessuna parola. Nemmeno una! Non e’ possibile, mi dico, non sta parlando lao. Sollevo le mani, i palmi rivolti verso l’altro, no, gli dico di nuovo scuotendo la testa. Lui mi parla ancora, mi fa delle domande e le ripete con insistenza. Usa frasi lunghe, non mi aiuta con i gesti. Non ha nessuna intenzione di farsi capire, non gli interessa comunicare. Non mi sta dicendo niente di utile e non vuole niente da me, altrimenti si farebbe capire, penso voglia solo divertirsi. C’e’ arroganza nei suoi modi, non e’ aggressivo, ma mi impone la sua presenza in un atteggiamento intimidatorio che non mi piace e che riconosco come fortemente anomalo in questo Paese. Non e’ laotiano, penso, non puo’ essere laotiano. Forte della mia convinzione, mi indico e gli dico “Italy”, poi indico lui. “Vietnam”, mi risponde. Ci ho visto giusto. Spero che questo breve scambio comunicativo possa rompere la dinamica precedente, ma no: lui riprende a fare discorsi che io non posso capire. Avvicina l’avambraccio al mio, ha una carnagione molto chiara, tocca la sua pelle e alza un pollice, poi tocca la mia e lo abbassa. Bianco bello, nero brutto. E va be’, per lo meno ti sei spiegato! Non ci leggo razzismo, so che secondo i canoni di bellezza asiatici, la pelle piu’ e’ chiara e piu’ e’ apprezzata; sono abbastanza certa che non ci sia altro dietro il suo gesto, mi punzecchia su una questione estetica, nulla di piu’. Indico la mia pelle e alzo il pollice, poi indico la sua e lo tengo ugualmente alzato. Un altro ragazzo viene a sedersi dietro di noi; ora il primo mi parla e ogni tanto si gira verso l’amico e ride. Ride di me. L’amico gli sorride, ma non sembra condividere del tutto. Sbircio l’ora sul cellulare posato sull’erba tra me e il ragazzo. In altre circostanze probabilmente lo metterei via, ma sono sicura che non voglia rubarmelo. E anche fosse, non mi interessa nulla del mio cellulare, potrei infilarglielo in tasca e andarmene serenamente. Per cui non prendo nessuna precauzione, non voglio mostrarmi preoccupata per qualcosa, perche’ non ho motivo di esserlo. Si stanno solo divertendo, siamo alle elementari, mi hanno rubato il diario e se lo palleggiano per vedermi correre da una parte all’altra, ma non mi va di dar loro soddisfazioni: non mi arrabbio, non metto via il cellulare, non me ne vado. Prima o poi si stuferanno. Infatti l’amico si alza e se ne va. Si avvicina un terzo ragazzo, molto giovane, si siede sulla mia bicicletta e mi fa capire che vuole andare da qualche parte. Vai, cosa ti devo dire? Non credo gli serva realmente, ma non credo neppure voglia portarla via. Infatti dopo pochi minuti ritorna. Il primo ragazzo intanto si e’ messo i miei occhiali; sono rotti, gli dico, glielo faccio vedere. Lui li mette ugualmente, ora prende lui la mia bici, fa un giro nel parco e dopo pochi minuti torna pure lui. Mi rida’ gli occhiali e se ne va. Rimango di nuovo sola. Finalmente! Dimmi te se alla mia eta’ devo essere vittima di bullismo! Riapro il libro e ripredo a leggere, innervosita per il poco tempo che mi resta ormai. 15.30, devo andare. Apro il cestino della bici per metterci dentro le mie cose. La bottiglia! Non c’e’ piu’! Non ci credo, mi ha rubato una bottiglia d’acqua piena a meta’. Coglione, penso tra me e me. O forse lo dico anche. Va be’, andiamo dal catalano.



