Saturday, April 27, 2013

Guido la macchina e Remo la barca



Gunungstoli o come diavolo di scrive (Indonesia), 19 aprile 2013

Devo prendere una barca alle 22.00.
A Nias non ci sono pullman: ci sono “auto in condivisione”, in genere monovolume da cinque o sette posti; le si puó fermare quando ti passano davanti oppure, come ho fatto io, procurarsi il numero di telefono dell’autista e fissare un appuntamento.
Sono a poco piú di due ore di strada dal porto e decido di fissare l’appuntamento alle 13.00. Se fossi altrove, dovrei pormi il problema di cosa fare dalle 15.30 (presunta ora di arrivo al porto) alle 22.00 (presunta ora di partenza della barca), ma non sono altrove, sono qui, e mi rendo perfettamente conto che con la mia scelta corro il rischio neanche troppo remoto di perdere la barca.
Se il mio amico Lamoni mi chiedesse di nuovo adesso cosa faccio tutto il giorno, gli direi che alle volte semplicemente aspetto.
Arrivo al punto concordato con l’autista con un ridicolo anticipo di dieci minuti. Lui arriva con un ritardo di due. Minuti? No: ore. Sono l’unica passeggera, o meglio, la prima, il ché é un pessimo segno: significa che saró incastrata nella ricerca degli altri passeggeri sin dall’inizio; giá, perché l’auto non parte se non quando é piena… ma voglio vedere il bicchiere mezzo pieno: ringrazio il cielo che si tratti di un cinque posti e non di un sette o, peggio ancora, di un pullman della Sadem, che in tal caso partiremmo tra una settimana…
Dunque, alle ore 15.00 carico in macchina zaino e positivitá e partiamo. Alle ore 15.10 la macchina si ferma a bordo strada di una via trafficata. “Sorry Mister, wait 20 minutes here!” non ho piú le energie per correggere tutti quelli che mi chiamano Mister: Miss, Mrs, Mr, Sir, Guy… whatever! “Ok, no problem!” Certo, lo so che quel che é uscito dalle sue labbra come un venti munuti aumenterá di volume come le bolle d’aria che escono dalla bocca di un immersionista e salgono in superficie, fino a raggiungere le proporzioni di un’ora. Minimo. Ma non importa, perché lo so che non lo fa con cattiveria o malizia, non é inganno o bugia: é lo stesso spirito con cui si risponde al messaggio “Sono qui sotto!” con il messaggio “Scendo subito!!” mentre si esce dalla doccia… chi non l’ha mai fatto? non saró certo io a scagliare la prima pietra su quest’uomo adesso! Aspetto.
Un’ora dopo siamo ancora lí; mi infilo nel bar di fronte al quale siamo parcheggiati e al secondo sorso di te al limone l’autista entra agitato “Sorry Mister, we go!” “Now?” “Now!”
Ammetto di essere la prima sostenitrice del tutto all’ultimo minuto, ma in Indonesia la gente ha superato questo concetto, elevandolo all’arte de L’aspettare che sia troppo tardi, che é un minuto dopo l’ultimo minuto. Si puó stare un’ora di orologio a guardare il traffico fumando sigarette e d’improvviso “é tardi, dovevamo andare prima! Andiamo adesso!” “…ma il mio te al limone…” “Adesso!!” “…ma stavo…” “ADESSO!!” Mi lancio in macchina, lui sbatte le portiere e in un attimo stiamo girando come cani affamati per le strade del paese. Per un’altra ora.
Quando ci fermiamo e mi dice di nuovo “Mister, wait 10 minutes here”, siamo di fronte allo stesso bar di prima. Che un po’ viene da chiedere “Guido, ma mi pigghi pu culu??” non potevi lasciarmi ad aspettare qui? ma non lo chiedo: aspetto.
Alle 17.30, partiamo davvero e imbocchiamo la strada che esce dal paese. Ce l’abbiamo fatta? Che sia la volta buona? Ovviamente no: dobbiamo fermarci a fare benzina, poi a mangiare (che nel frattempo si é fatta ora di cena), poi a fare pipí… morale della favola, arriviamo al porto alle 21.00.
In largo anticipo, dato che la mia nave parte tra un’ora! Piú probabilmente due, mi dico, ma anche su questo mi riveleró patologicamente ottimista…


