Friday, January 18, 2013

Waiting for Godot

Sape’ (Indonesia), 11 gennaio 2013

Quando ho accennato al fatto che volevo andare a Flores, Michel mi ha detto “In questa stagione?? Buona fortuna!” e si e’ lanciato in racconti di maltempo, di gente che ha aspettato una barca per nove giorni, di navi che partono comunque ogni due settimane e se va bene arrivano… ma dato che aveva passato la precedente mezzora a lamentarsi di ogni cosa al mondo reale o fittizia, non gli ho dato credito e l’ho liquidato mentalmente con un “Al diavolo! Michel e’ francese, i francesi si lamentano sempre” Aspettare per nove giorni? Io?? Caro mio, proprio non mi conosci! Andra’ tutto liscio come l’olio. Ho salvato il suo numero di telefono fiduciosa del fatto che in tempo record gli avrei mandato un messaggio di trionfo, qualcosa del tipo “Hey, Mister Lagnosino… saluti da Flores!”
Flores e’ un’isola ad est di Java; a separare le due, da ovest ad est: Bali, Lombok e Sumbawa. Il mio piano era attraversare velocemente Java via terra fermandomi qua e la’ per dare una rapida sbirciata, arrivare al porto piu’ ad est dell’isola e da li’ saltare sulla prima barca diretta a Flores. Facile. Chiaro. Non fa una piega.
Arrivo a Surabaya senza difficolta’, entro negli uffici della compagnia navale che copre il tratto Java-Flores e scopro che la prossima nave parte tra cinque giorni. Cinque giorni?! Cinque giorni ad aspettare in questo postaccio? Giammai! Non ce n’e’ una per Sumbawa? Poi da li’ qualcosa lo trovo… No. Ok, facciamo un passo indietro: una per Lombok? No. Per Bali? No. Per qualunque insignificante posto a est dove valga la pena aspettare cinque giorni? No. “Pero’ potresti…” cosa?? potrei cosa?? “…potresti arrivare fino a Lombok con un pullman diretto” Scusate se non mi era venuto in mente che ci si potesse spostare da un’isola a un’altra in pullman. In effetti si puo’: si attraversa l’isola fino al porto piu’ vicino all’isola successiva e li’ il pullman sale su un traghetto e taglia cosi’ il breve tratto di mare che le separa. Perfetto allora: andiamo a Lombok! 


Il viaggio e’ lungo e non esattamente confortevole, per cui decido di spezzarlo fermandomi due giorni a Lombok per poi proseguire fino a Flores, sempre in pullman. Quando vado al terminal degli autobus a comprare il biglietto, mi accoglie in ufficio stretto stretto un signore anzianotto magro magro con un inglese sufficientemente buono da poter scambiare due chiacchiere. “Di dove sei?” mi chiede “Sono italiana” “Oh, Italy!!” gli si illuminano gli occhi, si alza dalla sedia e inizia a raccontarmi di due italiani vittime di un naufragio (credo di capire) ospitati per otto mesi (credo di capire) dalla sua famiglia quando lui era piccino, in attesa che l’Italia se li recuperasse con un’operazione di evacuazione; li ricorda con affetto, tanto da decidere in eta’ adulta di usare il loro cognome come secondo nome per tutti i suoi figli. Mi fa vedere le foto “Questo e’ mio figlio, fa il militare: Soule Rinaldi; questa e’ mia figlia: Armie Rinaldi; questa e’ la piu’ giovane: Saline Rinaldi. Rinaldi, Rinaldi, Rinaldi: tutti Rinaldi. E io, io sono il Signor Rinaldi!” Quando mi accorgo di non avere sufficienti contanti e di aver lasciato la carta di credito in stanza, il Signor Rinaldi mi consegna il biglietto e mi dice “Non importa! Me lo paghi domani prima di partire” “Vuol tenere lei il biglietto? Me lo da quando vengo a pagare” “Non ti preoccupare!” “Be’, intanto le lascio i soldi che ho qui, cosi’ manca solo una parte…” “No! E se devi comprare qualcosa lungo la strada? Non ti preoccupare: e’ come se fossi mia figlia”. L’indomani salgo sul pullman. Il Signor Rinaldi si premura ancora di salutarmi con la mano da oltre il vetro come fossi una bimba sulla giostrina, poi ferma il pullman sbracciandosi e urlando all’autista, sale, costringe il ragazzo seduto accanto a me a cedermi il posto vicino al finestrino, scende soddisfatto e possiamo partire. 