L’indomani, pedalando su una strada poco lontano dal parco, sento urlare “Italy!!”. Dall’altra parte della strada c’e’ il vietnamita che mi saluta. Ricambio il saluto continuando a pedalare. Poi mi fermo, faccio inversione e lo raggiungo. C’e’ un negozietto poco piu’ avanti, ce n’e’ uno ogni pochi metri. Gli faccio capire che sto andando li’ e che voglio che mi segua. Prendo una bottiglia d’acqua dal frigo, la stessa che avevo nel cestino della bici, gli indico il prezzo, indico lui, indico la negoziante che aspetta. Lui si mette a ridere e paga. Usciamo e ci salutiamo con la mano; “Italy!” mi dice ancora ridendo mentre si volta. Ridacchio anch’io. Giro la bici e me ne vado, con il mio piccolo trofeo.
Sento che saremmo diventati amici se l’avessi incontrato altre volte.
Aggiornamento anti-panico e autocritico 21 maggio:
Se avessi avvertito pericolo, me ne sarei andata! Ma ripeto, non era aggressivo e non era affatto una situazione “pericolosa”: un parco cittadino, in pieno giorno, circondati da altre persone che chiacchierano, passeggiano, sonnecchiano sull’erba a pochi metri da noi… era solo un volermi deridere, non so per quale motivo. Non c’e’ nulla di spaventoso in questo: fastidioso, al massimo umiliante, ma non spaventoso. Credo che nessuno si sarebbe allontanato per paura, al limite per il fastidio di un atteggiamento arrogante.
Averlo incontrato il giorno seguente, vedere come mi ha salutata e come ha accettato di darmela vinta ridendo, in realta’ mi ha fatto sentire in difetto: come se avessi preso troppo seriamente uno stupido dispetto, come se non fossi stata in grado di stare al gioco e avessi reagito ad uno scherzo offendendomi. La musona che anziche’ riderci su’ la prende come una sfida e rivuole la sua bottiglia. Mi giustifico dicendo che lo scherzo non era affatto divertente per me e allora altro che elementari, una parte di me si sente come all’asilo: “Ma ha cominciato lui!” …e tu continua, brava! E’ vero che ha cominciato lui (testarda, eh!), ma la mia e’ stata un’inutile risposta dettata dall’orgoglio, assolutamente ragione Fulvio! Non rischiosa in quella circostanza, semplicemente inutile e fine a se stessa. E va be’, cosi’ sono andate le cose.
Comunque, credo davvero che saremmo potuti diventare amici se non fosse finita li’, non lo dico per dire!

Per un mouse omaggio



Vientiane (Laos), 14 maggio 2012


Io non me la spiego questa predisposizione a ritrovarmi in situazioni che non hanno senso, fatto sta che sono sul marciapiede di una strada nel centro di Vientiane e ho in mano un sacchetto. Dentro al sacchetto c’e’ un sacchettino. Dentro al sacchettino, due denti. Umani. Due premolari, a voler essere precisi. Entrambi in condizioni scadenti, a voler essere onesti. Sono le dieci, il traffico che scompiglia le strade della capitale nelle prime ore del mattino si e’ ormai placato. Chi doveva correre a lavoro e’ gia’ operativo da diverso tempo e le auto e i motorini si muovono ora senza fretta. Anche i rari passanti hanno un’andatura rilassata; qualcuno si ferma a comprare della frutta fresca al carretto parcheggiato all’angolo, poi continua a camminare pescando dal sacchetto trasparente con uno stecchino le fette di ananas, mango, papaia o anguria. Un ragazzo svolta l’angolo, mi guarda e avanza scoordinatamente verso di me. Vedendo quel che tengo in mano, alza le braccia al cielo e mi lancia un sorriso. Mi lancia il 94% del suo sorriso. Il restante 6% e’ in mano mia, nel sacchettino.