La barca. La barca é un mezzo di trasporto facile: sali, parte, arriva, scendi. Non ci sono passeggeri da cercare, non bisogna far benzina o cambiare le gomme… Mi addormento in terza classe sdraiata su quattro sedili con gli auricolari nelle orecchie per coprire le voci della gente che chiacchiera, il pianto dei neonati, la musica degli altoparlanti e le urla dei bambini del paese che passano carichi di cestini di plastica a vendere snack sulle navi ferme al porto. Il mare é piatto, dai finestrini entra aria fresca ed esce il fumo delle sigarette. Mi lascio alle spalle con sollievo l’interminabile giornata in auto: domattina saró finalmente a Singkil.
Al mattino, quando mi sveglio la barca é giá ferma. Guardo fuori e di una sola cosa sono sicura: questo non é il porto di Singkil. Oh no… dove diavolo sono?? Non ne ho la piú pallida idea. Potrei essere finita ad Honolulu per quel che ne so! Come é successo? E cosa esattamente é successo?
Onestamente, sono stanca e in modalitá non comunicativa, non ho la forza per investigare. E in fondo, a quale scopo? Ok, non so dove sono, ma sto bene, ho dell’acqua, dei biscotti e dei soldi: posso affrontare qualunque problema; con calma, quando saró scesa, cecheró di capire la situazione e decideró il da farsi. Aspetto.
Aspetto per ore. Ore in cui nessuno attorno a me accenna a prepararsi a scendere e, come scopro uscendo sul ponte, nessuno ha iniziato a scaricare il carico. Intanto l’interno della barca inizia a ricordarmi i dormitori in Malesia e all’esterno il sole picchia violentemente sul metallo. E’ passato mezzogiorno e ancora non so dove sono.
La risposta arriva sottoforma di una bambina che passa tra i sedili con un cestino colorato pieno di bottiglie d’acqua e snack da vendere. La guardo, mi guarda, mi sorride e non ho dubbi: la conosco. E la conosco sí, é la stessa da cui ho comprato l’acqua e i biscotti ieri sera! Questo significa che… non é possibile… guardo fuori di nuovo, riconosco le sedie di una zona d’attesa… é possibile sí: é lo stesso porto di ieri! Non ci siamo mossi! Ho passato la notte su una nave ferma!! Mi sento una deficiente… come e’ potuto succedere? Dopo Guido, tu quoque, Remo!!
Da pezzi di conversazione che cerco di decifrare e pezzi di risposte alle mie magre domande, credo di capire che il motore é guasto, stiamo aspettando un pezzo di ricambio che dovrebbe arrivare dalla capitale; partiremo per Singkil alle sette di sera. O arriveremo a Singkil alle sette di sera. O il viaggio per Singkil dura sette ore, di sera. O adesso sono le sette di sera… ma che ne so! Come si fa a capire o farsi capire in una lingua in cui a che ora, quante ore e che ore sono si dice allo stesso modo??

 
Presente quei sogni in cui si deve andare da qualche parte e per un motivo o per l’altro non si riesce mai a partire? Qui é uguale, ma non ci si sveglia mai. Ah, questo Paese! Questo Paese che adoro, ha imposto lui non solo i tempi, ma anche le destinazioni di quasi ogni mio spostamento al suo interno. E in realtá a me va bene cosí.
Alle dieci di sera, dopo aver passato ventiquattro ore ad aspettare un pezzo di ricambio che, diciamo la veritá, non arriverá mai, riesco a farmi cambiare il biglietto e salgo sulla nave di fianco alla mia. Il mio nuovo biglietto dice che sto andando a Sibolga. Ma Dio solo sa dove saró domattina.

