Friday, August 31, 2012

A caccia



Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Sono la prima a svegliarmi. Mi infilo i vestiti e cerco di uscire senza calpestare gli altri, che dormono a terra nei sacchi a pelo. L’interno della ger e’ completamente buio, l’aria e’ tiepidina anche se a scaldarla ci sono solo i nostri corpi. Quando apro la porta, mi sembra di varcare una soglia dimensionale: il feddo e’ pungente, il cielo tappato da una fitta nube bassissima il cui biano e’ accecante. Mi faccio strada tra il mare di pecore che circonda la ger ed entro nel minivan per leggere. Dopo poco, arriva don, apre la portiera e mi dice qualcosa con entusiasmo. Don, buongiorno! Sei bello allegro questa mattina! Cosa c’e’? Non ti capisco! Lui si allunga sul sedile del guidatore e tira su’ da sotto i pedali una bestia morta. O meglio, uccisa, decapitata. E’ una specie di marmottone igante ormai rigido, frutto della caccia di stamattina all’alba. Don! Che schifo! Metti giu’ quel coso morto! Ma lui, tutto eccitato, mi fa capire che ora va a pulirla, poi a cucina e sara’ deliziosa.
Inizia cosi’ la nostra mattinata di caccia.Quando gli alti si svegliano, veniamo invitati ad un’infruttuosa battuta di caccia alla marmotta con due uomini e un fucile. Io sono contraria alla caccia come sport o come passatempo o come stupida prova di virilita’ o cose del genere… Ma qui, in questa terra, per la prima volta mi e’ apparsa nel suo significato originale e non mi ha contrariata. Non ho sviluppato una passione, non ho trovato piu’ eccitante della pesca lo stare ad aspettare che una manrmotta faccia capolino dalla tana, non ho voluto provare a sparare, che le armi da fuoco non esercitano su di me alcuna attrazione e con tutte le esperienze che la vita ha da offrirmi posso anche morire senza averne mai toccata una. Pero’ sono contenta di aver avuto l’oppotunita’ di assistere.Qui si’.

Notte in ger



Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Non siamo stati particolarmente fortunati in questi ultimi giorni con il tempo. Oggi, di fronte ad una pioggia incessante e reduci da due notti bagnate pure loro, ci siamo arresi e abbiamo comunicato a Don l’intenzione di non dormire in tenda. Detto fatto: lui ci ha pensato un attimo su’, con lo sguardo nel vuoto, poi ha annuito e lanciato il minivan fuori pista. Ed eccoci ospiti in una ger. Diro’ ger e non yurta, perche’ e’ piu’ simile alla parola mongola.


La famiglia ci accoglie come sempre con tazze di latte salato. Ci sediamo per terra sui tappeti, ci sono due divani e mobili bassi lungo la circonferenza della parete; al centro della ger, la stufa accesa emana un calore piacevolissimo; il tubo della stufa sale dritto ed esce da un’apertura al centro del tetto, da cui entrano anche indesiderabili gocce di pioggia. C’e’ un televisore di trent’anni fa che trasmette un servizio sulle olimpiadi in bianco e nero; c’e’ il corpo scuoiato e aperto di un capretto appeso ad asciugare; c’e’ una donna indaffarata a  
 tagliare carne per la cena e badare al fuoco alimentandolo con cacche secche di yak; ci sono degli uomini che ogni tanto entrano fradici, si siedono e chiacchierano, fumando sigarette e riempiendo e passandosi un bicchiere di vodka. E poi c’e’ un bambino biondo di cinque anni, iperattivo, inizialmente simpatico e divertente, poi un po’ pesantuccio nelle sue continue richieste di attenzioni, ma siamo in cinque a palleggiarci il compito di giocarci assieme e riusciamo a non farcelo pesare troppo. Quando ci da tregua, va a gironzolare attorno agli uomini che chiacchierano quasi sussurrando e gli si struscia addosso come un gatto che voglia le coccole; la maggior parte delle volte viene cacciato con noncuranza, ma ogni tanto riesce nel suo intento e si guadagna il compito di buttar via la cenere per qualcuno, ottenendo in premio di farsi un piccolo tiro di segaretta anche lui. 

La ger in cui dormiamo non e’ questa, ma quella vicina, meno accogliente e curata. Ce la cedono interamente e fino a domattina sara’ casa nostra. Piu’ o meno. Se c’e’ una cosa che credo di aver capito dei mongoli e’ che sanno stare a guardare, senza dire niente, senza chiedere, con l’innocenza di chi non sa cosa sia l’invadenza e in effetti non si percepisce nulla di inopportuno in questo osservare. Cosi’, mentre noi cuciniamo sulla stufa, qualche curioso entra nella ger, si piazza di fianco alla porta e guarda. Riesco a coinvolgere un ragazzo disegnando, scopro che il mio nome in mongolo si legge Nestla, imparo a dire fiume, sole, cavallo, pecora, mucca, tutti gli animali della vecchia fattoria, impazzisco cercando di fargli pronunciare la F che, evidentemente, e’ un suono che in mongolo non esiste. F, non P, FFFF. Dai, non ci credo, non e’ possibile non riuscire a dire F, e’ come non riuscire a incrociare le dita, non lo posso accettare! Forse stanco della mia insitenza, forse stanco e basta, alla fine anche il ragazzo se ne va con gli altri e noi rimaniamo soli a dormire. 