Cosa e’ successo? Cosa ho sbagliato per ritrovarmi qui, ora, con in mano questi… questi cosi?? Questa mattina mi sono alzata, mi sono preparata in silenzio, muovendomi con cautela nella penombra della camerata per non svegliare le altre ragazze, e sono scesa a fare colazione. Seduto al tavolino di fianco al mio c’era un ragazzo. “Posso togliermi una curiosita’?” Mi ha chiesto. Sentiamo. “Da dove vieni?” Da dove vieni e’ l’incipit di tutto quando si viaggia. Da dove vieni, dove sei stato e dove vai. Buffo che “come ti chiami” venga dopo queste domande, alle volte addirittura dopo ore di conversazione. Abbiamo iniziato a parlare o meglio, ha iniziato a parlare, da solo. Perche’ se mi parli rivolgendo frontalmente a te lo sguardo, i gesti, le espressioni, mentre io ti sono di fianco, a tre metri di distanza, allora stai parlando da solo. Francese, sulla trentina, indubbiamente un tipo strano. Per dirla come la direbbe Beppe: un tipo un po’ scosso. Mi ha raccontato cose interessantissime: ha fatto un quadro dettagliato della situazione politica ed economica del Laos (dove vive da dieci anni), spiegando gli sviluppi degli ultimi cinque anni, con il senso critico e gli esempi pratici di chi le cose le ha vissute dall’interno. Devo ammettere di aver perso qualche pezzo di discorso, perche’ parlava troppo velocemente, comunque era interessante. Dall’interno del locale il televisore, puntuale, ha iniziato ad erogare l’inno nazionale: le otto in punto. “Forse dovrei andare…” “Anch’io: ho un appuntamento all’ambasciata francese, prima devo fare delle fototessere, poi devo andare in ospedale e…” Ospedale?! Sebbene sia contraria ad andarci in gita turistica con la macchina fotografica al collo, sono sempre molto incuriosita dagli ospedali, vorrei entrare e vedere e chiedere, per confrontare con la realta’ che conosco. Per cui mi e’ sembrata una buona occasione, una buona scusa per varcare le porte: “Posso accompagnarti?” “Non dovevi andare via?” “Devo comprare un computer, posso farlo piu’ tardi.” “Bene allora. Dopo l’ospedale posso accompagnarti a comprare il computer per aiutarti ad abbassare il prezzo.” Perfetto! Cosi’ ci siamo incamminati assieme. Gli ho chiesto cosa dovesse fare in ambasciata e mi ha detto di dover rifare il passaporto che ha perso per la terza volta in tre mesi. Gli ho chiesto cosa dovesse fare in ospedale e ha tirato fuori dalla tasca il sacchettino: “Devo rimettere questi!” “Come, prego?” “Rimettere questi! Qui, vedi?” alzandosi il labbro con un dito, a mostrare la finestrella di denti mancanti. Mi ha spiegato di aver ricevuto un cazzotto qualche sera fa, ma non sa da chi e non sa perche’. Non ho fatto altre domande, temendo le risposte. Volevo solo vedere l’ospedale.
Tirare fuori il sacchettino per mostrarmelo e’ stato l’inizio della fine: e’ diventato un continuo posarlo da qualche parte, perderlo, cercarlo, ritrovarlo, metterlo via, tirarlo fuori per controllare che ci fosse e posarlo di nuovo inavvertitamente da qualche parte… un parto. Arrivare all’ambasciata e’ stato un parto. Alla fine ha chiesto a me di custodirlo ed ecco perche’ ho in mano un sacchetto con dentro un sacchettino, con dentro dei denti umani. Lui mi viene in contro e sorride perche’, essendosi dimenticato di averli affidati a me, era tornato di corsa all’ambasciata a cercare i suoi denti, lasciandomi in strada con un frettoloso “Ho dimenticato qualcosa” a cui non ho fatto in tempo a rispondere. “Cercavi questi? Li avevi dati a me!” “Meno male!” Eh, meno male, andiamo all’ospedale dai…
Le dieci. Camminiamo sotto un sole gia’ prepotentemente alto, la temperatura salira’ ancora e nelle prossime ore la citta’ rallentera’ ulteriormente il suo ritmo. Il bello di Vientiane e’ che tutto cio’ che serve e’ raggiungibile a piedi. Passiamo davanti a templi, ministeri, mercati, universita’, musei… e il mio compagno di strada mi spiega miliardi di cose, e’ come avere una guida, un Cicerone che passa dal raccontarti lo stile di vita della famiglia di un ministro (l’ex moglie era iparentata con chissa’ chi), al farti notare la bellezza di una casa coloniale disabitata e un po’ nascosta da manifesti pubblicitari e palazzi piu’ moderni. Sono sinceramente interessata a quel che dice, ma riesco a coglierne solo il senso generale. Di solito non ho difficolta’ con il francese, resta pero’ il fatto che non e’ la mia prima lingua e lui parla troppo, troppo velocemente per me. Parla a bassa voce e senza guardarmi, credo faccia anche delle battute, perche’ ogni tanto se la ride da solo. Una o due volte gli ho chiesto di ripetere, ma mi ha risposto irritato, per cui ho smesso di farlo: la mia Arianna non vuole condividere con me il filo del suo discorso e io cammino a casaccio in questo labirinto urbano facendo finta di niente anche quando non capisco nulla, tanto non mi fa mai domande.



