Thursday, February 28, 2013

Alle volte le melanzane si mangiano

Scalo all’aeroporto di Kuala Lumpur (Malesia), 21 febbraio 2013

Tempo scaduto. Sebbene non abbia alcuna intenzione di andarmene, il mio visto indonesiano e’ prossimo al termine e questa volta non mi e’ piu’ possibile estenderlo: devo lasciare il Paese.
Poco male. Mi faccio l’idea di volare in Timor Leste, passarci un po’ di tempo e da li’ rientrare in Indonesia. Mi pare un buon piano. Senonche’, al momento di comprare il biglietto scopro che i prezzi sono lievitati andando oltre alle mie possibilita’ e mi vedo costretta a ripiegare sul piano B. Che, neanche a dirlo, non ho.
Chiariamo la mia posizione: non e’ che non mi possa permettere ora di comprare quel biglietto, ma significherebbe dover rinunciare in futuro a un pezzetto di cammino; la dimensione dei miei risparmi in banca e la durata di questo viaggio sono inversamente correlate: ok puntare il dito a caso sul planisfero, ma un minimo di valutazione e’ necessaria. Ci sono Paesi o spostamenti che non mi posso permettere (a meno che non sia proprio il Paese dei miei sogni, ma non e’ questo il caso).


Dunque, causa biglietto aereo, il Timor Leste e’ tagliato fuori.
Piano B: google map, skyscanner, vediamo… in Malesia non ci voglio andare per partito preso; non si mangiano le melanzane e non si va in Malesia, e’ cosi’. Singapore e Australia: al di fuori del mio budget, al di fuori dei miei interessi, al di fuori del piano B. Papaua Nuova Guinea e Filippine: complicazioni per il visto per la prima, biglietto troppo caro per entrambe… maledizione, sono bloccata!
Ma aspetta un attimo… cos’e’ quello? Quel puntino microscopico sopra la Malesia… ingrandisci, ingrandisci… Brunei. Bo. E chi l’ha mai sentito?? Vediamo: visto all’arrivo, volo addirittura in offerta… eccolo il mio piano B! Quattro click e compro il biglietto. Si va in Brunei! Yuppi!!
Brava che sono. Mi si mette di fronte un problema e, clicca qui, clicca li’, in un attimo te lo risolvo. Brava, brava, brava!
Brunei dunque. Eppure il nome mi dice qualcosa. Brunei. Qualcosa tipo… qualcosa tipo IL SULTANO DEL BRUNEI, Nicole??! O qualcosa tipo palazzi d’oro e pozzi di petrolio?? Uno degli stati piu’ piccoli e piu’ ricchi del mondo!! E non potevi permetterti il Timor Leste? Quanto vuoi che costi un albergo in Brunei? Gia’ mi ci vedo: “Non avete per caso una stanza un po’ piu’ economica? Chesso’, una senza le maniglie d’oro magari…” Oh no. Oh no!! Che cosa ho fatto?? Alla faccia del minimo di valutazione. Stupida, stupida, stupida idiota!
Provo a farmi rimborsare il biglietto e quasi mi ridono in faccia.
Passo i due giorni prima della partenza consumata dall’urgenza di dover trovare un’alternativa e dalla completa incapacita’ di prendere una decisione.
Ma a quindici ore dalla partenza del mio volo, quando ancora mi chiedo se salire sull’aereo o meno, mi arriva un messaggio che recita cosi’: “Ciao, come va? Ancora in Indonesia? Io sono a fare immersione nel Sabah” Il Sabah: la regione all’estremo est del Borneo Malesiano, raggiungibile via terra dal Brunei… credo di aver trovato il mio piano C!
Quindici ore dopo, decollo.

Bahasa Indonesia e Marilyn Monroe




Jakarta (Indonesia), 18 febbrio 2013

Giudico la diversita’ linguistica un’immensa ricchezza, ma spero che arrivi presto il giorno in cui tutti possiederanno anche una chiave linguistica comune, che permetta ad ognuno di comunicare globalmente con chiunque altro.
Che si tratti dell’inglese o dell’aramaico a mio avviso fa poca differenza, ma se proprio dovessi scegliere, per dire, se si facesse un referendum per decidere quale debba essere la lingua universale, il mio voto andrebbe all’indonesiano (lo so che in Malesia e Singapore la lingua e’ quasi la stessa, ma in Indonesia ha un suono piu’ dolce).
Voterei l’idonesiano per la sua semplicita’. Sicuramente ci sono differenze che io non conosco tra quello parlato per strada e quello usato nei circoli letterari, ma almeno nel suo livello base si tratta in generale di una lingua piuttosto semplice dal punto di vista grammaticale, lessicale e anche fonetico (sono chiaramente condizionata dall’italiano, soprattutto per quanto riguarda la fonetica).
Mi piace innanzitutto perche’ funziona per campi semantici. Ad esempio: STRADA si dice jalan. STRADA, VIA, SENTIERO, ANDARE, PASSEGGIARE, BUON VIAGGIO, si traducono rispettivamente jalan, jalan, jalan, jalan, jalan-jalan, salamat jalan.
Per quanto riguarda la grammatica, prendiamo la formazione del plurale: a meno che non si sappia il numero esatto o si usino quantificativi tipo tanti, un sacco di, un fottio, ecc.. basta ripetere la parola. FIORE: bunga. FIORI? bunga bunga. PERSONA: orang. GENTE? orang orang.
E i verbi. Uno a caso: DORMIRE. All’infinito diventa tidur. Alla prima, seconda e terza persona singolare e plurale dell’indicativo presente rimane tidur. Congiuntivo imperfetto, trapassato prossimo, futuro anteriore, gerundio presente: tidur.