Volersi bene




Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Oggi mi sono svegliata in un mattino perfetto. Abbandonata l’idea di dedicarmi a qualunque attivita’ utile per il gruppo, mi sono messa a correre. E ho desiderato di poter correre per sempre. Non di farlo. Solo di poterlo fare, di fermarmi per il desiderio di fermarmi e non per la fatica. Lungo la strada, alle volte si incontrano branchi di cavalli selvaggi che pascolano silenziosi sul questi prati sconfinati. Se gli si corre in contro a braccia larghe, impauriti, si mettono a trottare verso l’orizzonte. Il senso di liberta’ ti prende a schiaffoni in faccia.


Nonostante il forte desiderio di proseguire, dopo un tempo purtroppo imbarazzante, mi sono arresa, col fiatone. Facendo stretching sulla riva del lago, con il sole alle spalle e la mia lunghissima ombra come specchio perfetto, ascoltando la colonna sonora di Into the wild (che sara’ scontata, ma assolutamente opportuna), ho pensato che questo e’ proprio volersi bene. Il lago e’ un mare di acqua dolce con ondicelle gentili, non se ne vede la fine. Ogni tanto mi sembra di sentire una voce e mi tolgo un auricolare, ma sono solo gabbiani. Non c’e’ nessuno, fin dove sono in grado di vedere.

The italian quality

Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Mi sono aggregata a questo gruppo all’ultimo minuto. Se inizialmente mi sentivo in colpa per non aver partecipato al grosso dei preparativi e alla spesa iniziale, ora ne sono piu’ che felice; perche’ io non avrei mai comprato generi alimentari come sacchi d’uvetta, litri di succo di limone, chili di farina… farina. Dai, come vi e’ venuta questa? State per partire per tre settimane nel mezzo del nulla, a disposizione solo due traballanti fornelletti da campeggio… la farina?? No, seriamente, a chi e’ venuta l’idea? Tutte le mie perplessita’ pero’ evaporano quando ci mettiamo a cucinare e lasciano il posto ad un enorme senso di gratitudine verso chi per primo lancia l’idea migliore: “Oggi facciamo i pancake per colazione?” Si’! Ti prego, si’, facciamoli!! 

Mescolando incredulita’ e apprezzamento, con loro cucino e mangio piatti che neanche a casa mi sarebbero mai venuti in mente; dai pancake e il porridge con mirtilli, pesche e miele per colazione al riso con mandorle, uvetta, mela e ananas, per non parlare di piatti tipicamente israeliani come la chukchuca o la trina (una crema di sesamo)… e poi mangiamo pasta. Tanta, tantissima pasta. Si’, perche’ dopo averli visti versare una passata di pomodoro cruda su una pasta stracotta, mi sono offerta di occuparmi interamente del sugo. E anche della pasta. Ho fatto le cose per benino: soffritto di cipolla, zucchero per l’acidita’, pizzichi di spezie a caso, fuoco lento, ho aspettato, mescolato, aspettato… ne e’ uscito il massimo che poteva uscirne: un semplicissimo sughetto al pomodoro senza infamia ne’ lode, a parere mio. Loro invece sono impazziti: il miglior sugo al mondo! Il cibo degi Dei! Non cucini: fai magie! Ma no… ecco… basta cuocerlo, insomma… Da li’ e’ nato il mito dell’”italian quality”, che ha portato a due conseguenze. La prima e’ che consumiamo quintalate di pasta al sugo “Vi prego, oggi posso fare un altro sugo? Abbiamo la verdura, abbiamo il tonno, potrei…” “No! Facci la pasta al pomodoro alla Nicole.” ecco che la risolutezza israeliana mi si rivolta contro. La seconda e’ che mi sono state affidate le preparazioni piu’ noiose spacciandole per compiti di responsabilita’ patriottica: “Nicole, qui c’e’ la farina, sei stata scelta per fare l’impasto” “L’impasto di cosa?? Cosa volete cucinare?” “Al resto ci pensiamo noi, tu fai un impasto” “Si’, ma come? Che tipo di impasto?” “Fallo come quello della pizza. Sei italiana, sara’ perfetto! In questo momento rappresenti l’Italia intera”. Ma tanto loro che ne capiscono di pasta di pizza? Non li ho delusi e con le mie palle di cicles di acqua e farina ho tenuto alto il nome di Madre Patria.

Nulla da desiderare




Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Il grande carro e’ tornato ad essere se stesso e non piu’ il mestolo rovesciato che era nel sudest asiatico. Spente le frontali, sdraiati davanti alle tende a guardare il cielo. Mi piace quando i miei compagni di viaggio si chiudono in lunghe conversazioni in ebraico. Mi piace sentire come suona; mi piace vederli nel massimo della propria espressivita’, il che’ e’ possibile solo nella propria lingua madre, e’ un po’ come vederli togliersi una maschera; mi piace cogliere le parole ricorrenti, cercare di indovinane il significato dal tono che usano, dal momento in cui le usano. Ora pero’ non fatico a capire quel che stanno dicendo: di fronte al cielo stellato non ci sono lingue, eta’, genere, siamo tutti uguali, tutti a lanciare traiettorie invisibili dall’indice teso, a disegnare per gli occhi dell’altro le costellazioni che sappiamo chiamare per nome.