Arriviamo all’ospedale e veniamo sballottati da un piano all’altro, da un ufficio all’altro, alla ricerca di un suo amico anestesista. Il sacchettino intanto e’ tornato in mano sua, per essere sventolato davanti al naso di infermiere e segretarie: “Questi, devo rimettere questi! Ma voglio che sia lui a farmi l’anestesia!”. All’ultimo tentativo, il sacchettino non compare. Si e’ smaterializzato per l’ennesima volta. Sono sicura che l’abbia messo in tasca, ma lui dice di non sentirlo. Sara’ caduto mentre venivamo qui? No, ce l’hai in tasca. L’avro’ dimenticato all’altra segreteria? Secondo me ce l’hai in tasca. Ma posso mica perquisirlo. Ripercorriamo in senso contrario gli ultimi corridoi sondando il pavimento con lo sguardo “Li ho persi! Sono arrivato fin qui e li ho persi! Mi metteranno dei denti di coniglio ora!” “Andiamo, dei denti di coniglio!! Guarda, non ti rimetteranno neanche i tuoi, ma ti faranno delle protesi, per cui non e’ grave se non li ritrovi… ” Arriviamo all’altra segreteria; mentre chiede se qulcuno abbia visto i suoi denti ripercorre i gesti fatti in quello stesso punto, la mano entra in una tasca dei jeans… e ne esce con il sacchettino. Non dico niente. Ci giriamo e torniamo all’ultimo sportello. “Non e’ possibile! Sempre cosi’, la mia vita non e’ altro che questo! Sempre!” “Chissenefrega, non ci pensare, l’importante e’ che tu li abbia ritrovati…” L’anestesista, scopriamo alla fine, e’ impegnato in sala operatoria per cui non puo’ riceverci. Ripasseremo nel pomeriggio. Nel frattempo possiamo pensare al mio computer.
Lo sbalzo termico e’ assassino quando si entra nel mercato nuovo: un palazzone climatizzato che di fatto altro non e’ che un cento commerciale, sorto ad un angolo del mercato vecchio. Il computer l’ho gia’ addocchiato ieri e ho abbassato il prezzo di una cinquantina di dollari. Con l’aiuto del mio interprete, che parla perfettamente lao, riprendiamo le trattative e riusciamo a scendere ulteriormente. Concordato il prezzo, resta solo da cambiare la lingua del sistema operativo. La cosa potrebbe richiedere del tempo. “Se hai altro da fare posso aspettare da sola…” “No, assolutamente, devo solo tornare in ospedale, ma e’ presto…” Passano dieci minuti e inizio a cogliere segni di impazienza nel suo corpo. “Vuoi andare in ospedale? Posso aspettare da sola, davvero…” “No, non voglio andarci da solo, ho paura dell’anestesia, preferisco che ci sia qualcuno…” Passano altri dieci minuti e inizia a chiedere insistentemente quanto tempo manchi alla fine “Senti, non importa, andiamo in ospedale e lascio qui il computer, posso tornare a prenderlo domani.” “No, ho detto che aspetto con te, aspettiamo!” Altri minuti. E’ sempre piu’ nervoso, irritato, si rivolge malamente alla negoziante per chiederle ancora quanto manchi “Ancora un pochino…” a questo punto si alza dalla sedia di scatto e urla “Non e’ ancora finito! Non e’ ancora finito, merda! Sai cosa ti dico? Io vado in ospedale, tu stai qui ad aspettare…” si allontana veloce a pugni stretti continuando a urlare “E’ la mia vita, cazzo! Io me ne vado! A mai piu’!” pochi secondi, poi sparisce. La negoziante e’ pietrificata, ha capito nonostante non abbia colto una parola, perche’ la sfuriata era in francese. Mi guarda, boccheggia, mi chiede “E’ tuo amico?” “Oh, non si preoccupi” “Mi dispiace, e’ che ci vuole tempo…” “Non si preoccupi, davvero” “Non posso farci niente, ma manca poco…” “Non ci pensi, non e’ successo nulla”. Faccio di tutto per convincerla che davvero non mi importa di dover aspettare: chiacchieriamo, mi faccio un giro, leggo. Invano. Alla fine, tra mille scuse per l’attesa, mi regala anche il mouse.

Sunday, May 13, 2012

Dogmatismo alimentare



Ho un rapporto immaturo con il cibo. Significa che prediligo i sapori semplici e che non ho mai imparato ad apprezzare quelli forti, come l’affumicato, l’alcool, il piccante; significa anche che ci sono tutta una serie di alimenti che non mi piacciono per partito preso. “Ma almeno assaggialo!” e’ una delle frasi che piu’ mi infastidiscono: tu preoccupati di cosa introduci nel tuo corpo, che al mio ci penso io. E’ che di alcune cose non mi fido. Magari le assaggio anche e il sapore mi e’ indifferente, ma ormai il cervello le ha catalogate come “cose che non mangio” per cui, semplicemente, non le mangio. Ad esempio: i funghi, le noci, le melanzane, il cotechino non si mangiano. E’ cosi’ e basta. Dogmatismo alimentare. C’e’ da dire che con gli anni la mia diffidenza si e’ notevolmente ridotta: da piccola scartavo i pezzetti di prezzemolo dal risotto con la forchetta “Cos’e’ questo??” con aria schifata. E mia madre “Niki, manda giu’ per favore!” con tono quasi supplice.
E’ stupido, me ne rendo conto; soprattutto viaggiando, credo che non assaggiare il cibo significhi escludersi una parte importante dell’identita’ di un luogo. Riconosco il mio errore e sto cercando di lavorarci su’.