Posso immaginare che tutto questo porti delle complicazioni se rapportato ad altre lingue, mi chiedo ad esempio come facciano a tradurre Schopenhauer o anche solo una Carmen Consoli, per non andar troppo lontano; ma di per se’ l’indonesiano funziona ne’ meglio ne’ peggio della piu’ complessa delle lingue.
E oltretutto non manca di poesia. Adoro il fatto che si usi la stessa parola per MESE e LUNA: bulan. O che SOLE si traduca matahari, che non e’ altro che un composto di mata, OCCHIO, e hari, GIORNO: l’occhio del giorno. Oppure (questo e’ geniale!) NEO: tailalat; dove lalat significa MOSCA e tai, CACCA.
Non posso impedirmi di pensare a cosa sarebbe accaduto a Marilyn Monroe se ai suoi tempi l’indonesiano fosse gia’ stato la lingua universale (come ben presto sara’). Avrebbe avuto tutto il successo che ha avuto? Sarebbe stata eletta a sex symbol? Avrebbero scelto lei per cantare Happy Birthday Mr President a Kennedy? Con quell’enorme tailalat sulla faccia?? Non credo proprio…

Wednesday, February 27, 2013

Bevi tanti succhi di frutta



Labuan Bajo (Indonesia), 10 febbraio 2013

Una sera mi sono addormentata congratulandomi con il mio sistema immunitario per avermi protetta con incredibile efficienza durante questo viaggio. Sono una fortezza inespugnabile! Bravi i miei soldatini bianchi! Bravi davvero, che se dopo tutto questo tempo posso lamentarmi di soli due giorni di disordini gastro-intestinali disabilitanti, allora e’ proprio il caso di farseli due complimenti!
Credo che il mio subconscio ne sapesse gia’ piu’ di quanto ne sapessi io, se mi ha indirizzata verso questi inusuali (quanto insulsi) pensieri. Fattosta’ che il mattino seguente mi sono svegliata con la febbre.
Oggi, al quinto ma-si’-domani-mi-passa inatteso, ho ritenuto opportuno porre fine alla suspence del toto-febbre (sara’ malaria, dengue o febbre gialla??) e trascinarmi in ospedale per una diagnosi. E, possibilmente, una cura.


Il bello di avere una madre africana e’ che davvero poche cose riescono a metterla in allarme (e in ventisei anni ancora non mi sono fatta un’idea di quali, ma qualcuna ci sara’).
“Halo?”
“Ciao mamma!”
“Oh, ciao! Come stai?”
“Ho il tifo”
“Bevi tanti succhi di frutta. Puoi richiamarmi piu’ tardi…?”
Mi rassicura sapere che qualunque problema la vita mi mettera’ di fronte, lei non lo aggravera’ del peso di dover gestire la sua ansia a riguardo. Dico sul serio.
Dunque, nonostante la vaccinazione antitifoidea, pare che abbia questo nuovo indesiderabile compagno di viaggio. Nulla di esilarante a dire il vero: ho proprio solo la febbre. Devo ammettere che, in questo clima in cui gia’ normalmente il corpo si dispera cercando in ogni modo di perdere calore, avere la febbre non e’ spassosissimo. Ma non mi limita nelle mie attivita’ quotidiane –tipo usare il filo interdentale- e non –tipo finire un corso di immersione-.


Proprio cosi’: immersione. E, voglio dire, se non qui, dove??
Qui si incontrano le acque del Pacifico e dell’Indiano, le cui correnti portano a mischiarsi acque di temperature e caratteristiche differenti, che creano un ecosistema ideale per specie dalle esigenze diverse. Il che’ significa ampia biodiversita’: tanti microrganismi, quindi tanti pesci piccoli, quindi tanti pesci grossi… c’e’ cibo per tutti.
I fondali sono straordinariamente ricchi e di una bellezza sorprendente, almeno per me, che a piu’ di tre metri di profondita’ non ci avevo mai messo il naso. E comunque i tre metri erano in piscina.
Ogni immersione mi meraviglia con la maestosita’ delle mante, l’eleganza degli squali, l’assurda faccia dei pesci palla e i colori, i colori dappertutto… poi esco dall’acqua, devo togliere tutta l’attrezzatura, e’ tutto bagnato, ho freddo, mi scappa la pipi’, ho il tifo (scusa se e’ poco), e mi chiedo se ne valga la pena… poi mi rituffo, colori, colori dappertutto e li’ si’, li’ ne vale indubbiamente la pena.


Puro pensiero





Ruteng (Indonesia), 4 febbraio 2013

Diciamolo, Flores e’ proprio bella. Di una bellezza autentica data dal fatto di non essere stata completamente soggiogata dall’uomo. Non ancora, perlomeno.
Certo, ci sono delle infrastrutture che fanno si’ che sia un’isola abitabile secondo gli standard del nostro secolo; ma la natura ha ancora la meglio e l’atteggiamento piu’ diffuso (fanno eccezione le poche citta’) e’ quello di adattarsi alle sue regole piuttosto che imporre la proprie. Sulla costa si vive in case di bamboo perche’ se proprio deve arriare uno tzunami, e’ meglio non avere del cemento che ti cada addosso; in alte zone le abitazioni sono costruite secondo la logica, basta che tenga fino alla prossima eruzione;



 le strade non sono piu’ larghe del minimo indispensabile e la foresta se le ingloba ogni giorno di piu’, fino a divorarne un pezzetto franandoci sopra o scavando dal basso… tutto e’ matenuto a un livello piuttosto basico perche’ tutto va comunque continuamente ricostruito partento quasi da zero.
Le citta’ (la maggior parte delle quali considerabili paesi) in cui l’uomo e’ riuscito ad affermare il proprio spazio spttraendolo ad una natura incontenibile, si possono davvero contare sulle dita della mano destra: Maumere, Ende, Labuan Bajo, Larantuka, Ruteng, Bajawa… be’, un piccolo prestito dalla sinitra.
Durante gli spostamenti in bus o in bemo, su questi saliscendi di strade soffocate dal verde, guardo fuori dal finestrino per non perdere i momenti in cui il fogliame si apre e si vedono i profili delle colline come le pieghe di una coperta su un letto disfatto, volendo prendere in prestito un’immagine di Krakauer, che si allungano fino a tuffarsi nel mare. Guardo fuori dal finestrino e penso.