Per le prime ore il mio unico problema sembra essere uno Spongebob di peluche appeso con una ventosa al vetro frontale che mi penzola ipnoticamente davati agli occhi con un sorriso ebete. Ma quando passa abbastanza tempo perche’ l’aria condizionata crei condensa sulla superficie di plastica sopra di me, capisco che il vero problema e’ un altro: per tutta la notte una goccia di acqua gelida mi cade addosso a intervalli irregolari e non chiudo occhio; al mattino anche Spongebob ha un ghigno beffardo. Arrivo dunque gia’ con un importante deficit di pace interiore a Sumbawa, precisamente al porto di Sape’… solo per sentirmi dire che non ci sono traghetti per Flores. Trattandosi di imbarcazioni a fondo piatto, causa maltempo i traghetti non hanno autorizzazione a salpare. Prossimo bollettino: domani. Trovo una stanza a pochi metri dal porto. E aspetto.
Aspetto per tre giorni. Tre interminabili giorni bloccata in una bolla di assurdita’, in un microcosmo formato dal porto con quattro o cinque barchette mollate li’ a farsi sballottare dalle onde, la strada che arriva al porto costeggiata sui due lati da una fila di case sgangherate tra cui la mia guest house e due ristorati, e la gente. La gente che sebra allucinata e mira chiaramente a farti impazzire. Per loro le barche ci sono. Decine, forse centinaia di barche, a sentir loro. Quelli che lavorano per la compagnia dei pullman hanno interesse a farti spostare avanti e indietro, per cui c’e’ sempre una barca che sta per partire “ora! Tra pochissimo! Ma non qui: dal porto principale, devi prendere il pullman fino al porto principale!” gia’, e scommetto che dal porto principale mi diranno che sta per partire dal porto di Sape’, quindi dovro’ tornare qui ovviamente in pullman.



Poi ci sono quelli che hanno imbarcazioni private, sempre pronte a salpare per la modica cifra di “un milione: solo un milione a testa e in quattro ore sei a Flores!” ma figurati se ti do un milione! “Ok, ok, facciamo cosi’, ascolta: servono sei persone per riempire la barca. Se mi trovi sei persone, tu non paghi” certo. E poi ci sono quelli delle barche di legno, che comunque non ho intenzione di prendere; per loro “una barca sta partendo ora da Flores, arriva qui oggi alle quattro, poi dovra’ tornare indietro, quindi…” si’, anche ieri doveva arrivare alle quattro e anche l’altroieri, ma non e’ arrivata “Oh… e’ arrivata! Di notte! Ed e’ ripartita, pero’ oggi, oggi arriva di sicuro, alle quattro arriva” Ma nessuna barca e’ mai arrivata al porto di Sape’. Nessuna e’ mai partita.
Nonostante ognuno abbia una barca in bocca che sta per partire o per arrivare o che e’ al porto adesso, proprio in questo preciso momento, se vai la puoi vedere, e’ li’… e tu le prime volte ci vai anche, ma non e’ vero. Non e’ vero niente. Vai al porto e non-c’e’-nessuna-barca! “No be’, sta arrivando proprio in questo preciso momento, ora non la vedi perche’ sta passando dietro a quell’isoletta li’ davanti…” Follia pura. Ieri mi han bussato alla porta alle 6.30 del mattino per dirmi che c’era una barca al porto. E, strano ma vero, non c’era. 