Inizialmente in Thailandia, di fronte a menu’ completamente inesplorati, provavo un senso di smarrimento e mi rifugiavo nella mia unica certezza: fried rice, nelle sue varianti con pollo/maiale/carne bovina/frutti di mare. Quando poi ho realizzato che stavo mangiando riso tre volte al giorno (ebbene si’, anche a colazione!), mi sono decisa a prendere in mano la situazione e reagire. [Tra l’altro, una delle mie bibite preferite e’ il succo di limone… mi fa un baffo a me la diarrea del viaggiatore! Per quel che ne so potrei aver avuto il colera in forma asintomatica!] La reazione e’ stata saltare all’estremo opposto: ho iniziato a ordinare puntando il ditto a caso sul menu’ e prendendo appunti molto stupidi sul mio quadernetto, per sapere cosa evitare in futuro. E’ un rischio. Alle volte guardavo il piatto posatomi di fronte senza capire e ogni volta era di nuovo la voce di mia madre: Niki, manda giu’ per favore! Ok, mando giu’. Devo ammettere che mi e’ piaciuto sempre tutto. Il verdetto finale e’ che, per me, in Thailandia si mangia bene.
In Laos un po’ meno, perche’ e’ tutto molto piu’ in umido (la mia diffidenza e’ direttamente proporzionale al livello di umidita’ del cibo). Non male, solo un po’ meno bene, secondo me. Soprattutto se si considera come parametro di giudizio la varieta’ della scelta. Sara’ colpa mia, per carita’, ma nella maggior parte dei posti in cui ho mangiato la scelta era noudles soup. LA scelta, singolare, niente “o”: noudles soup, punto. La noudles soup consiste in una quantita’ spropositata di brodo (tipo 500-700ml!) in cui sono immersi spaghetti di riso, foglie di insalata e menta, pezzi di carne, sedano, alle volte pomodorini freschi, spezie varie. Piccante a piacere. Della cuoca. Buona, davvero, se riuscissi a fare un brodo cosi’ saporito sarei felice. Pero’, ragazzi, non se ne puo’ piu’! Questa sera ero tentata di rimanere in stanza a riempirmi di licis piuttosto che mangiare un’altra noudles soup… e invece no! Beccata anche oggi! Inoltre tutta quell’acqua da un senso di sazieta’ illusorio e dopo una mezzora si e’ da capo. Fortuna che ho della frutta qui (e con i licis sono in una botte di ferro!). Di una cosa pero’ sono contenta: ho finalmente imparato a mangiarla con le bacchette! Mezza umanita’ mangia con le bacchette, c’e’ poco da tirarsela, ma io sono soddisfatta! La prima volta e’ stata un’umiliazione pubblica: le bacchette continuavano a rigirarmisi in mano, riuscivo saltuariamente a sollevare due spaghetti di qualche centimetro, ma poi mi ricadevano regolarmente nel piatto. Tra il caldo (era pranzo), il piccante, il vapore del brodo e l’agitazione di star morendo di fame e non riuscire a mangiare quel che si ha di fronte… una sudata memorabile! Non escludo che la cuoca abbia perso dei clienti a causa mia. O forse lo spettacolo della mia pesca sportiva dello spaghetto ha attirato qualche curioso, chissa’.



Ad ogni pasto mi chiedo a quante norme comportramentali stia contravvenendo senza rendermene conto. Non ci avevo mai pensato troppo, come capita con la maggior parte delle cose ormai interiorizzate, ma la tavola e’ un campo minato di regole: non si mastica con la bocca aperta, non si parla con la bocca piena, non si tengono le mani sotto al tavolo, non si tengono i gomiti sul tavolo, non si mangia finche’ tutti non siano stati serviti, non si mangia dal piatto degli altri, non si fa rumore bevendo il brodo dal cucchiaio, non si beve il brodo dal piatto, non si lecca il piatto, non si mangia con le mani, non si rutta… e altre millemila ancora solo nell’ambito della Famiglia del Mulino Bianco, senza scomodare il galateo. Mi chiedo quale sia qui il regolamento. Ad esempio, quando mi portano la bottiglia d’acqua e non il bicchiere… se ne sono dimenticati o posso bere dalla bottiglia? E gli ossicini di pollo della noudles soup, devo risputarli nel piatto o posso posarli direttamente sul tavolo? Perche’ il mio super-io mi proibirebbe di fare entrambe le cose! Alla fine un po’ copio la gente e un po’ faccio come mi capita, tanto il mio super-io con la bocca piena non puo’ parlare.

Tavoli separati



Muang Ngoi (Laos), 1 maggio 2012

In questo tratto il fiume scorre ai piedi delle montagne, in un canale sufficientemente stretto da dare la sensazione, ad ogni curva, di un sipario che si apre al passaggio della barca. La barca e’ grossomodo una canoa a motore, dobbiamo stare seduti quasi immobili per non sbilanciarla; mi sembra ancora piu’ piccola e fragile, al centro di questa sfilata di colossi rocciosi che ci sovrastano. Il paese lasciato il giorno prima e’ sempre identico, ma ai miei occhi appare ora come una metropoli. Percorro la via centrale (l’unica via) zoppicando sempre piu’ vistosamente. Mi sembra passata una settimana dall’ultima volta che sono stata qui. Eppure solo ieri mattina abbiamo attraversato in senso opposto questo stesso paesino, siamo passati davanti a questi stessi negozi e case, ma anziche’ girare a sinistra verso il porto, da dove veniamo ora, abbiamo preso il sentiero che parte sulla destra e che collega quattro villaggi persi sulle montagne. Due giorni di trekking, piu’ il ritorno via fiume per chiudere il circuito. Tim, io e la foto del percorso stilizzato trovato sul manifesto pubblicitario di un’agenzia di trekking.
Il primo giorno e’ il piu’ faticoso, perche’ il sentiero prende quota arrampicandosi tra dossi verdeggianti e terreni bruciati dai contadini; il secondo giorno e’ il piu’ impegnativo, perche’ il sentiero non c’e’. O meglio, c’e’, ma ad un certo punto si confonde con altre mille stradine create dal passaggio di bufali d’acqua, per cui non si riesce piu’ a stabilire quale sia la via giusta (forse con una cartina vera…). Abbiamo camminato per circa 2km in un ruscello, dicendoci che, a rigor di logica, prima o poi sarebbe sfociato nel fiume ed essendo l’ultimo villaggio sul fiume, prima o poi saremmo arrivati almeno in prossimita’ del villaggio. Avanzando con l’acqua fresca alle ginocchia, ho finalmente trovato sollievo fisico dal dolore al tendine d’Achille che inspiegabilmente da qualche giorno mi tormenta; e soprattutto sollievo mentale dallo stress di dovermi continuamente staccare sanguisughe dai piedi… lo so solo io quanto ho rimpianto di non aver messo le scarpe chiuse.