Se fossi puro pensiero, partirei dal centro del cratere dell’Egon Volcano, che ribolle in attesa del prossimo via, mi lancerei verso il cielo tra i fumi come una bomba vulcanica e poi giu’ in picchiata come un rapace; attraverserei cosi’ la foresta, dove tronchi altissimi spingono rami a cercare la luce oltre il fitto fogliame piu’ basso; sfreccerei tra la caotica geometria delle foreste di bamboo e sempre piu’ giu’, tra le foglie di lama dei palmeti e poi, di colpo, luce. Un bagliore di sabbia bianca e tenue azzurro. Ma proprio solo un attimo. Poi solo blu intenso. Fino alla fine.


Un'economia in fumo



Maumere (Indonesia), 1 febbraio 2013

Fumano. I maschi fumano tutti. Fumano in faccia ai bambini e ai neonati. Alcuni mentre inalano l’ultimo tiro allungano la mano sul pacchetto per prendere la sigaretta successiva. In vita mia non ho mai visto nessuno fumare cosi’ tanto e non ho mai visto cosi’ tante persone fumare. Per questo, e lo dico col cuore in mano, in alcuni momenti sprofondo in una tristezza soffocante che mi arriva a vampate proprio come il fumo che respiro.
Non credo di essere mai stata paranoica rispetto al fumo, chi mi conosce giudichi da se’, ma questo e’ diverso. Questa non e’ piu’ la scelta consapevole del singolo: qui si sta consumando un crimine.

Questione di pelle



Maumere (Indonesia), 31 gennaio 2013

Non dimentichiamo il vero motivo della mia visita a Flores: trovare la mamma del mio amico Bobby. Bobby non vede la sua famiglia da quattordici anni, quando si e’ trasferito nella capitale. Lui mi ha semplicemente offerto ospitalita’ in casa della madre, dandomi un biglietto con l’indirizzo e il nome del fratello, ma io l’ho presa come una vera e propria missione: trovare la donna, portarle le foto del figlio lontano e il messaggio che e’ felice e in buona salute. Nicole, ci sono i telefoni per queste cose… va be’, e allora ammazziamo tutta la poesia!!
Le cose si rivelano piu’ facili del previsto: arrivata nella via, chiedo del fratello e mostro le foto del mio amico ad un gruppo di ragazzini (chesso’, magari si assomigliano) “Ma e’ Robert!” Robert, Roby, Bobby… sara’ lui! Si distacca un sottogruppo di tre o quattro bambini che iniziano a camminare lungo la strada stretta facendomi cenno di seguirli. Svoltano a sinistra in una stradina sterrata che diventa sentiero e si perde in un campo di grano turco; i bambini si mettono a correre ridendo, eccitati e divertiti, accelero per stargli dietro, ma il grano e’ ben piu’ alto di loro e quando il sentiero curva li perdo di vista; rimango un attimo sola ad avanzare, contagiata dal loro entusiasmo; e’ un momento magico, mi chiedo cosa ci sara’ alla fine del sentiero, mi immagino una casetta piccola e la mamma di Bobby che mi guarda con aria interrogativa, io le porgo le foto del figlio e lei scoppia in un pianto di gioia, io la abbraccio e le dico “Donna, asciuga le tue lacrime: Bobby e’ salvo!” musica, titoli di coda, applauso del pubblico commosso. Qualcosa cosi’.
Invece mi si para davanti una figura ben lontana dal mio immaginario: un signore albino, alto e magro, con un cappello di lana nero, che mi viene incontro con un’andatura scompostissima “Salve… sto cercando una persona, magari puo’ aiutarmi, si chiama…” “Vieni, vieni, sei l’italiana forse” “Si’” “Ho saputo al telefono” e gia’ la poesia si incrina. Ma Bobby mi aveva detto che avrebbe telefonato al fratello “Sei il fratello di Bobby? Sei tu?” “Si’, vieni, vieni!” Il fratello di Bobby! L’ho trovato! Pochi metri dopo, siamo di fronte ad una casetta con le pareti di bamboo e il tetto in lamiera, circondata dal verde brillante del granturco giovane; delle persone chiacchierano sedute su sedie di plastica nel piccolo spiazzo di terra battuta di fronte alla casa.
Ci salutiamo e presentiamo. Con impazienza tiro fuori le foto e chiedo “Dunque, chi e’ la mamma di Bobby??” addocchio una bella signora corpulenta che sorride dalla sua sedia. “E’ lei!” ma mi indicano un’altra persona: una vecchina piccola piccola, secca secca, che sembra impossibile abbia mai potuto partorire un ragazzone come Bobby. La porgo le foto, lei le prende, da una rapida occhiata annuendo, poi le passa agli altri che dicono solo “Ah, si’!”. Morta li’. Ma come??? Dove sono le lacrime? Le urla di gioia? Quattordici anni! Suvvia, facciamola un po’ di scena! No, nulla. Maledetti telefoni.
Come predetto da Bobby, la sua famiglia insiste per ospitarmi e rimaniamo d’accordo che l’indomani lascero’ il mio bungalow e mi trasferiro’ a casa loro.


Dunque, eccomi nella mia nuova famiglia indonesiana.
Qui il tempo e’ ben diverso da quello trascorso nei giorni precedenti nel mio bungalow sulla spiaggia. Qui, lo sguardo non puo’ correre libero sul mare, ma e’ limitato dal granturco che circonda la casa a trecentosessanta gradi; l’orizzonte non porta vento, se non prima dei temporali e il sole picchia sul tetto di lamiera senza nessun riguardo.
La sera, quando le attivita’ sono interrotte dal buio, ci sediamo tutti davanti a casa alla luce di una candela e chiacchieriamo godendoci la frescura tanto attesa.
Faccio discorsi particolarmente interessanti con il fratello di Bobby. Il migliore in assoluto e’ iniziato quando gli ho detto che mia madre e’ africana: “E tu ci sei mai stata in Africa?” mi ha chiesto
“Si’, diverse volte”
“Com’e’?”
“Be’, e’ molto diversa dall’Asia, e’…”
“E’ vero che ci sono tanti negri?”
“Be, ecco, si’… indubbiamente!”
“Pieno di negri!”
“Eh si’… e’ che gli africani sono neri”
“Ah! Tutti negri!”
“Non proprio tutti: ad esempio in Nord e in Sud Africa ci sono…”
“Ma scusa, com’e’ il clima?”
“Dipende. In alcuni posti e’ proprio come in Indonesia”
“E allora perche’ noi non abbiamo i negri??” ossignore!
“Ma si’ che li avete: in Papua!”
“Agli americani non piacciono i negri, un mio amico americano mi ha detto ache gli americani non piace che si parli dei negri, che loro si arrabbiano se li nomini”
“Io credo volesse dire che c’e’ chi considera offensivo usare la parola negro
“Comunque i negri fan paura: grossi e neri come il diavolo!”
e cosa vuoi che ti dica? “…mmm…eh, si’…”
Onestamente, quanto sareste disposti a pagare per assistere a questo discordo fatto da una MULATTA e un ALBINO?? Ridicolissimi!