Scogli a grattugia





 Sorake Beach (Nias, Indonesia), 12 aprile 2013

Nias é un’isola a ovest di Sumatra. Nel sud, a Sorake Beach, una fila di case sulla spiaggia offre stanze e ristoranti ai surfisti. C’é un po’ di desolazione nell’aria, forse il posto non si é mai ripreso del tutto in seguito allo tzunami del 2004, che oltre ai danni alle costruzioni ha portato ad una modifica del fondale e quindi delle onde… pare che da li’ i visitatori, precedentemente attratti da onde difficili ma spettacolari, si siano ridotti notevolmente. Ciononostante, Nias viene ancora considerata uno dei paradisi del surf. Nessuno si premura di aggiungere che é l’inferno dell’aspirante surfista. Bé, lo dico io.
Non sono mai stata quella che viene scelta per ultima quando si fanno le squadre. Diró di piú: credo di aver sempre mantenuto una qual certa dignità alla prima lezione di un po’ tutti gli sport che ho provato in vita mia. Poi ho voluto provare il surf e ho rovinato tutto. Ma devo dire che l’umiliazine pubblica é l’ultima cosa di cui ci si preoccupa mentre si rischia di affogare…
Fondale di scogli aguzzi, acque poco profonde, australiano che mi dice “Ti insegno io se vuoi!”dí di no, per l’amor del cielo, dí di no, solo un idiota proverebbe qui per la prima volta… “Sí, grazie!” onde giganti, correnti, l’australiano che mi dice “Quando sei pronta ti aiuto io a prendere la prima onda. Paura?” dí di sí, per l’amor del cielo, dí di sí, solo un idiota lo farebbe davvero… “No!” “Ragazza coraggiosa! Ecco che arriva la tua onda!” e via, partita, cosí. Portata dall’onda per metri e metri e metri e ancora metri e… mi avesse anche detto come fermarmi, mannaggia a lui! Ho avuto il sentore che dovessi buttarmi in acqua ad un certo punto, ma l’ho avuto quando l’acqua era giá troppo poco profonda: era chiaro che buttandomi mi sarei grattugiata sugli scogli… e allora, volpona, ho aspettato ancora. Perché é risaputo che l’acqua diventa piú profonda quando si va verso riva. Ad ogni modo, a un certo punto mi sono fermata e quando l’australiano mi ha raggiunta era anche piuttosto orgoglioso di me “Sei andata lontanissimo!! Divertente, eh?” sí, se ti fa ridere il sangue… 


Non sono certo stati due graffi a impedirmi di provare una seconda e una terza volta. La seconda volta ho passato venti minuti a tentare di spostarmi contro corrente, retrocedendo di dieci metri ogni volta che fermavo le braccia per recuperare dalla fatica di aver avanzato dieci centimetri… sono uscita dall’acqua senza neanche aver raggiunto le onde.
La terza volta ho provato a giocare sporco: il surf é estenuante, proviamo il bodyboard, cosí posso usare le gambe anziché le braccia. “Il bodyboard é facile, puoi venire con noi sulle onde grandi!” mi ha detto un altro australiano. Ho passato molto piú tempo sotto le onde grandi che sopra. Ho capito perché il mio cordino troppo lungo non andava bene quando me lo sono trovato attorcigliato attorno al collo… va bé, mi sono detta, tanto sei sott’acqua, non potresti respirare comunque… magra consolazione.
Insomma, ho passato quindici giorni a Nias. Tre in acqua. I restanti sull’amaca, che e’ meglio.

Wednesday, April 24, 2013

Moscerini



Singkil (Indonesia), 3 aprile 2013

Ho accettato l’invito di un ragazzo conosciuto al ristorante. Mi ha portata in scooter a casa sua, mi ha fatta entrare, é andato a recuperare un suo amico perché non restassimo soli senza testimoni e ora chiacchieriamo tutti e tre seduti a terra aspettando che ci raggiungano delle ragazze chiamate apposta per non farmi sentire a disagio. Non mi sento a disagio. E’ sera. La porta é aperta, noi vediamo la strada, la strada vede noi. Zanzare e moscerini entrano a decine, attratti dalla luce accesa, alcuni si posano a terra sulle piastrelle bianche, altri restano a ronzare freneticamente attorno alla lampadina. Un geco avanza sul soffitto verso la cena.
“Come si chiamano questi in italiano?”
“MOSCERINI”spiego
“Ahahahah!! Come il vostro presidente!!”
“No… lui si chiama Napolitano…”
“Ex presidente!”
“Ciampi?!”
“No, prima, prima, uno vecchio!”
“Intendi mica Mussolini???”
“Sí! MOSCERINI, ahahahah!!!”
Rimango sempre colpita dalla quantitá di conoscenze che ha la gente qui riguardo l’Italia o l’Europa in generale. Ok, “Moscerini” é uno che ha fatto parlare di sé abbastanza da ricordarne seppur vagamente il nome (e ancora piú vagamente la carica), ma mi é giá capitato che mi si chiedesse delle ultime elezioni in Italia durante un viaggio in pullman, ho saputo da un indiano musulmano delle dimissioni del Papa, mi é stato chiesto di confermare le origini italiane di Carla Bruni, il risultato di svariate partite di calcio… rimango sempre stupita di fronte al riflesso della mia ignoranza rispetto all’Asia.