Al terzo villaggio, dove abbiamo pernottato, ci siamo arrivati poco prima del tramonto. Una decina di case di legno e bamboo; cani, maiali, mucche, galline e bambini scorrazzano sulla terra secca; c’e’ una fontana che in seguito ho scoperto essere la fonte dell’acqua potabile e la doccia. Mi piace questo genere di contraddizioni: la nudita’ e’ un tabu’, per cui e’ bene che i vestiti non lascino il corpo troppo scoperto… ma la doccia la si fa sulla pubblica piazza! O forse no, forse c’e’ una profonda coerenza, dato che gli uomini si lavano in pantaloncini e le donne in pareo. Lista delle esperienze 2012: fare la doccia in pareo in piazza, spuntato. E vale doppio.
Non c’e’ stato bisogno di molte spiegazioni, non eravamo certo i primi escursionisti a passare di li’: ci e’ stato dato un posto per dormire e un pasto da mangiare. Abbiamo cenato in casa della signora che ha cucinato, circondati da un numero indefinito di figli e nipoti, incuriositi e attratti dai tatuaggi di Tim. Ho ripensato ad una ragazza svizzera incotrata qualche giorno prima a Nong Khiaw; ci raccontava di aver fatto un trekking con una guida organizzato da un’agenzia e ci consigliava l’esperienza “Attenzione pero’ a scegliere l’agenzia giusta!” diceva “Perche’ alcune vi dicono che si mangia con la gente del posto, ma poi arrivate li’ e vi trovate ad un tavolo separato! Allora mettete in chiaro subito: fatevi dire esattamente come si svolgeranno le cose nei villaggi, cosi’ se succede che loro mangiano ad un tavolo e voi a un altro, potete farlo presente…” Non posso fare a meno di immaginare la scena: “Come sarebbe a dire che questo e’ il mio posto? No, no e poi no! I patti erano chiari: mi avete garantito che ci sarebbe stato un indigeno seduto vicino a me! Ho pagato per un servizio e ora esigo cio’ che mi spetta, non intendo mangiare fino a quando non avro’ un selvaggio al mio tavolo!” …la gente e’ pazza…
La padrona di casa e’ una signora bassa e ciccionetta dai modi sgarbati, l’unica laotiana che abbia sentito gridare da quando sono qui. Non antipatica o scortese, anzi, una sorta di Zia Bisbetica (per chi ha visto Il Segreto del Nimh) premurosa nonostate le apparenze. Mi ha svegliata in piena notte urlando cose a me incomprensibili e toccando il mio pareo steso ad asciugare… Da fastidio qui? Devo spostarlo?… ma non c’era rimprovero nella sua voce; poi si e’ messa a indicare il buio e ruggire… Ci sono i leoni? Devo vestirmi e scappare?… ma il suo corpo non comunicava allarme; quando ha iniziato ad alternare i ruggiti al masticare a bocca larga, ho capito: ti conviene stendere il pareo piu’ in alto se non vuoi che le mucche vengano a mangiarlo nella notte. Ah! Grazie Zia Bisbetica! Non era difficile, era la relativita’ dell’onomatopea dei versi animali che mi fregava!
Il bello di dormire tra pareti di bamboo e’ che, se si ha la fortuna di essere in un punto da cui si vede l’alba, ci si sveglia circondati da questo:


Mi manchera’ domani mattina, quando aprendo gli occhi vedro’ banali pareti bianche. Ma ora non importa, ora voglio solo dormire. Fare una doccia nuda e dormire.