Ho viaggiato per giorni. Non ore: giorni. Ho passato notti in bianco, saltato pasti e trattenuto pipi’ all’inverosimile e ora che sono a poche ore di distanza dal mio obiettivo, ecco che non lo posso raggiungere. Fino a ieri lo trovavo estremamente frustrante. Mi sono scervellata per trovare una soluzione, un’alternativa… tornare indietro fino a Bali e prendere un volo da li’? Aspettare che il tempo migliori e ripartano i traghetti? Lasciar perdere? Tornare in Italia? Mi sentivo dentro come nei film, quando sparano sui piedi a uno per divertimento e quello saltella disperato per evitare i colpi… poi mi sono accorta che era solo aria compressa e, soprattutto, che la pistola ce l’ho in mano io. Cosa sto facendo? Non mi riconosco in questo accanirmi su un piano. Il problema non e’ il tempo, non sono le barche, non e’ quel che dice la gente, il problema sono io, quindi vediamo di risolverlo.
Oggi. Non ho capito cosa mi fosse preso, ma qualunque cosa fosse oggi l’ho lasciata andare. Oggi respiro a pieni polmoni e mi godo l’assurdita’ di questo posto statico in cui nulla cambia; il vento fa correre nuvoloni pesanti e le onde si stagliano contro il molo del porto come sfondo animato di un sipario del teatro dell’assurdo, ma nulla si muove realmente. Il porto brulica di attivita’ legate al transito di barche che non ci sono e non ci saranno finche’ non cambiera’ il tempo, ma la gente fa finta che non sia cosi’.
Oggi do al destino il mio ultimatum: secondo i miei calcoli, la nave che avrei dovuto prendere a Surabaya e che ho snobbato per i cinque giorni d’attesa, dovrebbe arrivare questa sera al porto principale. Ammesso che sia mai partita. Saro’ al porto ad aspettare senza aspettative. Se il destino mi ci fara’ salire, bene, altrimenti da domani mi trova a provare il surf su qualche spiaggia qui nei dintorni… il convento ci passa onde grosse, questo non si puo’ cambiare, vediamo almeno di farci qualcosa di buono!

Ibu e Ayah



Yogjakarta (Indonesia), 4 gennaio 2013

Devo fare pena quando arrivo alla guest house che avevo premurosamente prenotato online e accolgo con un “non importa” la notizia che la mia stanza e’ stata data a qualcun altro. E va be’, posso mica chiedere che sbattano fuori un’altra persona. Ma devo fare davvero pena perche’ Ibu e Ayah decidono di aprirmi la porta di casa loro. “Nostra figlia sara’ felice” decidono.
Ibu e Ayah vivono in una casetta isolata, la porta d’ingresso si affaccia sulla strada, quella sul retro sui campi di riso che riflettono il cielo. C’e’ un che di fiabesco, la casa e’ piccina, sospesa tra le nubi, immersa in un gracchiare di ranocchie. E’ adorabile.
Ibu mi fa trovare in bagno una bacinella d’acqua calda con cui lavarmi. Il bagno e’ una cabina esterna in cemento nudo; c’e’ una vasca cubica in muratura piena d’acqua e un secchiellino con cui versarsela addosso; c’e’ un cestino di plastica vedre inchiodato alla parete con dentro tre spazzolini, un sapone e delle bustine monodose di shampoo. 



Non vedendo altra alternativa, faccio pipi’ per terra, il piu’ vicino possibile al buco di scolo, e verso abbondanti scodellate d’acqua per sciacquare. Mi chiedo come facciano per “quella grossa”. Solo a danno compiuto mi rendo conto che c’e’ una turca, perfettamente nascosta sotto la bacinella d’acqua calda e mi sento terribilmente in colpa. Brava Nicole! Questi ti ospitano in casa loro e tu cosa fai? Gli pisci nella doccia!! Complimenti!
Quando esco dalla doccia Ibu mi ha preparato la cena e Retno, la figlia ventitreenne, ha chiamato la sua amica con l’inglese migliore per intrattenermi. Sono stanca, ma cerco di non darlo a vedere perche’ pare che ognuno stia facendo del proprio meglio per… be’, per me. Cosi’ accetto anche quando Ayah si offre di accompagnarmi al tempio di Borobudur svegliandoci alle quattro del mattino per esser li’ all’alba.