Tungsteno



 Palambak (Indonesia), 30 marzo 2013

Le Pulau Banyak sono un gruppo di isolette a nord-ovest di Sumatra. C’é chi dice siano novantanove, chi ne conta solo trenta e qualcosa… poco importa: il nome é un buon compromesso e mette d’accordo tutti: Pulau Banyak significa infatti tante isole.
La quantificazione delle isole pare essere un problema diffuso in tutta l’Indonesia, il ché potrá sembrare strano: sapiamo quanti protoni ci sono nel nucleo di un atomo di tungsteno, possibile che delle isole ci mettano ancora in difficoltá?? Il fatto é che qui non si tratta di una semplice questione di cifre: perché limitarsi alla rigiditá della matematica senza prendere in considerazione l’estetica del numero? C’é un gruppo di isole a nord di Flores, sono incontestabilmente piú di venti, ma dato che il 17 agosto é festa nazionale, si é deciso di chiudere un occhio e chiamarle Tujuh Belas Pulau: le Diciassette Isole. Dunque, se proprio c’é bisogno di numerare le Pulau Banyak, perché non scegliere un numero che sappia di qualcosa? Tipo novantanove.


Le Pulau Banyak non sono molto battute dai visitatori. Alcune sono abitate, poche offrono sistemazioni per eventuali turisti, tra queste vi sono un costossisimo surfing camp e un centro di conservazione per tartarughe marine che puó ospitare volontari.
Ho scelto un’isola, Palambak, e qui mi sono fermata, evitando di rimbalzare insensatamente da un’isola all’altra con barchette rumorose e inquinanti. Rinunciare per preservare, lo stesso motivo per cui ho deciso di non andare in Papua (“Ma in Papua si possono ancora vedere gli indigeni!!” appunto, lasciamoli stare).
A Palambak non c’é nulla, se non quattro bungalow, un bagno e una cucina. Tanto sole, tante palme, mare, spiaggia e tanto silenzio.
Adoro questa luce, adoro i colori che accende e il modo in cui i temporali lontani fanno colare il cielo fino al mare.
Mi piace immergermi in questo azzurro, rimanere a galleggiare supina sotto al sole, ad occhi chiusi… quando li riapro il paesaggio é desaturato; non proprio un bianco e nero, ma quasi; poi piano piano la luce si toglie dai miei occhi e va a ridare colore alle cose, fino a saturarle di blu.

Monday, April 22, 2013

Infinite immagini dopo la virgola



Tuk Tuk (Indonesia), 25 marzo 2013

Oggi stavo camminando scalza, concentrando lo sguardo sul terreno per controllare dove mettessi i piedi, quando, senza motivo, ho notato la mia ombra e mi sono trovata a formulare questi pensieri:
1.Sto camminando quasi senza proiettare ombra.
2.Ogni 21 marzo i raggi del sole colpiscono perpendicolarmente l’equatore.
3.Sono a poche centinaia di chilometri a nord dell’equatore e oggi è il 25 marzo.
4.Oggi è il 25 marzo.
5.E’ passato un anno esatto dal giorno della mia partenza.
Un anno, un giro di Terra attorno al sole. Eppure sembra un giorno, una giravolta di Terra su se stessa.
Il giorno della partenza e questo giorno mi sembrano a un primo sguardo vicini come l’1 e il 2. Ma se mi soffermo a pensare a cosa ci sia lí in mezzo, esattamente come tra l’1 e il 2, vedo una distanza virtualmente infinita: infinite immagini dopo la virgola. Mi piacerebbe averne alcune davanti a me, catturate in piccole istantanee, ne farei un grande collage; se fossero immagini “introspettive”, in grado di rappresentare graficamente emozioni o idee, basterebbe guardarle per avere una lettura chiara, profonda e immediata di tutto quel che significano.
Mi ero ripromessa di celebrare questo anniversario fermandomi a pensare per ricavare qualche considerazione da questa esperienza. Ebbene: non ne sono in grado! Ma me ne rendo conto solo ora: serve il famoso passo indietro per contemplare il quadro. Serve la distanza. E magari una bella cornice.
Abbandonata l’idea delle considerazioni intelligenti, ho deciso di concedermi un regalo oggi: una meritatissima lista! (Non posso credere che in un anno sia riuscita a trattenermi dal pubblicare una lista in questo blog…) Dunque:



LISTA DELLE 10 PICCOLE AZIONI A CUI PENSO CON VELATA NOSTALGIA E CHE ORA MI PAIONO NON SEMPLICE COMFORT MA PURA MAGIA ELENCATE SECONDO PRIORITA’

- fare la doccia con acqua calda;
- bere l’acqua del rubinetto;
- buttare la carta igienica nel cesso;
- avere un appuntamento (inteso come dover incontrare taluno alla talora in talposto);
- consultare gli orari di mezzi di trasporto pubblici e (addirittura!) poter riporre un buon 90% della mia fiducia in quel che predicono (ok, 75% per i treni);
- leggere il prezzo della merce sul cartellino e non doverlo discutere con il venditore (questo mi fa venire i brividi solo a pensarci);
- vedere come, on line, ad un mio click del mouse segue un cambiamento quasi istantaneo sullo schermo del computer.
- rispondere al citofono (“Chi é?” “Posta!”)
- inserire vestiti sporchi ed estrarre vestiti puliti dalla lavatrice (avevo davvero abbastanza vestiti da RIEMPIRE una lavatrice?!);
- utilizzare il 100% delle mie capacitá comunicative, il ché implica il non dovermi portare appresso una penna e un foglio per disegnare quel che non so esprimere a parole (ma questo lo lascio all’ultimo posto, perché in realtá mi diverte).

Un'isola su un'isola



Tuk Tuk (Samosir Island, Indonesia), 20 marzo 2013

Sono tornata in Indonesia. Sono su un’isola su un’isola. Meglio ancora: c’é un’isola su cui c’é un lago in cui c’é un’altra isola su cui c’é un altro lago. La prima isola in questione é Sumatra e il lago é il Toba Lake, formatosi a seguito di un’enorme esplosione vulcanica che pare abbia dato origine a quel che oggi é un lago circolare con un isolotto al centro: Samosir Island.
A dire il vero Samosir non é proprio un isolotto, é molto piú grande di quanto mi aspettassi. Ma questo é un problema che ho da quando sono arrivata in Indonesia: qui non ho il senso delle proporzioni; nonostante siano passati ormai quasi tre mesi é come se la mia mente non si fosse ancora rassegnata ad accettare l’Indonesia per quel che é: un Paese enorme, in cui le distanze sono ulteriormente dilatate dal mare per quanto riguarda gli spostamenti tra le varie isole e dalle condizioni delle strade per quanto riguarda quelli terrestri. 


Samosir é moderatamente grande, relativamente montuosa, indubbiamente tranquilla.
Ci sono alcuni villaggi remoti nascosti sulle montagne nella parte centrale dell’isola e paeselli lungo la costa, collegati da una strada circolare che percorre tutto il perimetro di Samosir. Ma, date le condizioni in alcuni punti piú che scadenti della strada, per gli spostamenti lunghi la via d’eccellenza é il lago.
La prima cosa che colpisce di questo posto é la pace. Si respira una strana tranquillitá, silenzio e lentezza. La notte é piacevolmente fresca e all’alba nuvoloni di umiditá si alzano bianchi e pesanti dal verdeacqua del lago e si fermano -a volte per tutto il giorno- oltre le colline, sulle spalle delle montagne che si stagliano di fronte.
Tra il verde dei campi di riso e quello delle montagne spuntano i tetti a barca (o a corna di bue) delle case tradizionali e quelli delle chiese, identici, se non per la croce, simbolo aggiunto ai tanti simboli giá presenti nelle costruzioni tipiche… tutto si mischia e si trasforma, nulla puó imporsi davvero e rimanere invariato e la gente si sposa in chiesa su consenso dello sciamano.
E’ molto interessante dal punto di vista culturale Samosir, isola dei guerrieri cannibali Batak, dei funghi allucinogeni, della magia nera… 