Thursday, May 3, 2012

Alla festa dell'Unita'




Nong Khiaw (Laos), 28 aprile 2012

La verita’ e’ che viaggiare con Tim e’ una figata. Perche’ ha la mente sfacciatamente libera da ogni convenzione, per cui si crea attorno delle situazioni in cui io non sarei mai inciampata da sola.
Ad esempio, sentendo provenire da chissa’ dove musica laotiana a tutto volume, se sei una persona sana di mente ti chiudi nel bungalow e ti infili dei tappi nelle orecchie; se sei me, ti dici che in fondo, per quanto sia insostenibile gia’ dopo i primi dieci minuti (perche’ e’ davvero insostenibile!), fa tutto parte della cultura del posto, quindi lo accetti passivamente; se invece sei Tim: “It’s a party!!!” e ti lanci in strada alle dieci di sera seguendo la musica. Tim, ok, probabilmente hai ragione, e’ una festa, ma magari e’ una festa privata… ecco, viene da oltre quel cancello, visto? Festa privata a cui non siamo stati invitati. Pazienzina! Ora torniamo al bungalow e cerchiamo di farcene una ragione, eh? E’ stata una bella passeggiata notturna, abbiamo visto che anche qui la gente sa spassarsela, ora possiamo tornare a casetta, eh Tim? Tim?? Tiiiim!! Ma Tim non ha sentito una parola. Tim oltrepassa il cancello che evidentemente nella sua testa non coincide con il concetto di barriera e avanza verso la gente a braccia aperte: “Heey!! There’s a party here!”
Non ho idea di dove siamo, ma a vederlo cosi’ si direbbe il cortile di un pluriuso (sicuramente non lo e’); la scalinata del capannone fa da palco a due casse giganti e ad una pianola che eroga in loop la stessa base per ogni canzone. Si tratta di un karaoke: i cantanti si alternano facendo su e giu’ tra palco e pista da ballo. Di fronte, tavolate e panche sotto a gazebo bianchi, piatti di plastica, bottiglie vuote, avanzi di cibo nei vassoi e bicchieri di non si sa piu’ chi pieni di non si sa piu’ cosa… uguale alla Festa dell’Unita’, solo stinta di rosso.



Il bello e’ che la reazione immediata al nostro ingresso in scena e’ rifilarci due bicchieri di birra e invitarci a sedere e a brindare a… gia’, a cosa brindiamo? “Cosa stiamo festeggiando?” urlo nell’orecchio del mio vicino di tavolata. “Capodanno!” Come capodanno? Di nuovo?! “Capodannoo!!” e va be’, e allora brindiamo all’anno nuovo, cosa devo farci? Ma la cosa mi convince poco…  Sono tutti vergognosamente ubriachi; un po’ per cortesia, un po’ perche’ e’ divertente, diventiamo due marionette nelle mani di una folla impazzita: bevete! Ballate! Balla con lei! Sedetevi! Bevete! Balla con me! Bevete! Riposatevi! Bevete! Balliamo! Bevete! Bevete! Bevete! Essendo completamente astemia e per giunta a stomaco vuoto, dal terzo bicchiere in poi versaro la mia birra nel bicchiere di Tim, che invece e’ allenato e rimane sobrio anche sulle lunghe distanze. Insomma, una situazione senza senso, la gente ci parla in lao e non capiamo niente, qualcuno prova a comunicare in inglese ma non capiamo niente lo stesso… ridiamo tanto, ecco, questo si’.
L’indomani mattina troviamo le stesse persone ancora a cantare e ballare in un bar del villaggio, all’ingrsso un cartello dice “unitevi a noi: oggi si mangia e si beve gratis”. Salutiamo calorosamente i nostri nuovi amici, ma ci guardiamo bene dal fermarci: iniziare la giornata a sorsi di birra e karaoke potrebbe esserci fatale. Nel posto in cui ci sediamo a mangiare chiedo informazioni alla proprietaria e pare che non sia un giorno festivo, comunque sicuramente non capodanno.
Chissa’ cosa diavolo abbiamo festeggiato.

Mostre interattive




Luang Prabang (Laos), 26 aprile 2012

I due giorni di fiume non si sono allontanati molto dalle mie aspettative: un gruppo di giovani chiusi in una barca sulla quale si e’ ricreata sin da subito la dinamica dello scuolabus: i secchioni davanti, i casinisti dietro. Ho conosciuto quella che per qualche giorno e’ stata la mia nuova coinquilina da viaggio: Rebecca, una ragazza canadese che lavora in Antartide in una base scientifica  statunitense, una di quelle persone a cui vorresti accollarti per una settimana per capire che razza di vita facciano. Tra racconti di vita quotidiana per me fantascientifici e momenti di solitudine immersa nella lettura o nella scrittura o nel semplice guardare il paesaggio che scorre, dopo due giorni sono arrivata a Luang Prabang.
Luang Prabang e’ una cittadina che si sviluppa su una sorta di penisola formata dalla confluenza del Nam Khan nel Mekong. Arrivata in Laos la prima sensazione che ho avuto camminando per strada, e’ che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’ordine delle cose. O di giusto? Non avrei saputo dirlo. Mi ci e’ voluta mezza giornata per capire che si trattava della guida a destra. Ho affittato una bici gialla e ho girato la citta’ con la ritrovata sicurezza di sapere chi ha la precedenza agli incroci (in Thailandia ogni volta era una scommessa col destino, quelle emozioni ch ti fanno sentire di star vivendo a fondo la tua vita, con tutti i rischi che questo comporta… eh, lo so, mi basta davvero poco…). Sfrecciando con la mia banana a pedali, ho dedicato le giornate alle mie due mostre interattive preferite di questo periodo: i mercati e le cascate.