Non e’ la mia sveglia a darmi il buongiorno, ma il canto dell’Imam piu’ triste del mondo che chiama alla preghiera nella moschea vicina. Salgo sul motorino che e’ ancora buio, il giorno si sveglia pian piano e l’umidita’ della notte si alza lenta dai campi velando il paesaggio di bianco. Che meraviglia. Nessun tempio potra’ mai eguagliare la bellezza di quest’alba. Vedo la mia faccia riflessa deformemente sul casco di Ayah. Che orrore. Ho gli occhi gonfi, il destro piu’ del sinistro, e uno sguardo vuoto, sono uno sfacelo… ma sono felice. Per l’alba, per il tempio, per essere stata accolta con questo calore da persone di cui non conosco neppure il nome. Ibu e Ayah sinificano Mamma e Papa’. Cosi’ si sono fatti chiamare, cosi’ li ho chiamati.
…e io, ingrata, gli ho pisciato nella doccia… mannaggia, mannaggia a me…

Monday, January 7, 2013

Il pacco postale



Bandung (Indonesia), 2 gennaio 2012

Sono arrivata a Bandung, famosa per l’outlet e per la presenza di crateri vulcanici non molto distanti dalla citta’. Tutte le persone con cui ho parlato in precedenza mi han detto che non ci sono mezzi pubblici per raggiungere i vulcani e che e’ necessario affittare un’auto. Bugia. I mezzi pubblici ci sono, basta cercarli. Mi avevano consigliato di scegliere una guest house che si occupi di organizzare servizi turistici in modo che possa aiutarmi ad affitare una macchina. La mia guest house si limita ad organizzare il cambio delle lenzuola e la pulizia dei bagni, per cui non ha problemi a darmi informazioni corrette e disinteressate. Al mattino porgo in reception un foglietto con scritto il nome del posto in cui voglio arrivare e me lo restituiscono con i nomi delle fermate in cui devo cambiare autobus. Poi esco in strada e gioco al pacco postale. 


Gli autobus non sono proprio autobus, ma minivan colorati e le fermate non sono proprio fermate ma alle volte stazioni degli autobus (dei minivan) oppure qualunque posto in cui uno faccia cenno all’autista di fermarsi. Ovviamente i colori dei minivan hanno un significato che io non conosco. Il primo che fermo e’ sempre giallo. 


Porgo all’autista il mio foglietto e via, pacco imbucato. Da li’ vengo sballottata di qua e di la’ senza che ci capisca in realta’ granche’; mi fan cenno di salire, di aspettare, di scendere, mi fan capire che e’ il minivan sbagliato, fermano per me quello giusto… guardo quanto pagano gli altri e pago di conseguenza, se tutti scendono scendo anch’io e vedo cosa succede, perche’ siamo scesi? Pare che il minivan sia rotto. Ne arriva un altro gia’ pieno oltre al massimo possibile e la gente ci si infila dentro davanti ai miei occhi increduli… come fanno a starci?? Sembra quello sketch in cui continuano ad uscire persone dalla portiera aperta di un’auto piccolissima. Solo che l’auto e’ inquadrata solo a meta’. Qua no. Nessuno esce dall’altra parte, si stanno davvero ammassando buttandosi gli uni sugli altri, persone e bagagli… io aspetto il prossimo. Che non ho mica fretta.

Jakarta



Jakarta (Indonesia), 30 dicembre 2012

E’ ancora Franck a farmi da quida, ma questa volta per le vie recondite di Jakarta.
In questo quartiere chiamato Gang, le case sono ammassate lungo i canali che drenano l’acqua nera fuori dalla citta’. Si e’ alzato il vento, qualche oretta ancora e poi piovera’; la gente sta seduta davanti alle case a godersi il vento fresco che precede il diluvio. 


Gli adulti ci fermano per chiacchierare, chi mangia ci offre il cibo dal proprio piatto. I bambini giocano con aquiloni, si rincorrono nei vicoli; ne incontro uno che tiene in braccio uno Slow Loris a cui manca un occhio e me ne innamoro. E’ diventato il mio animale preferito, con quegli occhietti (quell’occhietto) terrorizzati e le manine che ti si appendono dapperutto. E poi, che nome buffo!