Accendo la frontale e mi allontano a far pipi’. La spengo, assicurandomi cosi’ tutta la privacy che il buio puo’ offrirmi, e il cielo sopra di me riesplode di luce. L’orizzonte e’ cosi’ basso, lo spazio attorno a me cosi’ vuoto che le stelle, non incontrando ostacoli alla vista, sembrano toccare a terra. Vedo una stella cadente, la prima di molte di questa sera. Un desiderio, presto! Un desiderio!! Ma non mi viene in mente nulla. Sono un puntino di vita insignificante accovacciato al buio in un luogo che non saprei indicare con esattezza sul mappamondo, in un presente che non saprei crocifiggere con le lancette di un orologio, e non ho nulla da desiderare. Non per me.
Non lo so se siano trasferibili, pero’, Silvia, questo desiderio lo lascio a te.


Semplicemente, sparisce



Western Mongolia, 8-29 agosto 2012

Appena fuori da Ulaan Baatar si trovano i dorsi di morbidissime colline verdi ad avvolgere chi percorre lo stradone nord. Il cielo, azzurrissimo, pare estremamente piu’ basso di quello a cui sono abituati i miei occhi: le nuvole sembrano lasciarsi trascinare dal vento a poche decine di metri da terra e proiettano sull’erba le ombre mutevoli dei loro pancioni.
Con il passare dei chilometri, il paesaggio impercettibilmente muta: le colline perdono gradualmente la loro morbidezza, assumendo forme piu’ rigide e, soprattutto, si allontanano. Lo spazio attorno a se’ si fa sempre piu’ ampio e nonostante le colline siano ancora troppo acerbe per poter essere chimate montagne, ci si sente come se si stesse osservando il plastico di una catena montuosa. Questo non mi riesce di spiegarlo. Il punto e’ che si ha una percezione alterata delle proporzioni, contemporaneamente la sensazione di essere piccolissimi in qualcosa di immenso e quella di poter coglierne l’immensita’ come se la si stesse osservando dall’alto.


Altri chilometri, altri cambiamenti: ogni sorta di promontorio sembra essersi dileguato all’orizzonte correndo via come un branco di animali impauriti. Dev’essere successo improvvisamente, in un mio attimo di distrazione. Non saprei risalire al momento in cui hanno iniziato a scomparire: ad un certo punto mi sono accorta che le montagne avevano lasciato il posto ad un pavimento di terreno secco del quale non si riescono a vedere i limiti, se non in qualche raro punto in cui si intravvedono lievi pennellate di colore tenue all’orizzonte. Sono nascoste li’ le montagne.


Questa mattina, quando sono tornata alle tende, ho trovato gli altri finalmente svegli a prepararsi per il nuovo giorno facendo colazione, arrontolando materassini e chiudendo zaini. Mi hanno chiesto dove fossi stata, ridendo mi han detto che pensavano fossi scappata… la verita’ e’ che non sono stata da nessuna parte, sono solo stata un attimo da sola.
Il bello di questo piattume vitualmente infinito di erbetta rasa, terra secca e ghiaietta in cui non ci sono ostacoli o imperfezioni dietro cui nascondersi –non un albero, non una roccia, non un cespuglio- il bello, dicevo, e’ che se uno si allontana dagli altri camminando per un po’ in una quasiasi direzione e poi si sdraia, per il resto del mondo, semplicemente, sparisce. E quel che e’ ancora piu’ meraviglioso e’ che in questo orizzonte quasi illimitato in cui i punti cardinali perdono ogni significato e le uniche indicazioni spaziali percettibili rimangono l’alto e il basso, quel che e’ ancora piu’ meraviglioso e’ che, una volta sdraiati, se si rivolge la faccia verso “l’alto”, allora anche il resto del mondo sparisce. Non resta che un intensissimo, purissimo ed infinito azzurro.

In Don we trust

Western Mongolia, 8–29 agosto 2012

Da qua in poi ho perso la cognizione dello spazio e del tempo. Nei prossimi post i luoghi non avranno un nome, gli attimi non avranno date, le foto saranno piu’ a casaccio del solito. Quel che e’ successo, per dare un’idea generale, e’ che siamo partiti per tre settimane con un minivan, un autista, le tende e tanto, tantissimo cibo per raggiungere Olgii, una cittadina all’estremo ovest della Mongolia. Olgii e’ in questo viaggio meta e punto di partenza: e’ la fine di una corsa su quattro ruote attraverso steppe sconfinate ed e’ l’inizio di un trekking su due gambe su monti dell’Altai Tavan Bogd National Park (due gambe e quattro zampe dovrei dire ora, dato che il trekking si e’ concluso con un quinto giorno a cavallo).

E’ iniziata senza preliminari questa convivenza stretta con i miei nuovi coinquilini da viaggio. La comitiva questa volta e’ composta da un minivan russo, un autista mongolo, un’italiana e quattro israeliani: Alon, Adi, Assaf e Dor.