 La sera, al tramonto, mi metto in pareo, prendo secchio saponi e vestiti sporchi e scendo i pochi scalini che portano dalla mia stanza al lago. Insapono i vestiti e li sciacquo in acqua, mi insapono io e mi butto in acqua. Nuotando guardo la riva: la sera il lago é un immenso lavandino collettivo, la gente si fa il bagno; donne lavano piatti, vestiti e bambini; uomini buttano in acqua le reti che andranno ad alzare al mattino… e pensare che un tempo, tanto, tanto lontano, tutta questa cisterna di vita non era altro che lava!

Madeleine malese



Kuala Lumpur (Malesia), 10 marzo 2013

La ragazza in reception mi accoglie professionalmente con un sorriso a comando.
“Certo che abbiamo posto per te! Che tipo di stanza?” “Avete un dormitorio?” “Sí: un sei letti AC” Sei posti letto, Aria Condizionata. Odio l’aria condizionata. Mentre ero ospite in casa loro, Ibu e Ayah mi hanno raccontato di un loro parente morto durante un viaggio in pullman di piú di 12 ore “Un incidente?” ho chiesto “No: l’aria condizionata!” L’hanno coperto con un lenzuolo seduto lí dov’era e hanno continuato il viaggio “Sono andato a prenderlo io al terminal dei pullman, ci sono voluti tre uomini per tirarlo fuori di lí. Sarebbe ancora vivo se il pullman non avesse avuto l’aria condizionata!”
Non sono cosí facilmente suggestionabile da farne una questione di vita o di morte, ma devo ammettere che l’aria condizionata é un lusso che pago in salute in termini di mal di gola e raffreddori, per cui quando posso la evito ben volentieri.
“Non avete un dormitorio senza AC?” controlla il registro e inizia con un “Weeell:”, versione inglese del “Dùn-que:” che precede la coppia notizia buona-notizia cattiva “Dùn-que: ci sarebbe un posto letto nel dormitorio senza aria condizionata, ma…” espressione di dispiacere misto a disgusto “gli altri ospiti sono tutti uomini. Se per te non é un problema…” “Per me non é un problema” “Bene allora, benvenuta!”
Da quando sono qui é sempre la stessa storia (e dire che Martin mi aveva avvertita!): pare che la Malesia sia piena di commercianti e uomini d’affari provenienti dai Paesi limitrofi, uomini che viaggiano soli e che si fermano a breve o medio termine in dormitori sgarrupati senza aria condizionata. Esattamente come me!
Apro la porta del dormitorio e vengo subito assalita dall’odore, che sguizza fuori come fosse stato pressurizzato in quella stanza troppo piccola. E’ l’inconfondibile odore di cinque-uomini-adulti-che-condividono-una-stanza-troppo-piccola-senza-aria-condizionata-in-un-clima-tropicale. Con un aggravante: la presenza a pochi isolati di un quartiere noto come Little India e dei suoi ristoranti a buon prezzo, il ché fa di loro cinque-uomini-adulti-che-mangiano-cibo-speziato-e-condividono-una-stanza-troppo-piccola-senza-aria-condizionata-in-un-clima-tropicale.
E’ un dato di fatto: cibi diversi hanno diversi modi per riproporsi al consumatore; le vie del cibo indiano sono infinite e se assunto con costanza ha la sorprendente capacitá di cambiare la composizione chimica del sudore. Provato sulla mia pelle.


Quel che succede in genere é che mi vengono concessi privilegi e carinerie che un po’ mi fanno tenerezza: ti portiamo qualcosa da mangiare? Decidi tu quando spegnere la luce. Punta pure il ventilatore fisso su di te… devo dire che in realtá mi sono sempre trovata bene e questo é molto piú importante dell’odore.
Solo mi fa ridere il pensiero che questo sará uno dei ricordi piú intensi del mio breve passaggio in Malesia, riportato alla mente con la potenza evocativa dell’olfatto, una strana versione della madelein proustiana.