Se c’e’ una cosa che ho capito e’ che gli indonesiani, in generale, adorano essere fotografati. Cammino con la macchina fotografica al collo e anche qui, come a Ciampea, la gente mi chiede di essere fotografata. Io non e’ che sia proprio la regina dello scatto spigliato, per cui qui e’ una pacchia! Tengo la macchina ben in vista e quando vedo soggetti interessanti inizio ad accarezzarla e a guardarli con occhi maliziosi. Andiamo, so a cosa stai pensando, non fare il timido, chiedimelo su’, lo so che lo vuoi… “Miss! Photo!! Photo!!” …eeh sse proprio deeevo…

La sera vado a perdermi di nuovo, questa volta da sola. A dieci minuti a piedi dal quartiere in cui sono stata con Franck, ci sono grattacieli futuristici che si riflettono gli uni sugli altri. Gente ben vestita esce da taxi o macchinoni lustri e si infila incentri commerciali dai prezzi per me proibitivi. Del temporale del pomeriggio non restano che nuvoloni arrabbiati che diventano sfumature di grigio e blu sugli specchi dei grattacieli. Scatto qualche foto e all’improvviso qualcuno in lontananza batte la mani e chiama per attirare la mia attenzione. Ecco, mi han beccata, sta a vedere che sto fotografando gli uffici del ministero di chissachecosa e non si puo’ e ora mi sgridano e mi fanno la multa e… “Hey! Hey Miss!!” alzo lo sguardo. E’ un operaio a chiamarmi “Miss! Photo! Photo!!” …se proprio devo…

Come in Congo


Ciampea (Indonesia), 29 dicembre 2012

Passo il weekend a Ciampea, il villaggio natale di Jeni. Villaggio fino a qualche anno fa, ora si e’ trasformato in un paese neanche tanto piccolo, dove nuove abitazioni crescon come funghi. “Questa e’ nuova. Quella pure. Quella fino all’anno scorso non c’era” mi spiega Franck, mentre mi guida in una passeggiata lungo la stradina che attraversa il paese. Lo ascolto attenta, lo seguo nei sentieri che si perdono tra i campi, la sua voce pacata mi racconta i raccolti degli anni passati, la rotazione delle piantagioni “Qui l’anno scorso era riso, quello prima tapioca”.


E’ stagione delle piogge, il cielo e’ sempre sull’orlo del pianto, ma riesce quasi sempre a trattenersi fino al pomeriggio; nell’aria si percepisce quell’energia concentrata da bassa pressione e la terra e’ un’esplosione incontenibile di verde. Mi ritrovo a ripensare a mio zio Manos, a quella volta che per spiegare quanto e’ ricco il Congo non ha parlato dei diamanti, dell’oro o del coltan, ma ha detto soltanto: “In Congo, se ti cade un seme, cresce una pianta”.
La casa ha due stanze, ma Jeni mi invita con una certa insistanza a dormire con loro. Non ne vedo il motivo, ma non mi oppongo. Poi da quel che dice credo di capire che non vuol che dorma da sola per via dei fantasmi. Cosi’ dormiamo tutti assieme in una sola stanza, su materassi posati a terra, nella notte afosa popolata di zanzare, animali notturni e spiriti. Proprio come in Congo.