Alon e’ i piu’ giovane di tutti, fresco di servizio militare. Zohan, come l’ho soprannominato io, sorride sempre, anche quando dorme, e parla nel sonno; lo so perche’ e’ il mio compagno di tenda: dividiamo una tenda minuscola in cui stiamo a malapena lui, io e il suo coltello con lama da quindici centimetri e custodia intagliata in osso di renna. Dorme rigorosamete dal lato della porta e la chiude con un lucchetto di cui inizialmente non mi ha comunicato il codice, per cui al mattino dovevo svegliarlo per riottenere la custodia di me stessa. E’ una presenza abbastanza ingombrante; non che sia goffo o maldestro, ma e’ come se avessero installato il sistema operativo di un gatto nel corpo di un terranova: ti si appoggia addosso senza rendersi conto di avere il peso specifico della ghisa, se e’ nei paraggi sono da evitarsi attivita’ potenzialemte mortali come usare uno stuzzicadenti, tagliarsi le unghie o avere le tette, perche’ e’ inevitabile che arrivi una gomitata.
Adi e’ una ragazza allegra e spontanea, ha un carattere forte ben amalgamato con la dolcezza che le si legge in viso. Per dire, anche lei ha un coltello con lama di lunghezza imbarazzante, ma in una tenerissima costodia in plastica rosa. E’ molto bella, di quella bellezza magnetica e dinamica data dall’espressivita’ piu’ che dai lineamenti. 
Assaf inizialmente mi era un po’ insipido, poi e’ diventato il mio preferito, come mi capita quasi sempre. E’ lievemente ipocondriaco, mi chiede cose del tipo “Nicole, ho bisogno di una diagnosi…” “Oh per carita’! Sentiamo” “Quando deglutisco sento un leggero fastidio a questa altezza della gola sulla parte destra, e’ iniziato questa notte alle quattro, cosa puo’ essere?” “Mah, lasciami pensare… niente?” Per giorni sono stata convinta che sua madre fosse lesbica, poi ho capito che fa confusione con il genitivo sassone, per cui per “my mother’s girlfriend” intende la madre della sua ragazza.
Dor ha uno sguardo fiero e sembra mantenere sempre compostezza e un certo distacco dalle cose, da tutte le cose. Ne rispetto l’inafferrabilita’ e non mi avvicino piu’ di quanto mi sia concesso avvicinarmi. 


E poi c’e’ lui, l’unico, l’insostituibile, il magico Don: il nostro autista, che parla solo mongolo, ma ci capiamo ugualmente a gesti e versi. Piu’ o meno. Don ha i guancioni rossi e gli occhietti spenti che scompaiono in due fossette quando sorride. E’ pacato come un panda, ma quando si mette al volante si trasforma in una specie di tarantolato, il che’ gli ha fatto guadagnare il titolo di “na ag sciodig”, ovvero l’autista da rapina, quello che aspetta fuori col motore acceso e poi da gas per scappare a colpo fatto. Ogni tanto esce dalle piste e lancia il minivan in una corsa pazza nei prati, cosi’, senza apparente motivo; probabilmente perche’ si diverte. Ogni tanto invece si ferma, apre il vano motore, ci infila le mani dentro, scende, controlla la ruota posteriore sinistra e poi riparte. Un giorno, in un momento in cui sembrava aver perso completamente l’orientamento, si e’ fermato tre volte a far pipi’ nell’arco di venti minuti e, non vorrei dire, ma secondo me stava marcando il territorio… insomma, e’ strano Don, ma come si fa a non voler bene a uno che ha la faccia cosi’ grossa? Ogni volta che non lo capiamo gli diamo l’ok e ci lasciamo guidare, al grido di “in Don we trust”.
E poi ci sono io, che ho la maglietta con un miniva uguale al nostro minivan, per cui vinco (Si’ Luca, e’ proprio lei, lo so, era per mio fratello, ma a lui non stava, giuro, per questo l’ho tenuta io!)
Insomma, siamo una negra, quattro ebrei e un comunista (dai, pinzato tra la Russia e la Cina, avra’ pur qualche traccia di comunismo pure lui, anche solo per osmosi)… ogni volta che ci penso sento rumore di baffetti che si rivoltano nella tomba…



