Del centro del Vietnam ricordero’ principalmente il bip di “allarme
febbre alta” del mio termometro elettrico. Bip-bip-bip-bip-bip-bip… “Ho
capito, ho capito, basta!” “Quanto ho?” “Trentanove e quattro” “E
quant’e’?” “E’ tanto” “Tanto quanto?” Calcolatrice, x 1,8 + 32 “Centodue
e novantadue” “E’ tanto!”. Ricordero’ il bip del termometro e la
conversione Celsius-Farenheit. Un pomeriggio Martin e’ voluto tornare in
albergo a dormire. Mai successo prima, per cui mi sono insospettita
come una mamma di fronte a un figlio piu’ calmo del solito, gli ho
posato una mano sulla fronte e mi e’ uscito di bocca un “God!! You’re
burning like hell!!” tanto per scomodare contemporaneamente le alte e le
basse sfere. A ragione: son stati giorni lunghi, sono successi dei
disguidi tipo un inutile e costosissimo ricovero ospedaliero da cui l’ho
praticamente rapito portandolo via con la flebo ancora attaccata al
braccio. Alla fine si e’ risolto tutto per il meglio.
Chiusa la questione febbre, arriviamo in capitale per alcune faccende
da sbrigare in un pomeriggio e poi via di corsa fuori dalla citta’. La
mia faccenda: richiedere il visto per la prossima meta. Il piano: mentre
Martin cerca di procurare i biglietti del pullman per domani, io vado
in ambasciata. Ho l’indirizzo, mi sono scritta su un foglio come
arrivarci. Sono le due, chiude alle cinque, tre ore sono piu’ che
sufficienti. Esco in strada e parto.
14.00 Hanoi e’ un’altra cittadona caotica. Il quatiere in cui stiamo
sembra un po’ un paesino con il traffico della grande citta’. Le strade
sono strette e costeggiate da alberi bassi che procurano si’ una
salvifica ombra, ma fanno apparire tutto ancor piu’ congestionato di
quanto gia’ non sia. Donne vendono fiori o verdura trasportandola in
canestri dietro la bici, frutta in ceste appese a un’asta poggiata sulle
spalle, dolci fritti sul momento su bracieri posati sui marciapiedi.
Ovunque, tavolini e sgabelli di plastica, di quelli bassi, come
all’asilo, su cui sedersi e bere un caffe’ o un te. Uomini seduti sui
motorini fermi ad ogni angolo, ogni pochi minuti ti offrono un passaggio
“Motorbike? Taxi motorbike?” “No, thank you” “Where you going?” “Not
far” “Motorbike?” “No” … “Lady, motorbike? Taxi motorbike?” “No, thanks”
“Where you going? You want taxi?” “No”… Gira a destra, gira a sinistra,
trovo senza difficolta’ tutte le vie che mi sono segnata e mi avvicino a
destinazione felice e soddisfatta.
14.30 Arrivo in un quartiere tranquillo con vioni larghi e
marciapiedi piastrellati e sgombri. Meno motorini, piu’ macchine, rari
passanti incamiciati. Imbocco la via che dovrebbe costituire la mia meta
finale. Non ho un numero civico. Pazienza, penso, la via e’ questa, per
quanto lunga prima o poi finira’. La percorro tutta su un lato. Poi
sull’altro. Ci sono decine di ambasciate, ma, ovviamente, non trovo
quella che serve a me.
15.00 Ogni ambasciata e’ un villone protetto da un muro altissimo. Di
fronte ad ogni cancello c’e’ un giovane militare di guardia. Ripercorro
la via su entrambi i lati interrogando ognuno… dico il nome, lo ripeto,
lo scrivo… nulla. Nessuno sa darmi indicazioni.
15.30 Alla fine un’indicazione salta fuori: qui a destra, poi la
seconda a sinistra. Vado. Macche’. Altri uffici, poi la via si trasforma
e prosegue con negozi di abbigliamento, ferramenta, barbieri,
meccanici, fiorai, ognuno dei quali riversa all’esterno dell’edificio la
propria attivita’ trasformando i marciapiedi –dove percorribili- in
percorsi ad ostacoli in cui ogni tanto, per non farsi mancare niente,
compare anche qualche motorino che ti suona alle spalle per farsi
strada. E’ stancante, il cervello e’ bombardato di informazioni, suoni,
clacson, colori, uccelli in gabbie appese agli alberi, odori, acqua
sporca versata per strada, facce, “Motorbike, lady?”, mobili caricati su
cyclo, gente che ti taglia la strada, e soprattutto cose, cose
dappertutto… e’ il tripudio dell’oggettistica, con scritte a me
incomprensibili sparse qua e la’: e‘ l’Ikea! E proprio come dopo un’ora
all’Ikea, l’attenzione e’ ormai esaurita, potrei sbattere il muso contro
il cancello dell’ambasciata e non me ne renderei conto. E alla fine ne
uscirei con delle candele profumate.
16.00 Cosa sto facendo? Sto girando a caso! Martin avra’ gia’
comprato i biglietti per domani, devo richiedere il mio visto
assolutamente oggi pomeriggio! C’e’ solo una soluzione: google. Cammino
cercando ora un internet point, ma nulla… addocchio un hotel e mi ci
fiondo dentro. Ci sono due ragazze eleganti e profumate dietro al
bancone della reception. Porte vetrate scorrevoli, aria condizionata e
fiori finti, silenzio. “Per favore, posso usare la vostra connessione?”
Sono sudata e stanca, faccio schifo. Mi accordano il permesso per pieta’
suppongo. Trovo almeno quattro indirizzi diversi per l’ambasciata. Ne
scelgo uno a caso ed esco di nuovo in strada, affrettata e innervosita.
16.30 Mezzora. Non ci arrivero’ mai a piedi, mi serve una moto. Una
moto, una moto… scruto tutti gli angoli, incrocio tutti gli sguardi, ma
ora che ne ho bisogno nessuno mi offre uno straccio di passaggio.
Cammino sentendomi un po’ un verme attaccato all’amo e dopo un’attesa
che mi sembra interminabile, ecco che qualcuno abbocca: “Motorbike?”
Si’! Gli mostro l’indirizzo, discuto il prezzo, infilo il casco e
andiamo.
16.50 Suono il campanello dell’ambasciata. Mi apre un signore che
sembra un po’ una rana e che non mi parla. Non dira’ una parola che sia
una durante il tempo necessario per compilare tutti i moduli.
Quando esco mi sembra di volare. Torno all’hotel attraversando di nuovo
questa citta’ sullo scooter e quasi dimentico di odiarla, quasi
dimentico di essere qui talmente sono stanca. Arrivo in stanza e, felice
di esser circondata da pareti bianche, felice di essere sola, felice di
non sentire i rumori della strada, mi spengo.