La mia Lonelyplanet

Jakarta (Indonesia), 25 dicembre 2012

 Se hai tempo e liberta’ di movimento, la cartina dell’Indonesia ti manda fuori di testa. Isole, isolette e puntini di terra sparpagliati qua e la’ come briciole di cracker su una tovaglia azzurra. Come si fa a non desiderare di vederle tutte? Di saltare dall’una all’altra con eleganti balzi da ballerina? Adesso, subito, andare dappertutto… No Nicole, resisti, che dappertutto non si puo’, non basta una vita. Non partire a caso, non far cazzate: aspetta che si sviluppi un’idea. Ok, temporeggio. Ed ecco che tutto succede.
Prima conosco Tony che, entusiasta di mostrare la propria citta’, mi carica sul suo motorino e mi presenta Jakarta, arricchisce le didascalie al museo nazionale, dove la gente va a godersi il fresco sedendosi e sdraiandosi a terra, mangiando e chiacchierando, e quasi ci si dimentica di essere in uno stanzone sotterraneo e ci si sente come ad un grande picnic su un prato il lunedi’ di Pasquetta.
Poi succede che mi fermo a chiacchierare per strada con un gruppo di persone e in mezzora Franck e Jeni, una coppia franco-indonesiana, mi invitano al villaggio natale di lei; Pamela, una ragazza newyorkese trasferitasi in Indonesia da diversi anni, riesce ad inculcalmi con un’abilita’ tipo Inception il desiderio di raggiungere un’isola in particolare; e Jhorgi, un ragazzo della mia eta’ meravigliosamente tamarro decide che deve scarrozzarmi in giro con la sua macchina nuova per farmi vedere Jakarta by night, cosi’ mi ritrovo a girare tra in grattacieli illuminati in un’auto con i lampeggianti blu, le casse nel bagagliaio che vibrano come tamburi e un piccolo schermo sul cruscotto su cui ragazze in bikini sculettano sulle note di Whistle dei Flo Rida. Jhorgi mi chiede mille volte se ho sete e se dico di si’, in un attimo mi ficca in mano una bottiglietta d’acqua. E se dico di no, in un attimo mi ficca in mano una bottiglietta d’acqua. Perche’ bere fa bene, mi dice. E le proteine fanno bene, e mi compra un sacchettino di piccole uova di uccello sode. E devi provare il cibo indonesiano, e compra e mi rifila qualunque cosa. “Indonesian good people!” mi dice “Are you glad?” “Well… yes… I suppose” “If you are glad, I am glad!” Grattacieli, lampeggianti blu, whistle baby, whistle baby.


Ma il mio preferito, il migliore di tutti, e’ Bobby. Artista e musicista per passione, Bobby fa il turno di notte nella guest house in cui sono ospite (non quella delle bestiole, l’ho cambiata!). Ho mandato all’aria il mio ritmo circadiano pur di rimanere qualche ora a disegnare con lui la notte e quando gli ho detto che vorrei andare a Flores, l’isola di cui e’ originario, gli si sono illuminati gli occhi e si e’ inciampato in una serie di “Davvero?? Davvero vuoi andarci? Oh, Flores e’… e’ cosi’… e poi la natura… e… no, devi vederla, devi vederla assolutamente!” mi ha offerto ospitalita’ da sua madre “Vive in una casa di bamboo, e’ semplice, ma se per te non e’ un problema puoi starci quanto vuoi”. Non ne abbiamo piu’ parlato, fino a pochi minuti prima che partissi: “Non mi sono dimenticato!” ha preso un pezzo di carta, ci ha scritto al centro un nome e una localita’ “Questo e’ il nome di mio fratello, se arrivi in paese chiedi di lui, lo conoscono tutti” poi, sull’angolo in alto a destra ha scritto “Questa e’ Nicole, viene dall’Italia. Se la incontri, servila” e ha firmato. E… non e’ bellissimo?? Saro’ scema io, ma lo trovo meraviglioso.



Thursday, January 3, 2013

Le bestiole nella testa (come iniziare bene)