Fuori dal guscio



Ulaanbaatar (Mongolia), 7 agosto 2012

Non si puo’ dire che Ulaan Baatar sia una bella citta’, ma mi ci trovo perfettamente a mio agio e questo conta piu’ dell’estetica. Mi trasmette un’accozzaglia di sensazioni diverse e mi porta a fare improbabili associazioni mentali… il grigiume che circondava l’aeroporto il giorno in cui sono arrivata mi ha fatto rivivere alcuni momenti del tardo autunno di casa; la colorata precarieta’ del distretto in cui mi sono trasferita dopo la prima notte ha risvegliato l’immaginario di una favela brasiliana (ger a parte); gli edifici ultramoderni del centro con le pareti di specchio che riflettono il cielo mi han fatto pensare a Dubai o a una qualche citta’ degli Emirati Arabi, solo che anziche’ le dune del deserto, qui, oltre la citta’, si intravvedono morbidissime colline.
Ecco, alla vista di quelle curve verdi mi sento come un pulcino chiuso nel guscio rotto dell’uovo che e’ questa citta’: da un piccolo spiraglio riesco a sbrciare fuori e io lo so, lo vedo, che appena oltre al guscio mi aspetta un mondo meraviglioso e ne sono fortemente attratta. Sono qui a due passi che brucio di impazienza, devo solo trovare il modo. Di uscire.
La possibilita’ che la citta’ offre con maggior insistenza e’ quella del tour organizzato, ma non la voglio pendere in considerazione. Sono contraria al “tutto compreso”. Sono contraria a pagare ad un’agenzia l’esperienza di dormire nelle ger dei nomadi: l’accoglienza non si compra, non funziona cosi’. Abbiamo davvero cosi’ paura dell’incontro con gli altri da doverlo mediare con un’agenzia? Vale la pena comprare la sicurezza se il prezzo da pagare e’ l’autenticita’? Per me no. La mia idea era quella di affittare una macchina per spostarsi in modo autonomo e trovare qualcuno con cui dividere la spesa. Cosi’, oggi ho passato la giornata a inviare mail chiedendo consigli e a leggere e appiccicare bigliettini sulle bacheche delle varie guest house alla ricerca di nuovi compagni di viaggio. E in poche ore, li ho trovati. Abbiamo fissato un appuntamento nel pomeriggio, al quale mi sono presentata piena di speranza. Avvicinandomi al gruppo di ragazzi che aspettava al luogo dell’incontro, ho iniziato a studiarli… un gruppo dal fenotipo eterogeneo, una manciata di caratteri marcatamente arabeggianti sparsi qua e la’, qualche paio di occhi turchesi sotto riccioli corvini… israeliani, ti prego, fa che siano israeliani… ho cercato la prova del nove: i sandali. E sandali sono. “Ciao! Israeliani?” “Si’:Alon, Assaf, Adi e Dor, piacere!” “Piacere: Nicole” “Francese?” “No, italiana”. Credono sempre tutti che sia francese. Anche i francesi.
Ecco, se c’e’ qualcuno piu’ Rambo dei Rambo sovietici, quelli sono gli israeliani. Solo in modo diverso.Ne ho conosciuti un sacco di israeliani e ho imparato a riconoscerli (dai sandali: mai visto uno in infradito, neppure in spiaggia!) e ad apprezzarli, li ammiro per la risolutezza e per il fatto che in generale non sono un popolo lamentoso. E se devo chiudermi in tenda con dei perfetti sconosciuti per quasi un mese, poche lamentele e piedi ben areati sono un buon punto di partenza a mio parere.
Abbiamo fatto le dovute presentazioni, guardato la cartina assieme e domattina partiamo. Wow. Le cose si sono sistemate con una rapidita’ tale che ho a malapena il tempo per comprare l’attrezzatura necessaria. L’effcienza del destino e’ sbalorditiva.

Thursday, August 30, 2012

Welcome to Mongolia



Ulaanbataar (Mongolia), 6 agosto 2012

Ma io scherzavo! Riguardo al comitato di benvenuto, scherzavo!
Atterrata all’aeroporto di Ulaanbaatar, sono andata a prendere il pullman per il centro citta’, nonostante un’elegante signorina dietro al bancone “informazioni turistiche” mi avesse sviolinato la comodita’ del taxi. Taxi: 29 euro. Pullman: 30 centesimi. Signorina, grazie per la cartina omaggio, ma credo che prendero’ il pullman.
Arrivata quasi alla fermata, fiera di me per averla trovata, un signore accosta con un fuoristrada e mi offre un passaggio “Dove vai?” “In centro” “Ti porto io, che devo praticare un po’ di inglese!” stai scherzando?? Sono qui che mi do pacche sulla spalla da sola per congratulami di aver trovato la fermata, arrivi tu trullo trullo e mi cambi i programmi a pochi metri dalla vittoria… non se ne parla! “Vorrei prendere l’autobus…” “Ma sto andando in centro, ti ci posso portare, davvero!” “Grazie… e’ che vorrei proprio prendere l’autobus!” “Up to you!” up to me e sono in autobus.
Non ho idea di dove scendere perche’ sulla cartina della signorina i nomi delle vie sono egregiamente tradotti in inglese, peccato che nella vita vera siano scritti in cirillico! Arrivata in un punto che mi da la sensazione di essere il centro, scendo e mi infilo in un ristorante con l’intenzione di farmi dire da qualcuno di fronte ad un bel piatto di chissa’ cosa dove diavolo sono. Dalla coda di fronte alla cassa salta fuori un signore mongolo che parlucchia inglese e mi aiuta ad ordinare, anzi, mi aiuta a scegliere e poi ordina lui. E mi offre pure il pranzo. Mangiamo assieme, e’ una compagnia allegra e piacevole, e’ stato un viaggiatore e ora e’ cantante per professione, mi racconta dei suoi viaggi tra cui Venezia, mi fa vedere le foto in cui lui e sua moglie sorridono in Piazza San Marco. Mi fa piacere ascoltarlo. Finito il pranzo, nel poco tempo che ha a disposizione, si offre di aiutarmi a cercare un hotel, indirizzandomi verso quelli piu’ a buon prezzo. Caspita, grazie! Arrivati di fronte al bancone della reception scopro pero’ che non abbiamo lo stesso metro di misura: se venti dollari per lui e’ un buon prezzo, per me e’ assolutamente eccessivo. “Grazie, ma e’ troppo caro!” “Non ti preoccupare!” “Non mi preoccupo, e’ solo che per me e’ troppo caro…” “Non ci pensare!” Come non ci pensare? “Un amico e’ un amico” mi dice. Capisco, l’hotel e’ di un tuo amico, ma rimane il fatto che per me e’ troppo caro! Davvero, grazie e scusa per il disturbo, ma cerchero’ una guest house piu’ alla buona. Insisto. Insiste, sempre sorridendo, sempre sprizzando allegria. Alla fine mi dice “Ascolta, io non so il tuo nome, ma le persone sono tutte uguali. Sei qui da sola, non conosci la lingua e sono sicuro che se fossimo in Italia tu faresti lo stesso per me” tira fuori il portafoglio, paga lui, poi se ne va frettolosamente spiegando che deve andare a cantare, scusandosi di non potersi trattenere oltre, ma e’ in ritardo per le prove. Riesco a chiedergli il numero di telefono al volo, lui mi dice ancora “Cosi’ se hai bisogno di qualcosa mi chiami, ok?” Ma no, volevo usarlo per ringraziarti! Se ne va e io rimango piantata di fronte al bancone incredula. Mannaggia all’inglese e la sua assenza di genere: “l’amico” ero io.
Ha i capelli lunghi, una maglietta arancione e si fa chiamare BeatBat. Lo so, e’ un nome discutibile, ma se lo vedete in Italia apritegli al porta comunque come gliela aprirei io se fossi li’.