Su quest’isola la gente ha la carnagione come la mia. Chi lievemente piu’ chiara, chi lievemente piu’ scura. Io rientro esattamente nella media, il che’ mi porta un sacco di vantaggi. Certo e’ sempre Asia, per cui la pelle piace chiara esattamente come in Europa piace abbronzata… ma il fatto di essere “diversa ma uguale” suscita nelle persone un’immediata simpatia e la mia carnagione e’ inevitabilmente motivo di lunghe discussioni e grande entusiamo. Non vedo perche’ ci sia da farne tanto una questione, ma buon per me.

Tuesday, February 5, 2013

Una, solida, concreta e irremovibile

Paga (Indonesia), 29 gennaio 2013

Credo che ora in citta’ non sia piu’ consentito (nei villaggi certo si fa quel che si vuole e ognuno porta avanti indisturbato le proprie tradizioni), ma fino a un po’ di tempo fa in Burkina Faso era diffusa l’usanza di seppellire i propri cari in cortile. Quest’abitudine e’ poi andata a scontrarsi con la nuova tendenza di cambiare casa che forse in passato non era cosi’ comune. Come si fa se si vuol vender casa? Si vende anche la tomba dei propri genitori? E chi mai se la vorra’ comprare?
A Flores, dove l’usanza e’ la stessa, la soluzione al problema e’ questa: nel momento in cui si cambia casa, si porta con se una pietra e questo gesto rappresenta lo spostamento dei defunti. I nuovi proprietari possono dunque decidere di radere al suolo le tombe, che grazie alla pietra spostata ormai non sono che inutili costruzioni svuotate del loro significato, e ripartire da zero. Cosi’, dove lo spazio lo consente, ogni casa ha i suoi sepolcri davanti e i vivi e i morti continuano a convivere, uniti, nonostante la diversa condizione.
Le tombe sono ben lontane dall’essere semplici oggetti commemorativi o luoghi di pianto: al contrario, sono luoghi di incontro di utilita’ pratica quotidiana; si tratta di una superficie piana in genere piastrellata e pulita e alle volte protetta da una piccola tettoia: questo significa che ci si puo’ sedere, sdraiare, fare i compiti, stendere il bucato al riparo della tettoia e quant’altro.
Gran parte delle mie serate con i miei nuovi amici si conclude a casa di Inos, a chiacchierare, suonare, giocare a carte e cantare tra sigarette e bicchieri di arak (distillato di palma), sull’ampia tomba piastrellata di Maria Bewat, nata nel novembre del 56 e morta nell’aprile del 2010.


Nel villaggio di Lenandareta, nella regione di Sikka, la questione e’ piu’ interessante. Qui, chi puo’ permetterselo economicamente, opta per particolarissime tombe di pietra: si tratta di un unico blocco di pietra in cui, con un lavoro di mesi, viene scavata a mano una cavita’ di almeno mezzo metro di profondita’; il corpo del defunto viene poi inserito all’interno del buco in posizione fetale, a rappresentare il concludersi di un ciclo; la pietra viene sigillata con una tecnica particolare che impedisce la fuoriuscita di odori e chiusa con un’altra lastrona posata al di sopra. Se la tomba viene scavata in una roccia gia’ presente sul posto i costi sono piu’ contenuti; ma se la pietra in questione viene fatta portare dall’esterno, i prezzi sono altissimi perche’ includono il trasporto; date le dimensioni delle pietre, le persone coinvolte nell’eventuale trasporto e nel lavoro di scultura (entrambe le pratiche vengono svolte a mano) sono moltissime e questo spiega perche’ solo i piu’ abbienti possano permettersi una simile sepoltura. 

Ma quel che trovo davvero interessante e’ il fatto che la preparazione della tomba venga gestita dal suo stesso utilizzatore. Giunto in eta’ adulta, un giorno uno decide che e’ ora di iniziare a prepararsi e fa patire i lavori. Un giorno qualunque, non al compleanno dei 50 o alla prima luna piena del mese di maggio… un giorno qualunque! Lo trovo incredibile! Magari e’ gia’ un po’ che ci pensi, poi ti svegli un mattino e ti dici “Sai cosa? Oggi inizio a costruirmi la tomba” e poi per mesi (mesi!) senti gli scalpelli che lavorano, magari vai a controllare come procedono i lavori. Per mesi! E quando finalmente e’ pronta, sta li’ davanti a casa, solida, concreta e irremovibile, ad aspettarti per ogni restante giorno della tua vita.
Credo sia una tradizione straordinariamente formativa quella di Lenandareta, farebbe tanto bene alla nostra societa’. A qualunque societa’. Sara’ un’idea mia e sara’ un’idea sbagliata, ma ho la sensazione che si ritroverebbe un sano equilibrio se, semplicemente, ci preparassimo a morire, ma davvero, non solo una cosapevolezza all’acqua di rose campata li’alla veloce; se tutti, ma proprio tutti, come normale rito sociale, ad un certo punto prendessimo in mano il nostro scalpellino e dedicassimo un po’ di tempo, magari qualche mese, a realizzare una solida, concreta e irremovibile accettazione.