Jakarata (Indonesia), 24 dicembre 2012

Quando atterro all’aeroporto di Jakarta, la mia preparazione non va oltre all’avere una vaga idea di dove si trovi Jakarta sulla cartina dell’Indonesia. Ma questo non e’ un problema: ho a disposizione abbondanti ore di luce per raccapezzarmi. Arrivo con un debito di sonno e di riposo considerevole. E anche questo non e’ un problema: basta trovare una sistemazione alla veloce, buttarcisi dentro e spegnersi fino ad avvenuta ricarica. L’unico vero problema sono i Queen. Perche’ se hai passato senza soluzione di continuita’ ventiquattr’ore in un treno indiano, poi trenta (record!) nella sala d’attesa dell’areoporto di Mumbay, poi non so bene quante di volo con un vicino logorroico che non ti ha permesso di chiudere occhio, allora e’ importante che ci sia una comunicazione lucida tra il corpo -che ha bisogno di riposo- e la mente -che deve affrettarsi a metterlo nella condizione di poter riposare-. Con i Queen questa lucidita’ si perde.
Arrivo in centro citta’, scendo dal pullman e anziche’ chiedere informazioni mi metto a camminare in una direzione a caso sotto il sole tropicale delle 13, lungo uno stradone chilometrico, con lo zaino pesante, perche’ sto ascoltando “Don’t stop me now”; ci sono le palme, ci sono i grattacieli, c’e’ Freddy, sono felice e commetto l’errore di sentirmi carica di un’energia che in realta’ non ho. Qundo me ne accorgo ed, esausta, mi decido a smettere di vagare a caso, sono troppo lontana da zone di interesse turistico per cui nessuno sa darmi indicazioni in inglese o capire cosa diavolo stia chiedendo. Questo mi rallenta di precchio, ma alla fine riesco a trovare una camera; e’ l’ultima rimasta (gia’ che e’ Natale!), e’ minuscola ma pur sempre una stanza, accetto, pago e mi ritiro con gioia “nei miei appartamenti”.
La solitudine amplifica tutto. Paura, tristezza, commozione… e’ piu’ facile prender tutto un po’ troppo sul serio quando si e’ da soli. Quando mi chiudo la porta alle spalle resto sola con i miei pensieri e subito mi convinco di una cosa.
Ci sono un sacco di leggende metropolitane che spopolano tra i viaggiatori, alcuni ne parlano, tutti ne hanno sentito parlare da gente che racconta in prima persona o in terza o anche in quarta e quinta alle volte. Una leggenda (che possa esser verita’ non e’ da dubitare; ma proprio in questo consistono le leggende metropolitane) e’ quella dei bagagli rubati dal bagagliaio del pullman durante un viaggio notturno; un’altra e’ quella di esser stati drogati a propria insaputa con qualche pastiglia sciolta nel bicchiere da cui si stava bevendo; un’altra ancora e’ quella delle cimici dei letti.
Sono sola in una stanza microscopica, ci sono un letto singolo, uno scaffalino, un ventilatore e basta, niente finestre, null’altro: di fatto solo io e il letto. Lo guardo. E ho la certezza: ci sono le bestiole. Non ho prove, ma me lo sento: ci sono le bestiole nel letto. Inizia una sorta di dialogo tra la mia razionalita’ e me, cerco di dirmi che “non c’e’ ragione per credere che ci siano le bestiole” “Ma potrebbero esserci!” “Avrebbero potuto esserci in qualunque materasso su cui hai dormito fin ora, ma non ci sono mai state” “Eh, ma questa volta ci sono!” “Cosa te lo fa credere?” “Eh, me lo sento!” “Perche’ te lo senti?” “Eh, no, non e’ che me lo sento: e’ che ci sono!” la mia razionalita’ riesce a convincermi a rimandare il problema e andare a mangiare… forse basta distrarsi un attimo per vedre le cose piu’ lucidamente.
Mangio, mi lavo, chiacchiero, uso internet, torno in stanza quasi convinta che non ci sia alcun problema; chiudo la porta, guardo il letto e… “Ci sono le bestiole” Turna?! Combattere contro le proprie convinzioni e’ dura, e’ come amputarsi un arto da soli, e’ troppo, non ne ho la forza ora. Cosi’ assecondo i miei deliri e la prima giornata in Indonesia si chiude con una stanza microscopica, un letto singolo intatto e una misera me buttata a dormire sui propri vestiti distesi a terra. 


Fa un caldo porco, ma punto il ventilatore verso il letto vuoto in modo da creare un flusso di corrente che impedisca alle bestiole di saltarmi addosso (si’ perche’ nel frattempo sono diventate dei mostri assassini pronti all’agguato) e come ulteriore misura preventiva copro ogni centimetro di pelle. Perche’ se c’e’ una qualita’, anzi, un superpotere di cui la natura mi ha generosamente dotata e’ quello di patire il freddo anche con quaranta gradi. Ed ecco che finalmente posso trarne vantaggio.