Wednesday, August 8, 2012

The terminal

Beijing (Cina), 5 agosto 2012

Passo il mio passaporto ad un giovane poliziotto sorridente. Lui lo afferra e se lo porta al di la’ del bancone, cosi’ non vedo cosa stia controllando. “Guardi la telecamera” mi dice. C’e’ uno schermo alla mia sinistra. Il monitor e’ diviso in due meta’: su una compare la fototessera del passaporto, aull’altra la mia faccia attutale, cosi’ come ripresa dalla viedeocamera. Buffo! Sembra il “prima… dopo” di un qualche trattamento dal dubbio beneficio. Mi studio, cerco di assumere la stessa espressione scazzata e stanca della foto e devo dire che non faccio nessuna fatica. Sono sempre io. Me lo ricordo il giorno in cui ho scattato quella foto: ero incazzata perche’, per colpa della posta, avevo dovuto rifare il passaporto e… a proposito!! “Scusi…” “Si’?” “Deve mettere dei timbri?” “Si’” “Posso chiederle un favore? Se puo’ metterli in una pagina usata a meta’ per non sprecare quelle vuote, perche’ me ne restano solo due…” “E no! Mi serve una pagina intera perhe’ devo metterti un timbro grosso, perche’, vedi?” mi indica il biglietto “Il tuo aereo parte domani!” Eh… non me lo ricordare, va! 5 ore e 45 di volo totali con un unico scalo nel mezzo. Un unico scalo di diciassette ore!! Potrei approfittare di questo visto di 24h per vedere Pechino, ma dovrei cecare un autobus o taxi, spendere chissa’ quanto, tornare comunque qui oppure cercare un hotel, svegliarmi all’alba domattina, non sentire la sveglia, perdere l’aereo, disperarmi, piangere… meglio se me ne sto buonina in aeroporto.
E cosi’ eccomi qua. Diciassette ore… mannaggia… The Terminal! Sono di nuovo sola: Martin continua in Malesia, io invece vado verso nord. Dopo due mesi passati insieme 24 ore al giorno, materialmente di lui mi restano solo i suoi piercing da capezzolo. Che pero’ io uso come orecchini. Eh, la vita… un giorno sei li’ e il giorno dopo di te non rimane che quel che tenevi attaccato ai capezzoli. Fa pensare. E il tempo per pensare non mi manca.
Mi ritrovo a rievocare la prima notte a Bangkok, quando, dopo esser crollata per il jet lag appena messo piede in ostello, mi sono svegliata e sono uscita… ed ero cosi’ felice di essere li’, in quella strada di merda piena di gente e insegne al neon, in una notte soffocante e appiccicosa, stanca, confusa… uno dei momenti piu’ belli della mia vita. Come aver passato mesi ad allenarsi per costruire quell’attimo, a bramarlo, a immaginarlo, a dubitare… e poi finalmente essere li’ e dirsi “l’ho fatto davvero!”. Quell’istante di consapevolezza di liberta’ e realizzazione e’ il risultato di tutto. E anche la partenza. Mi fa tanto di quel bene ripensarci!

Nessuno ti ha chiesto di tornarci!

Hanoi (Vietnam), 4 luglio 2012


Secondo il mio personalissimo metro di giudizio, forgiato su scala europea dalla cultura in cui sono nata e cresciuta, secondo il mio relativissimo concetto di pulizia, di efficienza, di estetica e piacevolezza, di “migliore” e “peggiore”… insomma, secondo il mio insignificante e parzialissimo parere, il Vietnam vince tutto.


Miglior cibo. Scegliendo assolutamente alla cieca da menu’ a me incomprensibili perche’ non tradotti in inglese, mi sono sempre trovata di fronte a piatti buoni nel peggiore dei casi, ma il piu’ delle volte eccezionali. Il peggio che mi e’ capitato e’ stato ricevere un succo di frutta (quale frutto non saprei) quando pensavo di aver ordinato del cibo… ecco perche’ costava cosi’ poco! Ho mangiato per strada zuppe -la famosa Pho- e noudles degni di chefs dai nomi altisonanti.
Miglior qualita’ delle sistemazioni. Anche se con un ventaglio qualitativo ridotto, nel senso che sistemazioni prorpio spartane non ne ho trovate. Forse avrei potuto cercare meglio. Ma a parita’ di prezzo, nel sud della Thailandia avevo una zanzariera per tener lontani pipistrelli e topi, mentre in Vietnam ho televisione con canali satellitari, frigobar, aria condizionata e acqua calda. Mi basterebbe un semplice letto pulito su cui dormire, pero’, insomma, non mi lamento…