Parliamo di Bemo



 Waiterang Beach (Indonesia), 26 gennaio 2013

In Indonesia i trasporti terrestri offrono un ampio ventaglio di scelta. Per le lunghe distanze ci sono pullman e treni. Nelle grandi citta’ ci sono autobus, treni urbani, taxi, bajaj (nome indonesiano per tuk tuk o rickshaw), ojet (moto taxi), becak (bici taxi).
Al di fuori delle grandi citta’, in particlare sulle isole piu’ piccole, pare tutto un po’ piu’ improvvisato, ma estremamente efficiente: grossomodo chiunque abbia un’auto si puo’ proporre come taxi e chiunque abbia una moto come ojet. E io lo trovo furbo: se sto andando da qualche parte e riesco a caricare qualcuno, rendo un servizio, riduco i costi e riduco i consumi.
C’e’ poi un altro mezzo di trasposto, il mio preferito: il bemo.
I bemo sono minivan privati che coprono in genere tratti medio-lunghi al di fuori delle citta’. Ma dato che passano diverso tempo a girare per collezionar clienti prima di partire, possono essere usati anche per muoversi in citta’ nel circuito classico tra il centro e il terminal dei bus.
I proprietari dei bemo sono maschi, sono tendenzialmente giovani e sono affetti da una tamarraggine che mi e’ impossibile descrivere; detto cio’, i bemo non sono altro che uno specchio della loro anima: sono decorati con disegni a spray di cavalli alati al galoppo, fiammate, coniglietti di PlayBoy o donnine a dire il vero sexy ma mai volgari e scritte sberluccicanti del tipo “Hasta la victoria” “No woman no cry” “Special Edition” “Number One Express” “I don’t care!”; all’interno, sul cruscotto e appesi al parabrezza, pullulano peluches a mio parere piu’ consoni al fondo letto di una dodicenne e adesivi vari ed eventuali con nomi di cantanti o marchi famosi: Marlboro, Calvin Klein, Harley Davidson, Mercedes, Alice. Giuro: Alice, l’adsl.


L’autista del bemo non e’ un semplice autista: quando si siede al volante e’ il Re del Bemo. Quando poi inizia a guidare e’ il Re della Strada. E quando attacca la musica… non ce n’e’ per nessuno: quando attacca la musica e’ il Re del Mondo. Le casse e i sedili vibrano sui bassi, gli acuti perforano i timpani, ogni tentativo di comunicazione e’ reso impossibile, tutti sembrano indifferenti (c’e’ chi dorme!) o infastiditi (e chi invece usa gli auricolari come tappi per le orecchie), ma nessuno oserebbe mai batter due dita sulla spalla del Re del Mondo e chiedergli di ridurre la manifestazione del suo immenso potere.
Cosi’ si avanza con scolarette musulmane col capo velato, suorine col crocifisso al collo, ragazzi con l’IPhone in mano, donne anziane con abiti tradizionali, mamme che allattano, sacchi di riso, scatoloni, una volta addirittura un maiale legato in un sacco… il tutto ben shakerato sulle note di Eminen, Adele, Gangnam Style, Ai se eu te pego, generica house music e alle volte rari pezzi da collezione tipo la Macarena.


L’unico che sembra davvero apprezzare la musica e’ l’assistente, ovvero lo scagnozzo del re, il cui compito principale e’ quello di restare appeso al bemo, in piedi sulla porta aperta. Da questa posizione strategica, lo scagnozzo puo’ urlare ai passanti la destinazioe del bemo, far cenno all’autista di rallentare se qualcuno deve salire (rallentare, non fermarsi: ci si ferma se c’e’ da caricar qualcosa di grosso, il resto si fa grossomodo al volo), prendere i soldi da chi scende, far cenno alle altre macchine di fermarsi agli incroci o durante manovre particolari per lasciar passare il Re della Strada.
Il bemo regola la propria corsa in relazione agli altri bemo: la competizione e’ forte, alle volte si avanza lentissimi, vuol dire che un altro bemo e’ appena passato e l’autista vuol dare tempo a nuovi clienti di affacciarsi in strada; un attimo dopo ci si lancia in una corsa disperata, vuol dire che si ha un bemo alle spalle e non gli si vuole dare l’occasione di superare o che il bemo davanti e’ sufficientemente vicino da provare a superarlo mentre lui rallenta per caricare clienti.
E cosi’, i bemo si rincorrono accelerando e rallentando, inglobano ed eiettano passeggeri, attraversano foreste di bamboo e palmeti o costeggiano litorali e lanciano al cielo il loro urlo di battaglia… eee macarena, ae’!!

Someone like you



Waiterang Beach (Indonesia), 25 gennaio 2013

In Italia, tutte almeno una volta siamo state vittime di una cultura che ci impedisce di vedere con chiarezza oltre l’angosciante dubbio: gli piaccio o non gli piaccio? Tutte. E ci siamo appigliate a qualunque cosa pur di trovare una risposta. Solo noi sappiamo quanto e’ dura. E’ durissima. Analizzaare, cogliere, interpretare… e’ l’inferno! Ma io porto un messaggio positivo: Ci sono posti al mondo dove le cose non funzionano cosi’.
A Flores, ad esempio, il rito del corteggiamento e’ progredito di soli uno o due step evolutivi dalla fase mesozoica della botta di clava in testa. Qui, se piacete a un ragazzo non vi lascera’ il beneficio del dubbio: appena ne avra’ l’occasione vi prendera’ saldamente per i polsi, vi strattonera’ a se’ e cerchera’ di infilarvi la lingua in bocca. Brutale? Forse. Ma inequivocabile.
La dinamica e’ sempre la stessa: appena non dico lontano, ma al riparo da occhi indiscreti, lui ti prende uno o entrambi i polsi a seconda di quel che riesce a fare, strattona e attacca di lingua. “MA COSA STAI FACENDO?????” “Sei bella!” sara’ poi una giustificazione! “Lasciami immediatamente!!” “Nicole, ti amo!” “Ma fammi il piacere!! Hai tre secondi per lasciarmi le mani, poi urlo… uno, due…” e si tira indietro. “Ok, scusa!” “Scusa un ca…” “Cosa c’e’?? Ho chiesto scusa!” e, si’, lui chiede scusa. Voglio dire, chiede scusa davvero e la questione muore li’, amici come prima, non si ripetera’ una seconda volta. Certo, con le mani bloccate il mio istinto ha virato verso la modalita’ uccidere per non essere uccisa, ma lui questo non lo capisce e si comporta come se ci fossimo appena scambiati queste battute: “Sarei troppo sfacciato se ti chiedessi di uscire con me questa sera?” “Francamente, lo trovo inopportuno” “Dimentica quel che ho detto, ti chiedo scusa” c’e’ un gap culturale che e’ un abisso!!