Un cattivo amante





 Cherai (India), 20 dicembre 2012 

Nonostante lo scarso tempo a disposizione, decidiamo di spostarci ulteriormente a sud per raggiungere Kate, la ragazza russa che assieme a Martin e ad Aritz ha fatto parte della mia “famiglia itinerante” per un pezzetto di strada.
Durante il viaggio in treno, ad un certo punto lascio il mio posto per andare in bagno, ne esco e lungo il corridoio trovo Martin in piedi di fronte alla porta aperta che fuma una sigaretta guardando fuori. “It’s beautiful here!” mi dice; io mi avvicino per guardare, lui si sporge per farmi spazio ma un piede gli scivola, perde l’equilibrio e vola fuori. Con un gesto atletico anche piuttosto elegante riesce ad aggrapparsi alla maniglia del treno, rimane a penzoloni qualche secondo, poi fa forza con le braccia, si tira su’ ed e’ di nuovo in piedi di fronte a me. Pallido. Io lo guardo e riesco a dire solo “Martin!!” con un blando tono di rimprovero, poi mi giro e torno a sedermi. Rimango un attimo in stato catatonico e rivedo tutta la scena e quando lui viene a sedersi di fronte a me ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Rido fino alle lacrime. Uno dei momenti piu’ surreali della mia vita. Una scena tratta da un film d’avanguardia in cui dialoghi, azioni e reazioni non c’entrano nulla gli uni con gli altri. Uno fa un tiro di sigaretta, “bello qui!” e… hop! si lancia giu’ da un treno in corsa, senza urlare, senza sguardi di terrore, nulla; e la reazione dell’altra e’… di fatto nessuna, l’altra rimane assolutamente immobile, inespressiva, esterrefatta, non sussulta, non allunga una mano, nulla. E dopo che lui ha rischiato di morire, lei rompe il silenzio “Martin!” con lo stesso tono che userebbe con un bambino che abbia, chesso’, ruttato al ristorante, poi se ne va come se nulla fosse successo. E fortuna che non e’ successo nulla! Va be, andiamo dalla russa… 



Bello ritrovare qui Kate dopo averla salutata in Cambogia, fa sembrare il mondo un po’ piu’ piccolo. Veniamo ospitati nella casa che divide con due ragazzi russi, Ivan e Vladimir e per qualche giorno riscopro il piacere delle faccende di domestiche. Come cucinare, passare la scopa, fare la spesa… puo’ sembrare assurdo, ma mi mancava. Non che non sia mai entrata in un negozio a comprar qualcosa, ma mi mancava comprare il sale grosso, l’olio, il detersivo dei piatti… quelle piccolezze che fanno tanto casa. Non solo Martin ed io passiamo momenti interminabili a prometterci di cucinarci i nostri piatti forti con un entusiasmo quasi infantile, ma addirittura arriviamo a scattarci le foto al supermercato, mettendoci in posa davanti agli scaffali col carrello… momenti intensi!



Qui, nello stato di Kerala, consumiamo gli ultimi giorni in India alternano casa, spiaggia e compagnia di amici di amici. Dunque, e’ finita l’India. E forse posso azzardarmi a dire che e’ finita bene, tutto sommato. Ripenso ai primi giorni in questo Paese, cerco di mettere sui piatti della bilancia l’amore e l’odio… ma e’ come se fosse tutto amalgamato, fastidio intensissimo e ugualmente intensa ammirazione. Alla fine devo dar ragione a Paul, come sempre. Quando all’inizio mi lamentavo di quanta energia ti toglie questo Paese e mi chiedevo se ci sarei mai tornata, Paul mi ha detto “Hai ragione, l’India toglie tanto. Ma da anche tanto in cambio. Vedrai che alla fine deciderai di tornarci, perche’ l’India e’ come un cattivo amante: per quanto ti maltratti, ogni volta ti ritrovi a desiderare di rivederlo”.
E allora saluto il mio cattivo amante con la promessa di un addio che non sapro’ mantenere, Kate con un arrivederci, Martin con un “promettimi di non buttarti giu’ dai teni in corsa”. E continuo da sola.