Miglior organizzazione dei servizi pubblici e migliori infrastrutture. L’effetto “rullocell” delle strade del nord del Laos e’ un ricordo lontano… pero’ era divertente… a saltare sul sedile con il testone che sbatte contro il finestrino ogni volta che, nonostante la musica a tutto volume, ci si riusciva ad addormentare… Sono un ricordo lontano anche i trasporti pubblici cambogiani per le lunghe distanze, sui quali non posso esprimere un parere perche’ sono come la moglie dell’Ispettore Colombo: nessuno li ha mai visti. Solo una volta un pullman… ma e’ stato piu’ per caso che altro. Probabilmente avrei dovuto cercare meglio anche li’.
Miglior pulizia delle strade, delle stanze, dei bagni delle stazioni degli autobus…
Migliori paesaggi. Dalle spiagge deserte alle montagne verdi del nord, tra dune di sabbia, paesaggi collinari, tramonti sul fiume e risaie a perdita d’occhio…
Minor spesa totale. Ma, oltre ai prezzi effettivamente ridotti, forse questo dipende anche dal fatto che ho imparato ad orgnizzarmi e gestirmi meglio.
E, ultimo ma non ultimo, in assoluto miglior clacson bitonale. Soprattutto gli autobus. Incredibili.
Insomma, il Vietnam vince tutto. Sono sinceramente felice di aver avuto l’occasione di visitarlo e consiglierei a chiunque, ma proprio chiunque, di venirci perche’ credo ne valga la pena… ma io non ci tornerei mai. Nel nord, mai, nella maniera piu’ assoluta (e lo so benissimo che dicendolo ho firmato la mia condanna e tra poco, per scelta o per scherzo del destino, sono di nuovo qua).


Ho sentito di tutto prima di arrivare qui. Che la gente e’ aggressiva e insistente, che e’ impossibile instaurare relazioni cha vadano oltre l’interesse economico, che vengono imposti prezzi dieci volte superiori a quelli reali, che i furti nelle stanze d’albergo non si contano, che in Vietnam “people never smile.” Ho incontrato diverse persone che, pur avendo pianificato un soggiorno di un mese, sono scappate dopo due settimane, diecendosi che non aveva senso stare a sopportare una situazione quando il presupposto e’ quello di godersi il viaggio. Il che ha anche senso. A conti fatti, io credo che proprio dire che ci sia da scappare sia un’esagerazione, tuttavia capisco le loro motivazioni e sono quasi sicura che se avessero iniziato il viaggio dal sud, come ho fatto io, avrebbero proseguito. Ho percepito una differenza abissale tra nord e sud nel modo di relazionarsi. Questo non significa che a nord le persone siano peggiori: ho incontrato persone splendide, persone che mi hanno arricchita e che contribuiscono a dare un senso a questo viaggio… ma quell’energia che ci si sente attorno e che non so come si possa chiamare, quella sensazione generale, e’ stata troppo spesso troppo simile a quella dell’ufficio postale, di quelle volte in cui ti metti in coda e sai gia’ che ne uscirai con la giornata rovinata perche’ dietro al bancone qualcuno ha la luna storta. Pero’, pazienza, che sara’ mai? Lasciar correre. Mi avevano dipinto un quadro disastroso con cui in generale mi trovo in disaccordo. Certo in questi ultimi due giorni ad Hanoi sto contando le ore che mi separano dalla partenza. Certo non me ne vado con il dispiacere con cui ho lasciato altri Paesi. Certo non ho nessunissima intenzione di tornare qui e non vedo l’ora di togliere la corazza che mi sono messa addosso. Pero’ credo ci siano posti ben piu’ difficili nel mondo. Questo mi e’ sembrato poco confortevole, ma difficile e’ un’altra cosa. Poi questi sono solo pareri personali.
Sarebbe meraviglioso se fossimo tutti in grado di accogliere tutti e di farci accogliere da tutti… tuttavia, non credo che l’ospitalita’ mi sia dovuta. Quando c’e’, ringrazio. Ad ogni modo, se al prossimo giro gli organizzatori potessero farmi trovare un comitato di benvenuto, ecco non sarebbe male. Cosi’, per compensare…



Saturday, August 4, 2012

Hanoi in tre ore

Hanoi (Vietnam), 26 luglio 2012


Del centro del Vietnam ricordero’ principalmente il bip di “allarme febbre alta” del mio termometro elettrico. Bip-bip-bip-bip-bip-bip… “Ho capito, ho capito, basta!” “Quanto ho?” “Trentanove e quattro” “E quant’e’?” “E’ tanto” “Tanto quanto?” Calcolatrice, x 1,8 + 32 “Centodue e novantadue” “E’ tanto!”. Ricordero’ il bip del termometro e la conversione Celsius-Farenheit. Un pomeriggio Martin e’ voluto tornare in albergo a dormire. Mai successo prima, per cui mi sono insospettita come una mamma di fronte a un figlio piu’ calmo del solito, gli ho posato una mano sulla fronte e mi e’ uscito di bocca un “God!! You’re burning like hell!!” tanto per scomodare contemporaneamente le alte e le basse sfere. A ragione: son stati giorni lunghi, sono successi dei disguidi tipo un inutile e costosissimo ricovero ospedaliero da cui l’ho praticamente rapito portandolo via con la flebo ancora attaccata al braccio. Alla fine si e’ risolto tutto per il meglio. 