 La prima volta e’ uno shock, dopo altri episodi identici ti dici che per loro dev’esser normale, impari a non dar piu’ occasione e a cogliere i campanelli d’allarme. Perche’ in realta’ non succede mai senza preavviso, c’e’ una fase precoce di corteggiamento e se la si riconosce in tempo e’ possibile intervenire gia’ da li’.
Ad esempio, se uno vi chiede di toccarvi i capelli, sicuro come la morte: appena ne avra’ l’opportunita’ vi saltera’ addosso. Con lo spazzolino del cesso (come lo chiama mia madre) che mi ritrovo in testa, non posso certo diffidare di ogni povero Cristo che mi chiede di toccarmi i capelli… ma ora lo faccio.
Un’altra tecnica d’approccio e’ quella di far partire una mielosa o staziante canzone d’amore e passarvi un auricolare o qualcosa del genere… “Ti piace questa canzone?” occhio: Celine Dion, Brian Adams e Adele van stroncati subito “No! Mi fa schifo! E non fare questo giochetto con me”
Ovviamente scherzo quando dico che questo accade a Flores: accade nel gruppo di ragazzi che ho conosciuto, se sia lo stesso in tutta Flores non ho avuto il piacere di verificarlo. questo non lo so. So solo che ogni volta che parte Someone like you non sento piu’ Adele: sento rumore di dita che tamburellano sulla clava.

Gretel




Waiterang Beach (Indonesia), 27 gennaio 2013

Mi si prospettano tre giorni di attesa per il visto. Maumere e’ la citta’ principale di Flores e non presenta particolari attrazioni; non si puo’ certo dire che sia bella, non si puo’ neanche dire faccia proprio schifo. Decido di spostarmi ad est, trovare una sistemazione sulla spiaggia e parcheggiarmi li’ (rimarro’ parcheggiata li’ per quasi due settimane!)
Mi affido al caso, come sempre, e il destino mi fa approdare al Sunset Cottage: dieci bungalow in bamboo sparpagliati nell’ombra gaia del sottobosco che si affaccia sulla spiaggia. Quando arrivo, sembra un posto abbandonato da anni. Le piogge quotidiane hanno creato pozzangheroni e distese di fango su quello che durante la stagione buona e’ il giardino. C’e’ un lieve velo di desolazione e un profondo silenzio che silenzio non e’, ma ritmico frangersi delle onde sulla spiaggia, canti di uccelli e frusciare di foglie… me ne innamoro subito. I proprietari confessano di non essere preparati a ricevere ospiti al momento e mettono subito le cose in chiaro: il generatore e’ rotto, non c’e’ elettricita’, non c’e’ acqua corrente, non ci sono altri ospiti, non aggiustiamo i bungalow prima della fine della stagione delle piogge per cui solo in uno non piove dal tetto “Se mi date delle candele, un secchio e il bungalow buono, vorrei proprio stare qui, perfavore!” accordo saldato.
Il mio bungalow e’ esagonale, ha due porte e quattro finestre: faccio un giro della stanza in senso orario prima di dormire per chiuderle e uno in senso antiorario al mattino per spalancarle.
Lascio il letto poco dopo l’alba, seguendo il ritmo dettato al mio corpo dalla luce solare, e per prima cosa agguanto il secchio e vado al pozzo in pareo a prender l’acqua per lavarmi. Il bagno consiste in quattro mura di mattoni nudi, un pavimento di ghiaia e un gabinetto, niente porta e niente tetto.


La seconda doccia, quella del pomeriggio, e’ la mia preferita: aspetto sempre le prime gocce di pioggia per andare a lavarmi, quando il vento e’ ancora forte e tien lontane le zanzare, poi in un attimo esplode il diluvio e basterebbe quello per sciacquarsi; l’istinto mi dice di affrettarmi per andare a proteggermi dal freddo… ma il freddo non c’e’ e allora rimango, inebriata di sensazioni, combattuta tra l’impulso di correre al riparo e quello di mettermi a correre nel bosco, nuda, sotto la pioggia, come quando da bambina in Congo mia madre mi lavava sotto l’acquazzone pomeridiano nel cortile di casa, assieme ai miei cugini… il cielo era un catino rovesciato, il cortile inevitabilemte si allagava e per noi quei pochi centimetri d’acqua fangosa diventavano piscina… non l’ho mai dimenticato, ma la sensazione non e’ mai riaffiorata prima con questa stessa intensita’.
Tra una doccia e l’altra le attivita’ variano, ma in genere le prime ore del giorno le passo sospesa sull’amaca, a leggere, a scivere, a fissare il mare, a ripromettermi di cercare con google informazioni sulle maree appena avro’ internet a disposizione, perche’ questa storia dell’acqua che sale e dell’acqua che scende non e’ che l’abbia mai capita davvero…
Mentre la marea sale, guardo il reticolo che ho di fronte, dato dalle linee verticali fisse delle palme in controluce che si incrociano con quelle orizzontali in movimento delle onde. Alcuni personaggi saltuariamente attraversano il reticolo. Ce ne sono di due tipi: gli uomini col machete e quelli col filo di bava; mi sfilano davanti in silenzio da sinistra a destra o da destra a sinistra, quelli col machete alle volte trascinano fasci di foglie di palma o legna; quelli col filo di bava, mazzetti di pesci argentati. 



Questi momenti di solitudine e pace si concludono sempre in tarda mattinata, quando Marleno e Frid arrivano a scompigliare tutto.
Ho dei nuovi amici. Li ho conosciuti la prima sera, la sera in cui guardano il tramonto ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare un bagno notturno, ma da sola non ne ho certo il coraggio; poco dopo, durante la cena, sono apparsi tre ragazzi: Marleno, Frid e Nero, uno nipote del proprietario, gli altri due suoi amici. Ci siamo messi a chiacchierare e ho proposto l’idea del bagno notturno “Una di queste sere, se vi va, perche’ da sola ho paura. Ditemi voi quando potete, io sono sempre qua…” “Andiamo!” “Ok, quando?” “Adesso!” e pochi minuti dopo eravamo in acqua. La luna non era che uno spicchietto e il cielo era comunque coperto, ma la bellezza che non ci davano le stelle ce la dava il plankton ad ogni movimento di gambe e braccia. Ecco un’altra cosa da cercare con google.