La prima sera al mercato notturno di Luang Prabang e’ semplicemente meravigliosa. La merce e’ esposta su stuoie posate a terra; si tratta prevalentemente di artigianato locale: stoffe, gioielli, dipinti, lampade… ogni bancarella e’ coperta da un gazebo rosso o blu e illuminata da una lampadina che pende a circa un metro da terra. La luce e’ soffusa, i tessuti hanno colori caldi, le venditrici avvolte in quest’atmosfera magica rispondono ad ogni sguardo con un sorriso: “Sabaidii” salutano ogni visitatore, “Sabaidii”. Semplicemente meraviglioso. La seconda sera gia’ le cose iniziano a puzzare di routine; sapresti riconoscere i nuovi turisti da quella stessa scintilla di meraviglia che avevi tu il giorno prima e che non ti senti piu’ negli occhi. Inizi a chiederti fino a che punto le venditrici siano sincere nei loro sorrisi e quanto invece siano aiutate dal fatto che sabaidii finisca con una i allungata. La terza sera ci sono andata di proposito da prima dell’orario di apertura a dopo la chiusura; con sguardo disincantato, ho visto montare e smontare un teatrino che ripropone sempre lo stesso spettacolo, solo ad un pubblico sempre diverso e quindi sempre entusiata. Non che ci sia niente di male o di strano, non sto dicendo questo.  Solo che e’ buffo vedere quanto la bellezza delle cose dipenda da chi le osserva. 




Nei mercati diurni (o meglio, i mercati del mattino)  si respira tutta un’altra aria, si vende concretezza e quotidianita’: pesce e cipolle per la zuppa, non braccialetti per i souvenirs; e il pubblico ovviamente e’ un altro, sembra finalmente di aver cambiato continente! Ma anche la sera, oltre le bancarelle c’e’ un mercato “vero” all’interno di quello “teatrale”: sono gli angolini dove le donne vanno a comprarsi la cena o a consumarla o a farsi la pedicure mentre una vicina le sostituisce nel rito del sabaidii al passante. Il “dietro le quinte” e’ sul palcoscenico anche lui, ma abbagliati dalla scintilla della prima sera e’ difficile vederlo.



Per quanto riguarda la cascata (l’ennesima!) ce n’e’ una che val davvero la pena di vedere a 32km da Luang Prabang. Nonostante tutte le persone a cui ho chiesto mi abbiano scoraggiata dal farlo, ho deciso di andarci in bici, perche’ il bello e’ raggiungere le cose, non solo arrivarci. Questa volta pero’ volevo evitare di ritrovarmi da sola a sperare che piovesse dal cielo un altro Rambo, per cui sono andata preventivamente alla ricerca di un compagno di disavventure… e ho trovato Tim. Tim e’ un ragazzetto tedesco pieno di tatuaggi con gli occhi di una bellezza imbarazzante, verso il quale stavo sviluppando sentimenti quasi materni; mi faceva tenerezza, stellina, cosi’ giovane, solo in un Paese lontano… avrei voluto telefonare a sua madre: “Non si preoccupi signora, e’ con me, puo’ star tranquilla! Glielo riporto sano e salvo tra 64km”… fino a quando non ho visto il suo passaporto e ho scoperto che ha sette anni in piu’ di me. Ma, al di la’ dell’aspetto che inganna, nel suo modo di essere si percepisce una creativita’ esplosiva, fresca e disorganizzata tipicamente adolescenziale. Nietzsche: bisogna avere una caos dentro di se’ per generare una stella danzante. Ecco, quello e’ Tim. Esattamente quella roba li’.
La strada per la cascata e’ sufficientemente impegnativa se si ha a disposizione una bici da donna da citta’ senza marce. Le salite le si fa spingendo a piedi e le discese ai 300 all’ora, che ti taglieresti le mani piuttosto di toccare i freni dopo quella fatica. C’e’ da dire pero’ che il premio finale, gia’ stupendo di per se’, e’ un paradiso in seguito alla pedalata: la cascata e’ su sette diversi livelli ed e’ possibile nuotare in ognuno; l’acqua e’ di un azzurro impressionante, fresca, circondata dal bosco… come due bambini al parcogiochi senza la mamma, non abbiamo ritenuto opportuno imporci limiti di orario; la conseguenza e’ stata dover dormire in un capanno nei campi di riso per non affrontare il ritorno al buio con la stanchezza della giornata ancora nelle gambe.
25 aprile: il compimese della mia partenza! E che bel regalo l’alba sulla campagna!