Chiusa la questione febbre, arriviamo in capitale per alcune faccende da sbrigare in un pomeriggio e poi via di corsa fuori dalla citta’. La mia faccenda: richiedere il visto per la prossima meta. Il piano: mentre Martin cerca di procurare i biglietti del pullman per domani, io vado in ambasciata. Ho l’indirizzo, mi sono scritta su un foglio come arrivarci. Sono le due, chiude alle cinque, tre ore sono piu’ che sufficienti. Esco in strada e parto.
14.00 Hanoi e’ un’altra cittadona caotica. Il quatiere in cui stiamo sembra un po’ un paesino con il traffico della grande citta’. Le strade sono strette e costeggiate da alberi bassi che procurano si’ una salvifica ombra, ma fanno apparire tutto ancor piu’ congestionato di quanto gia’ non sia. Donne vendono fiori o verdura trasportandola in canestri dietro la bici, frutta in ceste appese a un’asta poggiata sulle spalle, dolci fritti sul momento su bracieri posati sui marciapiedi.
Ovunque, tavolini e sgabelli di plastica, di quelli bassi, come all’asilo, su cui sedersi e bere un caffe’ o un te. Uomini seduti sui motorini fermi ad ogni angolo, ogni pochi minuti ti offrono un passaggio “Motorbike? Taxi motorbike?” “No, thank you” “Where you going?” “Not far” “Motorbike?” “No” … “Lady, motorbike? Taxi motorbike?” “No, thanks” “Where you going? You want taxi?” “No”… Gira a destra, gira a sinistra, trovo senza difficolta’ tutte le vie che mi sono segnata e mi avvicino a destinazione felice e soddisfatta.
14.30 Arrivo in un quartiere tranquillo con vioni larghi e marciapiedi piastrellati e sgombri. Meno motorini, piu’ macchine, rari passanti incamiciati. Imbocco la via che dovrebbe costituire la mia meta finale. Non ho un numero civico. Pazienza, penso, la via e’ questa, per quanto lunga prima o poi finira’. La percorro tutta su un lato. Poi sull’altro. Ci sono decine di ambasciate, ma, ovviamente, non trovo quella che serve a me.
15.00 Ogni ambasciata e’ un villone protetto da un muro altissimo. Di fronte ad ogni cancello c’e’ un giovane militare di guardia. Ripercorro la via su entrambi i lati interrogando ognuno… dico il nome, lo ripeto, lo scrivo… nulla. Nessuno sa darmi indicazioni.
15.30 Alla fine un’indicazione salta fuori: qui a destra, poi la seconda a sinistra. Vado. Macche’. Altri uffici, poi la via si trasforma e prosegue con negozi di abbigliamento, ferramenta, barbieri, meccanici, fiorai, ognuno dei quali riversa all’esterno dell’edificio la propria attivita’ trasformando i marciapiedi –dove percorribili- in percorsi ad ostacoli in cui ogni tanto, per non farsi mancare niente, compare anche qualche motorino che ti suona alle spalle per farsi strada. E’ stancante, il cervello e’ bombardato di informazioni, suoni, clacson, colori, uccelli in gabbie appese agli alberi, odori, acqua sporca versata per strada, facce, “Motorbike, lady?”, mobili caricati su cyclo, gente che ti taglia la strada, e soprattutto cose, cose dappertutto… e’ il tripudio dell’oggettistica, con scritte a me incomprensibili sparse qua e la’: e‘ l’Ikea! E proprio come dopo un’ora all’Ikea, l’attenzione e’ ormai esaurita, potrei sbattere il muso contro il cancello dell’ambasciata e non me ne renderei conto. E alla fine ne uscirei con delle candele profumate.


16.00 Cosa sto facendo? Sto girando a caso! Martin avra’ gia’ comprato i biglietti per domani, devo richiedere il mio visto assolutamente oggi pomeriggio! C’e’ solo una soluzione: google. Cammino cercando ora un internet point, ma nulla… addocchio un hotel e mi ci fiondo dentro. Ci sono due ragazze eleganti e profumate dietro al bancone della reception. Porte vetrate scorrevoli, aria condizionata e fiori finti, silenzio. “Per favore, posso usare la vostra connessione?” Sono sudata e stanca, faccio schifo. Mi accordano il permesso per pieta’ suppongo. Trovo almeno quattro indirizzi diversi per l’ambasciata. Ne scelgo uno a caso ed esco di nuovo in strada, affrettata e innervosita.
16.30 Mezzora. Non ci arrivero’ mai a piedi, mi serve una moto. Una moto, una moto… scruto tutti gli angoli, incrocio tutti gli sguardi, ma ora che ne ho bisogno nessuno mi offre uno straccio di passaggio. Cammino sentendomi un po’ un verme attaccato all’amo e dopo un’attesa che mi sembra interminabile, ecco che qualcuno abbocca: “Motorbike?” Si’! Gli mostro l’indirizzo, discuto il prezzo, infilo il casco e andiamo.
16.50 Suono il campanello dell’ambasciata. Mi apre un signore che sembra un po’ una rana e che non mi parla. Non dira’ una parola che sia una durante il tempo necessario per compilare tutti i moduli.
Quando esco mi sembra di volare. Torno all’hotel attraversando di nuovo questa citta’ sullo scooter e quasi dimentico di odiarla, quasi dimentico di essere qui talmente sono stanca. Arrivo in stanza e, felice di esser circondata da pareti bianche, felice di essere sola, felice di non sentire i rumori della strada, mi spengo.