Da li’, i miei nuovi amici hanno iniziato a venire ogni giorno a tenermi compagnia e dopo poco a portarmi dai loro amici. Quando arrivano qui, in genere ci mettiamo in spiaggia e mangiamo. Ma per me non e’ solo mangiare: e’ una fiaba!
La spiaggia e’ sabbiosa solo per qualche metro, poi diventa fine giaetta nera prima di scivolare sotto il mare; non sara’ la classica spiaggia bianca da cartolina, ma il vantaggio della ghiaia e’ che non c’e’ poi bisogno di uno speculum per lavarsi via la sabbia da ogniddove e per quel che riguarda il colore, be’, la Principessa Mezzosangue qui potra’ mica permettersi di fare delle discriminazioni…
C’e’ una sorta di gerarchia legata all’eta’ tra i ragazzi: Nero, che e’ il piu’ giovane, e’ l’addetto al fuoco. Raccoglie foglie di palma cadute nella notte e si occupa del falo’. Nero, che e’ il piu’ giovane, e’ anche l’addetto al machete. Si allontana armato nel bosco e ne torna sempre tenendo in mano una pianta di tapioca (che qui chiamano cassava), un tubero simile alla patata ma meno dolce, che lasciamo a cuocere nella sabbia sotto il fuoco. 


Nero, che e’ il piu’ giovane, e’ inoltre l’addetto a cercare del filo di bava e un amo quando gli altri decidono di far abbrustolire un pesce (che certo prima va pescato) avvolgendolo in un cartoccio di foglie di palma. Nero, che e’ il piu’ govane, ha l’ulteriore compito di raccogliere, spaccare e pulire le noci di cocco, separando dal guscio la polpa che mangiamo cruda, abbrustolita, grattugiata, pucciata nell’acqua salata del mare… tra una chiacchiera e l’altra, una partita a carte e una a pallone, senza rendercene conto mangiamo quanto basta per riempirci fino a sera. Io sono esterrefatta dalla facilita’ con cui ci si puo’ procurare del cibo, sono Gretel nella casetta di marzapane! E’ tutto li’ a disposizione, naturale, fresco e squisito. Alle volte mi alzo per andare a prender l’acqua e i ragazzi mi bloccano “Ma no! Dove vai? E’ lontano!” prendono una noce di cocco, la fanno aprire a Nero, che e’ il piu’ giovane, e iniziamo a passarci questa grolla dell’amicizia al cocco…
Gli amici dei miei amici sono tutti maschi. Ogni tanto qualcuno mi salta addosso con nonchalance, ma rimangono nel complesso gestibili.
Ci si sposta da una casa all’altra, dove mi vengono offerti te a non finire, banane fritte o bollite e jack fruit durante la giornata, poi un piatto di riso pesce e verdure per cena e alle volte un posto per dormire la notte nel letto della sorella di chi di turno, con o senza la sorella in questione. Rifiutare il cibo o l’ospitalita’ e’ quasi offensivo; per le famiglie dei miei amici ospitare e’ un piacere; per i miei amici e’ piu’ una questione di comodita’, perche’ a me viene sonno appena scende il buio e loro non vogliono interrompere la serata per riaccompagnarmi, quindi “Sei stanca? Guarda, segui mia sorella, vai dentro con lei, ok? Cosi’ ti riposi… tranquilla, non c’e’ problema: sentiti a tuo agio!” si’ si’ che mi sento a mio agio. Non mi faccio piu’ problemi a dormire in nessuna circostanza ormai. Salvo poi svegliarmi con gli attacchi di amnesia: dove sono? Ero in Nepal per il mio compleanno…


Insomma, non me la passo tanto male qui. La mia unica preoccupazione sono le noci di cocco. Si staccano dalle palme con rumore di ossa che si spezzano e precipitano al suolo, dove si schiantano sulla sabbia in un tonfo che mi mette i brividi. Credo di aver piu’ possibilita’ di morire facendo i pochi meti che separano il mio bungalow dalla spiaggia che correndo la Parigi-Dakar bendata. Ma quando ho confidato le miei paure, mi e’ stato detto: tranquilla, qui si dice che le noci di cocco hanno tre occhi e prima di cadere guardano se la via e’ libera.
Sara’.











Fermiamo la corruzione




Maumere (Indonesia), 18 gennaio 2013

Quasi un mese e’ volato senza che me ne rendessi conto e l’Indonesia merita indubbiamente di perderci un secolo in piu’, come direbbe De Andre’. Un secolo certo vien difficile, ma di un mesetto extra ne possiamo parlare: passaporto alla mano, vado a Maumere ad estendere il visto. A Maumere. Non Labuanbajo: Maumere. Anzi, fatemi fare un’opera di bene con qualche parola chiave:
VISA EXTENSION IMMIGRATION OFFICE FLORES ISLAND INDONESIA: ONLY IN MAUMERE!!
Che se qualcuno finisce qui con google magari lo salvo. Ma questa e’ un’altra storia…
Entro all’ufficio immigrazione di Maumere, appunto, per avere informazioni sulla documentazione necessaria. Trovo dietro al bancone un ufficiale in divisa. O meglio, non ci trovo nessuno, ma dopo che chiamo e aspetto e aspetto e chiamo, arriva dietro al bancone un ufficiale con una bella divisa costellata di distintivi e appiccichini vari, che non parla inglese. Ma tutti gli stranieri grossomodo arrivan qui con la stessa richiesta e questo facilita le cose… fino a un certo punto, oltre al quale le barriere linguistiche lo spingono a chiamare in aiuto un collega; questo riparte con la spiegazione dal principio, ma arrivati circa allo stesso punto di prima, ci areniamo di nuovo e viene chiamato in soccorso un terzo collega, una donna, che con mio grande sollievo parla inglese; sorbirmi tutta la spiegazione da principio per la terza volta e’ un piccolo prezzo da pagare per veder risolti i mei dubbi e non la interrompo.
Arriviamo dunque alle questioni spinose “Capito, le fotocopie, la lettera dello sponsor, il passaporto… e quanto costa?” “Trecentomila rupie” Trecento?? Ahi ahi ahi, bugia! Pur essendo una sprovveduta, vista la fama degli uffici indonesiani, prima di venire qui mi sono confrontata con diverse persone sul prezzo. E a detta di tutti il prezzo dovrebbe essere duecentocinquantamila. Non e’ un caso che tutti usino il condizionale. Cinquantamila rupie sono circa quattro euro, non e’ chiaramente questo il problema. Certo se mi lasciassi fregare ogni volta, a foza di “e’ solo un euro, sono solo due euro”, a quest’ora i miei risparmi li avrei finiti da un pezzo, ma, davvero, non e’ questo il punto. Il punto e’ che di fianco alla porta da cui questa signora entra ogni mattina, troneggia un cartello su cui c’e’ scritto a caratteri cubitali “Fermiamo la corruzione!!”. Il punto e’ che almeno in questo l’Indonesia non e’ come il Congo, dove gli impiegati pubblici non vedono lo stipendio per mesi e allora il dito va puntato piu’ in alto. Il punto e’ che va contro i miei pricipi dare il mio seppur minimo contributo a questo sistema e pur sapendo che non saro’ certo io a fare la differenza, mi pesa dover giustificare un sopruso con il tipico qui funziona cosi’.
[Che poi anche i miei principi siano discutibilissimi non e’ da mettere in dubbio, ad esempio continuo a sostenere la mia battaglia concettuale contro la tassa sul passaporto; ma anche questa e’ un’altra storia...]
Provo a darle la possibilita’ di correggersi “Non ho capito. Duecento e quanto?” “Trecento!” e allora voglio almeno che lei sappia che so cosa sta facendo “Non dovrebbero essere duecentocinquanta?” “No, trecento” “Strano, mi sono informata nei giorni scorsi e mi e’ stato detto che il prezzo e’ duecentocinquanta” “Be’, ecco, il visto sono duecentocinquantacinque, piu’ quarantacinque per i moduli” capita di dover pagare i moduli a parte, e’ vero, ma non costa mai piu’ di pochi centesimi “Quarantacinque solo per i moduli?? Eppure mi e’ stato detto duecentocinquanta in totale da diverse persone” “Magari ha capito male” “Magari si’. Infatti sono venuta qui apposta per vedere un documento ufficiale su cui si dica quanto devo pagare” “Mi spiace, non l’abbiamo qui” “All’Ufficio Immigrazione non avete un documento riguardo al visto??” “No, il documento c’e’, ma non lo puoi vedere perche’ abbiamo problemi con il sistema, deve venire un mio amico a riparare i computer…” un tuo amico. Ok, siamo caduti abbastanza in basso, non andiamo oltre. La verita’ e’ che a me serve il visto e non posso rischiare di avere problemi. Be’, poteri lasciare il Paese, ma non e’ quel che voglio. Odio questo senso di impotenza, odio che non si possa far riferimento a qualcuno al di sopra delle parti perche’ tanto ognuno tira acqua al proprio mulino, odio che mi si possa considerare molto fortunata perche’ di fatto mi sono stati chiesti solo quattro euro in piu’. Ma alla fine, checche’ se ne dica, qui funziona cosi’!
La donna insiste ancora a che faccia partire la pratica subito perche’ il sistema, il weekend, i moduli… non mi piace la sua insistenza e non vedo perche’ dovrei sprecare un giorno di visto, per cui saluto e me ne vado.
L’indomani arrivo in ufficio prima dell’orario d’apertura e aspetto. La prima a comparire e’ una ragazza molto giovane in una tuta da ginnastica blu con uno stemma dorato. Mi spiega di essere una tirocinante e con modi estremamente gentili mi racconta tutto dal principio per l’ennesima volta; poi prende tutti i miei fogli, prende il passaporto, prende le trecentomila rupie… e me ne da cinquantamila di resto. Sorrido cortesemente e ringrazio, impassibile… ma dentro… dentro ho i fuochi d’artificio!! Dentro, vorrei prenderle la testa tra le mani e baciarla in fronte e veder entrare sotto al cartello “Fermiamo la corruzione!!” quella di ieri e buttarle in faccia le sue cinquantamila e uscire in strada con la ragazza per mano, dove una folla esultante la acclama e una fanfara suona un inno al trionofo e… “Allora lunedi’ o martedi’, quando e’ pronto la chiamo. Arrivederci” hey, hey, aspetta un attimo… e la fanfara si ferma… come sarebbe a dire arrivederci? “Credo si sia dimenticata di darmi la mia ricevuta” “Oh, no, la ricevuta la diamo quando viene a ritirare il passaporto” questa poi! “Io vi ho dato dei soldi e il mio passaporto e dovrei andarmene senza nulla in mano?” Non voglio nominare la donna di ieri, per cui mento, le dico di aver gia’ avuto problemi in passato in altri Paesi, che lei e’ molto gentile ma non so chi verra’ dopo di lei e non voglio rischiare che mi si dica di pagare di nuovo o di non aver mai ricevuto il passaporto, per cui, per cortesia, puo’ darmi un qualunque pezzo di carta in cui si dichiari cosa ho consegnato? Dispiaciuta per le orribili cose che capitano in altri Paesi, alla fine prende un foglio, scrive, firma, timbra e me lo da.
E forse ce l’abbiamo fatta.

Non conto piu'

Moni (Indonesia), 14 gennaio 2013

Non conto più le volte in cui mi sveglio e non so dove sono. Capita a tutti, capitava anche a casa, ma ora richiamare alla mente le coordinate richiede uno sforzo maggiore. Apro gli occhi ed è come se non li avessi aperti. Buio. Dove sono? Ero in Nepal per il mio compleanno, questo lo ricordo sempre. Poi sono andata in India. Sono in India? No, ho preso un aereo verso sud. Ma sì, Indonesia! Ma cosa c’è oltre la finestra non me lo ricordo… Indonesia. Ho preso una nave. Ho preso la nave! Sono a Flores!